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L’EQUILIBRIO NARCISISTICO: UN POLIGONO DI FORZE
Nel diagramma 6 (Figura 2, pag. 94) sono indicati gli elementi che intervengono nel processo di
abbassamento dell’autostima. Ogni settore considerato (rappresentazione svalutata del Sé, ambizioni
e ideali elevati, severità della coscienza critica) è in grado di generare uno squilibrio dell’autostima,
dando origine a un sottotipo specifico di patologia narcisistica correlato al settore che ha preso il
sopravvento, sottotipo che richiederà uno specifico approccio terapeutico. Il caso di un paziente che
nutre una scarsa autostima perché fin da piccolo gli è stato fatto sentire di essere incapace, brutto e
stupido (deficit primario di narcisizzazione) è ben diverso da quello in cui un paziente sente di essere
un fallito perché i genitori lo hanno sempre considerato un genito – ipernarcisizzazione primaria –
inoculandogli però al tempo stesso mete così ambiziose e al di sopra delle sue possibilità da rendergli
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impossibile, qualsiasi cosa facesse, di mostrarsi all’altezza di queste aspettative megalomaniche. In
questa seconda evenienza ci troviamo di fronte a un collasso narcisistico secondario successivo a
una ipernarcisizzazione primaria. Figura 2. Diagramma 6.
Nel primo caso, quando il fattore predominante è una rappresentazione svalutata del Sé (deficit
primario di narcisizzazione), la persona si deprime perché non è come gli altri osserva il mondo e
soffre per sentirsi più brutto, più stupido e meno abile di tutti gli altri. Quando invece l’abbassamento
dell’autostima è dovuto ad aspettative patologicamente elevate, la persona sta male perché si sente
proprio come il resto del mondo, parità che, filtrata da suo codice narcisistico, gli rimanda
un’immagine di mediocrità, dal momento che mirava a essere superiore, fuori dal comune.
In altre persone l’abbassamento dell’autostima è prodotto dalla severità della coscienza critica,
secondo le due varianti che andiamo ora a esporre.
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1. La persona non tollera nessuna presa di distanze da quegli ideali, ambizioni, norme e valori
che costituiscono i criteri della sua condotta. In questo caso tali criteri potranno essere elevati
o meno, o magari del tutto corrispondenti ai valori medi della cultura in cui vive il soggetto,
ma il punto centrale è dato dall’incapacità di quest’ultimo di ammettere qualsiasi attenuante
per il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dai suoi ideali. Trattandosi di ideali
relativi all’applicazione degli ideali (“non allontanartene mai”) è opportuno chiamarli
“metaideali”. Sono tipici delle personalità che giudicano rigidamente, tanto se stessi quanto il
prossimo, secondo norme e ideali che non ammettono sfumature: queste persone accettano se
stesse e gli altri fin quando aderiscono a tali criteri, in caso contrario la risposta è il rifiuto. In
questi casi il soggetto sta bene con se stesso nel momento in cui aderisce agli ideali.
2. La seconda variante è costituita da quei soggetti pieni di ostilità verso se stessi, che si
auto-osservano con lo stesso accanimento con cui un individuo prevenuto cerca i difetti nelle
persone odiate. In queste persone l’intenzionalità aggressiva precede, guida, organizza e
modella il processo di autovalutazione. Il desiderio di aggredire fa emettere il giudizio in
anticipo, a prescindere dai fatti: si cercheranno gli argomenti adatti per approdare alla
conclusione più negativa possibile, o innalzando gli ideali di rifermento e le mete da
raggiungere o degradando la rappresentazione del Sé. Quando la severità della coscienza
critica dipende dall’odio verso se stessi, non può esservi requie dal momento che
l’intenzionalità aggressiva decide comunque, fin dal primo momento, che il soggetto è
inadeguato.
Dobbiamo sempre tener presente che si tratta di un triandolo di forze e che il risultato finale dipende,
da una parte, dal peso relativo di ogni componente e, dall’altra, dalla loro articolazione reciproca. In
alcuni casi le tre dimensioni possono convergere in un’unica direzione (un soggetto con una
rappresentazione svalutata di sé, ambizioni elevate, una coscienza critica molto severa e una spiccata
autoaggressività), mentre in altre configurazioni una dimensione può servire a compensare l’anomalia
delle altre due. L’EQUILIBRIO NARCISISTICO INTRAPSICHICO
E LA SUA RELAZIONE CON L’OGGETTO ESTENO
L’opera freudiana studia l’equilibrio narcisistico a partire dall’interazione tra il Super-io e la
rappresentazione dell’Io. Resta comunque il fatto che l’oggetto esterno interviene in modo decisivo
sull’equilibrio narcisistico: non solo nella sua funzione di supporto del Super-io (il soggetto si sentirà
amato o rifiutato in seguito alla proiezione sull’oggetto esterno del modo in cui guarda se stesso), ma
anche perché può modificare la rappresentazione del soggetto o agire come sua istanza critica.
La collocazione del Super-io nella figura esterna a cui il soggetto delega alcune proprie funzioni, o la
proiezione del proprio Super-io sull’altro al fine di sfuggire al senso di colpa o alle responsabilità
indotte da questa istanza, sono processi riscontrabili soltanto in quei soggetti in cui il Super-io si è
effettivamente costituito come struttura intrapsichica. La strutturazione del Super-io è infatti frutto di
un processo lungo e per nulla scontato e vi sono persone in cui il Super-io non è riuscito, quale ne sia
la ragione, ad acquisire le caratteristiche di una struttura psichica o a disporre dello status e del potere
che gli sono propri in altri soggetti. Il Super-io è rimasto a un livello prestrutturale: non vi è stata
quindi interiorizzazione delle norme e degli ideali, o è mancato l’investimento da parte della libido
idealizzante (Kohut, 1971). In questi casi la figura esterna svolge un ruolo essenziale, poiché continua
ad essere la fonte delle rappresentazioni del soggetto e a esercitare le funzioni del Super-io: ovvero
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dispensare ideali e norme, e agire come istanza critica che valuta in che misura la rappresentazione
del Sé si distanzia dalle rappresentazioni fissate da tali norme e tali ideali.
Kohut ha precisato in che modo l’oggetto, da lui chiamato “oggetto-Sé”, svolge le sue principali
funzioni: il rispecchiamento (ammirare il soggetto) e l’offerta al soggetto un’immagine genitoriale
idealizzata con cui egli possa identificarsi godendo di tale idealizzazione. Secondo Kohut queste
funzioni sono competenza originaria dell’oggetto esterno e solo successivamente sono interiorizzate
dal soggetto e trasformate in strutture intrapsichiche, nella misura in cui si siano date le condizioni di
“frustrazione ottimale”. La frustrazione da parte dell’oggetto esterno deve cioè essere graduale e non
massiccia, in modo tale che il soggetto, man mano che viene disilluso dall’oggetto esterno, possa
rilevarne gradualmente le funzioni. Nei casi di disturbi narcisistici descritti da Kohut, la mancata
“internalizzazione trasmutante” fa sì che il soggetto continui a dipendere dall’oggetto esterno, da cui
spera di ottenere la valorizzazione di cui ha bisogno, sia continuando a riceverne ammirazione sia
fondendosi con esso e con il suo valore.
Blatt ha distinto due tipi di personalità: da un lato i “dipendenti”, o “anaclitici”, che basano la propria
autostima sull’oggetto esterno; dall’altro gli “introiettivi”, o “autocritici”, per i quali ciò che conta è
il giudizio che formulano su se stessi a partire dal proprio Super-io.
Le personalità dipendenti, o anaclitiche, che sentono ogni soddisfazione e gratificazione come
proveniente soltanto dall’esterno, darebbero luogo a un quadro clinico depressivo in seguito alla
perdita (per abbandono, morte o separazione) dell’oggetto d’amore, quadro clinico chiamato da Blatt
depressione anaclitica. La depressione anaclitica sarebbe caratterizzata da sentimenti di solitudine,
di vulnerabilità, di debolezza, da bisogno di sentirsi amato, di essere in contatto fisico, di essere
accudito, tranquillizzato, alimentato e protetto dall’oggetto d’amore. Durante il trattamento questi
pazienti cercano il contatto con il terapeuta e presentano intense angosce di separazione. Nelle
depressioni anaclitiche, caratterizzate dalla dipendenza dall’oggetto esterno, il sostegno e il legame
terapeutico assurgono a elementi fondamentali per il paziente, che nella cornice di un transfert
positivo manifesterà miglioramenti in certi casi anche notevoli.
La depressione introiettiva si produrrebbe invece quando la persona sente di non realizzare i successi,
gli obiettivi e le aspirazioni richiesti dal suo Super-io. Il paziente in questo caso è una persona
competitiva, perfezionista, dedita al lavoro, dominata dall’autocritica, da un Super-io severo, da sensi
di colpa e di inferiorità. Per lui non c’è relazione interpersonale che conti quanto un successo sul
lavoro o un obiettivo raggiunto. A scatenare la depressione, perciò, non è una perdita amorosa o un
conflitto interpersonale, ma un fallimento nella realizzazione del Sé, nel senso di capacità di
raggiungere i propri traguardi, nel senso di autonomia e di controllo della propria vita. Nelle
depressioni dei pazienti dipendenti dal loro Super-io, l’appoggio del terapeuta o dell’ambiente
circostante è spesso scarsamente valutato dall’interessato, se non addirittura rifiutato e ciò li rende
impermeabili agli interventi terapeutici di sostegno. Sono inoltre pazienti che si sentono spesso
umiliati dall’aiuto terapeutico che viene loro offerto, dal momento che il grande valore che essi
attribuiscono all’autonomia e alla non dipendenza trasforma ai loro occhi il bisogno di cura in un
difetto ulteriore. Entrano facilmente in rivalità con il terapeuta, poiché l’autodefinizione di sé e
l’autogoverno della propria esistenza detengono per essi un valore difficilmente superabile. In questi
pazienti soltanto l’analisi del Super-io e delle sue aspettative esagerate, accompagnata da una
progressiva accettazione dei propri limiti, può innescare qualche cambiamento.
Possiamo schematizzare quanto appena esposto a proposito dei tipi di depressione mediante il
diagramma in Figura 3Error! Reference source not found. (pa