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1.3 ALCUNE CONSEGUENZE DELLA CATEGORIZZAZIONE SOCIALE
Nell’analizzare la teoria realistica del conflitto di gruppo, Brown notò che una delle difficoltà in cui
essa cadeva era la seguente: perché sorgesse un pregiudizio a favore dell’ingroup nelle valutazioni
dei soggetti non sembrava necessaria la presenza di obiettivi conflittuali. Lo stesso Sherif aveva
osservato casi fortuiti di rivalità spontanea fra gruppi anche prima dell’avvio della fase competitiva
questi pregiudizi a favore dell’ingroup è ad oggi
dei suoi esperimenti. La facilità con cui si producono
un fenomeno assodato.
In una rassegna di risultati ottenuti dalla ricerca sulle relazioni intergruppi negli ultimi 30 anni, era
stato documentato un orientamento a favore dell’ingroup: questa massa di prove ha spinto i ricercatori
a chiedersi se la semplice categorizzazione di un individuo come membro di un gruppo basti da sola
a far scattare una discriminazione intergruppi.
La mera appartenenza ad un gruppo e la discriminazione intergruppi. Rabbie e Horwitz furono
i primi ad esaminare questo problema: essi trovarono che i bambini di età scolare venivano suddivisi
in due gruppi arbitrari, i biases in favore dell’ingroup che emergevano nei loro punteggi intergruppi
erano molto limitati. Quando tale divisione di gruppo era accompagnata da una certa interdipendenza
del destino, allora quei biases diventavano più evidenti.
Tuttavia, Tajfel e colleghi portarono questo paradigma del gruppo minimo ad un ulteriore stadio
mostrando in modo conclusivo che la sola categorizzazione era sufficiente per suscitare un
favoritismo intergruppi. Questo favoritismo assumeva la forma non di un semplice bias nei giudizi
78
carta e matita, ma di una discriminazione comportamentale distinta che influenzava la distribuzione
delle ricompense.
In diversi studi condotti negli anni, si è notato che il semplice atto di assegnare gli individui a
categorie sociali arbitrarie è sufficiente per produrre dei giudizi preconcetti e un comportamento
discriminatorio. Malgrado però questo consenso a livello empirico, il paradigma del gruppo minimo
ha suscitato alcune controversie. Queste si sono focalizzate sull’interpretazione dei dati osservati
come indici di discriminazione o equità, su possibili caratteristiche di richiesta associate al paradigma,
sul trattamento statistico dei dati, su modi contrastanti di misurare gli orientamenti intergruppi, sui
dubbi a proposito della validità esterna del paradigma associata con il suo livello elevato di artificialità
e rispetto al grado in cui l’interesse economico può spiegare la discriminazione che di solito si
osserva.
Vi sono due osservazioni che Brown fa sui due item più importanti:
Riguarda l’eventualità che i partecipanti a questi esperimenti stessero veramente mostrando
o un favoritismo nei confronti dell’ingroup o, esibissero un comportamento meglio descrivibile
come forma particolare di “equità”. Brown sostiene che se i soggetti mostrano una
propensione a parificare i risultati dell’ingroup e dell’outgroup, è vero che sono quasi sempre
più equi nei confronti dei membri dell’ingroup rispetto a quelli dell’outgroup.
Un’eccezione interessante alla diffusione della discriminazione nel minimal group si ha
quando la decisione comporta la distribuzione di penalità o di stimoli negativi. Mummendey
e colleghi, in esperimenti che comportavano la distribuzione di risultati negativi (es. rumore
spiacevole per un certo tempo), hanno notato la scomparsa totale della discriminazione
intergruppi e la prevalenza di strategie dirette a distribuire equamente i risultati o a
minimizzare la quantità complessiva di stimoli negativi. La discriminazione intergruppi
riemergeva solo in alcune circostanze (es. quando i soggetti appartenevano a un gruppo
subordinato o minoritario sul piano dello status).
o Il secondo problema è se la comparsa della discriminazione intergruppi nella situazione del
gruppo minimo possa essere spiegata come un effetto di motivazioni e di interessi soggettivi.
L’ipotesi sembra paradossale giacchè il paradigma del gruppo minimo è stato ideato proprio
per eliminare l’influenza degli interessi soggettivi impedendo ai soggetti di assegnare del
denaro a se stessi. Secondo Rabbie, Schott e Visser potrebbe entrare in gioco la percezione di
una interdipendenza che a sua volta potrebbe spingere le persone a riconoscere i benefici
massimi possibili ai membri del proprio gruppo e così facendo, a riceverne in cambio. Per
valutare tale ipotesi, Rabbie, Schott e Visser hanno proposto 2 variazioni della situazione
standard del gruppo minimo:
- Hanno chiarito ai partecipanti che avrebbero ricevuto solo ciò che altri membri del gruppo
avrebbero dato loro. solo ciò che i membri dell’altro
- Hanno chiarito ai partecipanti che avrebbero ricevuto
gruppo avrebbero dato loro.
Queste modifiche ebbero un effetto prevedibile sulle strategie di distribuzione delle
ricompense adottate dai partecipanti: coloro che si trovano a dipendere unicamente dal proprio
un atteggiamento ancora più favorevole verso l’ingroup che nella
gruppo, esprimevano
condizione standard, mentre coloro che si trovavano a dipendere unicamente dal gruppo
esterno, esprimevano un atteggiamento meno favorevole nei confronti del proprio gruppo se
un orientamento a favore dell’outgroup.
non addirittura
Anche altri ricercatori hanno dimostrato che legando il destino delle persone a quello di altre si riduce,
anche se non sempre si elimina, l’orientamento a favore del proprio gruppo. 79
Queste ricerche dimostrano che le persone rispondono a considerazioni che hanno a che vedere con i
loro personali interessi quando le si rende esplicite.
Quali sono i limiti di tali ricerche?
❖ Non riescono però a dimostrare che l’interesse soggettivo spiega la discriminazione spesso
osservata nelle situazioni standard di gruppo minimo.
❖ Resta da spiegare perché l’essere categorizzati come membri di un gruppo debba di per sé
generare aspettative particolari sul comportamento di altri.
Il legame fra aspettative di reciprocità e comportamento reale non è affatto semplice, come ha
dimostrato Diehl, in un esperimento nel quale i soggetti, dopo aver ricevuto informazioni errate sulle
presunte strategie di distribuzione delle risorse da parte dei membri del gruppo esterno, dovevano
successivamente dichiarare come intendevano distribuire le ricompense.
Emerse una correlazione fra le intenzioni espresse dai soggetti e le loro previsioni sul comportamento
futuro dei membri del gruppo esterno. Quando però si guardava al comportamento reale, non si
evidenziava alcuna differenza sensibile fra coloro che si attendevano un comportamento equo da parte
dell’outgroup e coloro che prevedevano un comportamento discriminatorio.
Infine, esistono dati secondo cui, anche quando gli interessi economici dei partecipanti alle situazioni
di gruppo minimo vengono pienamente soddisfatti, continua ad essere presente qualche forma di
discriminazione intergruppi.
Pertanto, anche se la percezione della presenza di una interdipendenza e reciprocità può giocare un
ruolo nel guidare il comportamento dei membri di un gruppo in certe circostanze, essa non consente
di spiegare da sola i fenomeni di discriminazione intergruppi che si presentano nelle situazioni di
gruppo minimo.
Omogeneità percepita nel gruppo. Due fra le conseguenze che la categorizzazione produce sono
l’amplificazione delle differenze intergruppi e il rafforzamento delle somiglianze intragruppo.
Si ritiene comunemente che le persone tendano a percepire i membri di un gruppo esterno come più
loro dei membri del proprio gruppo, come se pensassero: “Loro sono tutti uguali, mentre
simili fra
noi siamo tutti diversi”. Jones, Wood e Quattrone hanno chiesto ai membri di alcune associazioni
universitarie di valutare la somiglianza dei consoci rispetto a un certo numero di dimensioni di tratto.
I ricercatori riscontrarono una tendenza costante a considerare i membri dei gruppi esterni più simili
fra loro dei membri del proprio gruppo.
Come spiegare questo effetto di percezione di omogeneità nell’outgroup?
Un’ipotesi è che esso scaturisca dalla diversa quantità di informazioni di cui l’osservatore dispone
rispetto ai membri del proprio e di altri gruppi.
Solitamente gli individui che compongono il nostro gruppo, interagiamo con essi più spesso e, di
conseguenza, siamo più consapevoli delle differenze che li separano.
I membri del gruppo esterno, invece, essendo meno conosciuti tendono ad essere percepiti in modo
più globale e indifferenziato. Questo modello sottolinea l’importanza della diversa familiarità che
l’osservatore ha con i membri del proprio e di altri gruppi.
Vi è poi un secondo modello che sostiene che non conta tanto l’informazione su una serie di esemplari
specifici, ma la natura complessiva della categoria: secondo questa prospettiva, l’osservatore non ha
in testa un elenco di persone specifiche del proprio o di altri gruppi a lui note, ma concetti più astratti
delle categorie nel loro insieme, modellati sul membro prototipico di ciascuna di esse più qualche
stima della variabilità rispetto a questa persona tipica.
La ragione che spinge a considerare l’ingroup più variabile dell’outgroup sta nel fatto che il concetto
di questa categoria è insieme più importante, più concreta e più provvisoria. 80
La prima ipotesi che potremmo chiamare di “familiarità”, non ha ricevuto particolare supporto
empirico. Linville, Fischer e Salovey hanno riscontrato che gli studenti frequentatori di un corso
universitario valutavano i loro compagni in modo sempre più diversificato. Hanno poi dimostrato
mediante una simulazione al computer che un aumento della variabilità percepita può associarsi a
modificazioni nella familiarità. Questi risultati contrastano con quelli ottenuti da altri studi che non
hanno documentato alcun rapporto fra variabilità percepita e familiarità o addirittura una correlazione
inversa. cui si scontra l’ipotesi della familiarità è che l’effetto di omogeneità
Un altro problema con
dell’outgroup può essere osservato anche in situazioni di gruppo minimo dove le informazioni
sull’ingroup e sull’outgroup sono prossime allo zero giacchè entrambi i gruppi interessati sono
anonimi.
Più problematici sono i dati provenienti da diversi studi che hanno esaminato le valutazioni di
variabilità date dai soggetti nel corso del processo di formazione del gruppo.
Brown e Wootton-Millward hanno studiato per un anno intero alcuni gruppi di infermiere in
- Risolvere un problema di matematica
- Riassumere un testo
- Tradurre una frase
- E molto altro ancora...
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