Riassunto Esame Psicologia sociale, Docente Mannarini Terri, Libro consigliato manuale di psicologia sociale di Palmonari, Cavazza, Rubini
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un punto o su un altro, ma non indicano la necessità di un’azione.
L’atteggiamento è un’organizzazione critica che esprime un orientamento positivo o negativo nei
confronti di un oggetto. Non è un insieme di opinioni ma fornisce un ordine dato in modo attivo a
queste opinioni ed ha un effetto selettivo sull’insieme delle manifestazioni di un soggetto.
La stereotipia invece, designa uno stato di semplificazione delle dimensioni degli stimoli e di
rigidità. Lo stereotipo implica un consenso completo fra i componenti di un gruppo, a differenza
degli atteggiamenti e delle opinioni.
Un altro tipo di sistema di comunicazione è orientato a costruire un atteggiamento positivo e porta
alla proposta, che spinge ad integrare gli aspetti positivi e le critiche, attraverso una elaborazione
sovra-ordinata.
Sviluppi recenti
Lo studio sulle rappresentazioni sociali segue 2 vie diverse:
una orientata alla struttura della conoscenza oggettiva e condivisa che dà luogo alla
o rappresentazione
l’altra caratterizzata in chiave sociodinamica orientata ad indagare i modi in cui gli attori
o sociali elaborano la conoscenza della realtà.
La Scuola di Aix-en-provence
La definizione di rappresentazione sociale data da questa scuola non si discosta da quella di
Moscovici se non per un marcato accento sulla struttura: una rappresentazione sociale è un insieme
organizzato e gerarchico di giudizi, atteggiamenti e informazioni che un gruppo sociale elabora a
proposito di un oggetto. Le rappresentazioni sociali risultano da un processo di appropriazione della realtà,
sono interiorizzate dai membri di un gruppo e quindi condivise collettivamente.
Il proposito di questa scuola è quello di chiarire quale è la struttura delle rappresentazioni sociali,
per dare una risposta al problema del consenso. Ogni rappresentazione sociale è organizzata intorno
ad un nucleo centrale che ne determina il significato e l’organizzazione e la base sociale e collet-
tiva su cui si esercita un consenso unanime. Il nucleo centrale ha diverse funzioni:
stabilizzatrice, assicura la coerenza della rappresentazione dato che il nucleo è una parte
o consensuale non negoziabile
generatrice, attribuisce significato anche agli elementi che non sono in relazione con il
o nucleo centrale
organizzatrice, organizza il legame tra gli elementi della rappresentazione; è il principio
o organizzatore degli elementi periferici.
Le rappresentazioni sociali sono costituite da un insieme di elementi in relazione tra loro, ma non si
tratta di un sistema perché il cambiamento di un solo elemento non provoca mutamenti di tutta la
rappresentazione. Solo il nucleo centrale è un sistema, perché un suo cambiamento cambia tutta la
rappresentazione.
Gli elementi contenuti nel nucleo centrale hanno 2 proprietà:
la salienza quantitativa, perché su di essi si concentra il maggior grado di accordo
o la necessità qualitativa, sono elementi senza i quali cambia la natura della rappresentazione.
o
Le rappresentazioni sociali sono composte da elementi centrali non negoziabili e da elementi
variabili dipendenti dalle caratteristiche degli individui, che assicurano flessibilità alla rappresenta-
zione. Nel sistema periferico ci sono elementi che “generalmente” fanno parte della rappresentazio-
ne, che integrano l’eterogeneità dei contenuti e dei comportamenti. I contenuti eterogenei si integra-
no con il nucleo omogeneo: la rappresentazione di un oggetto può non essere uguale per tutti i
membri della collettività a prescindere dal contenuto sociale in cui si esprime.
Si possono riconoscere nelle rappresentazioni sociali aspetti normativi cioè valori di riferimento
(ciò che è giusto, desiderabile, apprezzabile) per i gruppi che le utilizzano e che permettono di
esprimere valutazioni anche su oggetti sociali nuovi o ambigui. Esistono anche aspetti funzionali,
che riguardano il modo di comportarsi di fronte ad un oggetto sociale (il “come si fa”).
Recentemente gli studiosi di Aix hanno avanzato l’ipotesi che i contenuti del nucleo centrale
possano essere attivati in maniera differenziata, anche se il contenuto del nucleo centrale rimane
stabile, gli elementi in esso contenuti possono essere o meno attivati. Le condizioni di attivazione
degli elementi del nucleo centrale sono 3:
la finalità della situazione (ad es. in situazioni operative si applicano le pratiche, mentre in
o quelle di giudizio si usano le norme)
la distanza fra il gruppo sociale e l’oggetto della rappresentazione ovvero la conoscenza più
o o meno approfondita dell’oggetto
il contesto di enunciazione.
o
Nell’idea dell’attivazione selettiva dei contenuti del nucleo è evidente la similitudine rispetto ai
costrutti tipici della social cognition.
Esistono differenti metodi di studio delle rappresentazioni sociali, tutti in relazione con il loro
contenuto. Questi metodi servono a distinguere gli elementi del nucleo centrale da quelli periferici:
,
Metodo del rifiuto siccome nel nucleo esistono elementi irrinunciabili senza i quali la natura delle
rappresentazioni sociali non sarebbe la stessa, questo metodo consente di discriminare tra elementi
del nucleo ed elementi periferici chiedendo ai soggetti di immaginare l’oggetto senza una carat-
teristica particolare. E’ stato utilizzato per studiare la rappresentazione del gruppo ideale in cui
emerge che l’assenza di gerarchia sta nel nucleo centrale, mentre la convergenza di opinioni si trova
nella parte periferica. .
Metodo dello scenario ambiguo Presentando una descrizione vaga di un oggetto sociale, si deter-
minano le caratteristiche che fanno ricadere l’oggetto in una categoria piuttosto che in un'altra e che
possono essere ricondotte al nucleo della sua rappresentazione. Questo metodo è stato utilizzato
nella ricerca sulle rappresentazioni dell’impresa, dalla quale è emerso che gerarchia, profitto, lavoro
e produzione fanno parte del nucleo centrale. La distinzione tra elementi del nucleo centrale e quelli
della periferia riguarda l’aspetto descrittivo, quello valutativo è legato al gruppo sociale che lo
esprime, con il suo sistema di valori di riferimento.
,
Metodo della messa in discussione si basa sull’assunto che ponendo domande in forma afferma-
tiva, si ottengano risposte salienti e socialmente desiderabili. Per evitare questo problema Moliner
ha proposto il metodo della doppia negazione che è psicologicamente più complessa e quindi impli-
ca una maggiore elaborazione. Molinar propone di distinguere non solo il nucleo dagli elementi
periferici ma anche la funzione descrittiva o valutativa degli elementi, quindi si possono identificare
elementi centrali o periferici che variano per funzione valutativa o descrittiva.
La critica a questo approccio strutturalista è che non si tiene conto della genesi delle rappresenta-
zioni sociali, cioè di come queste si formano e come cambiano.
Trasformazioni delle rappresentazioni sociali. Nel modo di concettualizzare le rappresentazioni
sociali sono previsti cambiamenti solo a lungo termine. Gli elementi periferici sono caratteristici di
diversi gruppi sociali, attraverso la variazione di questi elementi si intacca con il tempo anche il
nucleo centrale. Sono possibili 2 tipi di trasformazioni delle rappresentazioni sociali:
lo scoppio, cambiamento radicale che avviene in relazione ad eventi sociali che portano a
o grandi innovazioni,
la ristrutturazione, cambiamento progressivo verso un nuovo oggetto, dovuto al fatto che
o l’oggetto cambia nel corso dei cambiamenti sociali.
L’orientamento socio-dinamico: la scuola di Ginevra
La ricerca di Mugny e Carugati sulle rappresentazioni sociali dell’intelligenza e del suo sviluppo ha
messo a fuoco in che modo gli adulti interpretano il fenomeno della distribuzione diseguale dell’in-
telligenza, che costituisce un oggetto sociale prototipico per lo studio delle rappresentazioni.
Le rappresentazioni sociali dell’intelligenza verrebbero attivate sulla base di 2 condizioni:
che gli attori sociali percepiscano una carenza di informazione scientifica in merito
o che gli attori sociali siano chiamati a prendere posizione sul tema.
o
I risultati ottenuti mostrano che:
i discorsi prodotti sull’argomento sono molto variabili (intelligenza come logica, come abilità
o linguistiche, ecc)
la teoria del dono, che esprime in chiave naturalistica l’origine delle differenze inter-individuali,
o attribuendole a criteri misteriosi
l’intelligenza viene considerata anche adesione alle regole sociali, per cui è necessaria l’educazione
o scolastica
il successo scolastico in materie “forti” come la matematica e la lingua è considerato rivela-tore
o dell’intelligenza
Lo studio mostra che l’identità parentale e professionale svolgono un ruolo fondamentale come principio
organizzatore delle rappresentazioni degli attori stessi. Questo è evidente nel caso di genitori-insegnanti che
considerano l’intelligenza come un dono, non potendone attribuire la responsabilità diretta ne ai genitori
(come insegnanti) e neppure agli insegnanti (come genitori). Ciò dimostra che le rappresentazioni sociali non
sono entità dotate di un unico significato, ma sono molteplicità a volte contradditorie.
Da questa ricerca e da molte successive, Carugati giunse a definire le rappresentazioni sociali come
architetture di cognizioni, cioè strutture complesse di cognizione dotate di significato e costruite
socialmente. Sono il risultato del modo in cui la gente comune affronta le dinamiche fra quello che
conosce e quello che è ignoto e concilia teorie contrastanti secondo le modalità appropriate alle
posizioni dei diversi attori sociali.
Doise, ispirandosi alla ricerca di Mugny e Carugati, ha dato una rilettura in chiave socio dinamica di
questa teoria, mettendo in rilievo il contributo dell’opera di Moscovici concernente il rapporto tra
sistemi e meta-sistemi nel funzionamento cognitivo. Moscovici aveva notato somiglianze signifi-cative
tra il pensiero adulto e quello infantile: informazioni frammentarie, ridondanze conclusioni prive di premesse
logiche. Riflettendo su queste caratteristiche del comportamento quotidiano Moscovici si domanda se il
sistema cognitivo delle rappresentazioni sociali abbia certe caratteristiche perché la mente adulta continua ad
Nel sistema adulto, come in quello
impiegare le organizzazioni intellettuali tipiche di un’età più precoce.
infantile, sono operanti 2 sistemi cognitivi:
un sistema che attiva associazioni, discriminazioni, induzioni
o un sistema che controlla verifica e seleziona con l’aiuto di regole logiche
o
Il secondo è un meta-sistema che rielabora la materia prodotta dal primo, ed è costituito da regola-
zioni sociali assunte dall’individuo e dal suo gruppo come regolazioni normative che controllano le
operazioni cognitive. I principi organizzativi del metasistema dipendono dall’ambito in cui si sta
operando e possono richiedere ad es. un’applicazione rigorosa dei principi logici (come in ambito
scientifico) oppure essere orientati soprattutto a mantenere la coesione sociale.
Lo studio delle rappresentazioni sociali deve analizzare le regolazioni fatte dal meta-sistema sul
sistema cognitivo. Il sociale controlla i processi cognitivi, come si vede dal fatto che ad es. le stesse
rappresentazioni sociali sono espresse in forma diversa nei vari sistemi di comunicazione. Doise
puntualizza 3 assunti principali:
1) Le rappresentazioni sociali possono essere considerate principi organizzatori delle relazioni
simboliche tra individui e gruppi. I diversi membri di una popolazione condividono le conoscenze
comuni sull’oggetto a cui si riferiscono nel corso delle conversazioni e le rappresentazioni sociali
sono elaborate in sistemi di comunicazione che necessitano della condivisione. Nello studio delle
rappresentazioni sociali è importante l’individuazione delle dimensioni, in questo campo di riferi-
mento comune, che costituiscono l’organizzazione cognitiva in un sistema dato di relazioni sociali.
Questo aspetto concerne l’oggettivazione e la possibilità di trovare una lingua comune da parte di
chi la condivide. La teoria delle rappresentazioni sociali non implica che gli individui che condi-
vidono riferimenti comuni assumano le stesse posizioni
2) Si organizzano differenze nelle prese di posizione individuali entro l’ambito della conoscen-
za condivisa: gli individui possono differire per l’intensità della loro adesione ai vari aspetti delle
rappresentazioni sociali. Ad es. nella mappa mentale del mondo, chi privilegia gli aspetti economici
organizzerà i paesi secondo l’asse nord-sud, chi invece privilegia quelli politici li organizzare lungo
l’asse ovest-est.
3) Le differenze fra le prese di posizione individuali sono ancorate alle appartenenze ai grup-
pi, alle realtà simboliche che questi elaborano, a esperienze sociopsicologiche condivise in diversa
misura dagli individui, ed alle loro credenze circa la realtà sociale.
Questa rielaborazione della teoria delle rappresentazioni si differenzia da quella della scuola di Aix:
definisce in modo più puntuale il rapporto fra oggettivazione e ancoraggio (assunto 1)
o indaga i rapporti sociali che generano le prese di posizione individuali (prodotte da differenti
o forme di ancoraggio: sociologico – il rapporto tra la presa di posizione e l’inserimento di un
soggetto in un quadro ben definito – sociopsicologico – in rapporto alla propria appartenenza
ad un gruppo – e psicologico – in rapporto alle diverse credenze e valori)
chiarisce la centralità del processo di ancoraggio nella formazione delle rappresentazioni
o sociali per mostrare i diversi tipi di ancoraggio che possono verificarsi contemporaneamente.
In questo quadro il significato di “atteggiamento” viene ampliato e concepito non più come legato
all’individuo isolato. Ad es. i gusti alimentari si formano non tanto dalle esperienze individuali, ma
dalle credenze e dalla cultura, dalla disponibilità di un particolare alimento in una certa zona e da
considerazioni economiche. L’atteggiamento, come definito dalla social cognition, corrisponde
alla prese di posizione che ogni attore sociale assume isolatamente o insieme agli altri del suo
gruppo nei confronti di un determinato oggetto, entro un repertorio di posizioni socialmente
riconosciute. Il significato di atteggiamento è ancorato ai valori, alle norme e alle credenze sulla
realtà a cui aderisce chi lo esprime. L’atteggiamento è un aspetto della rappresentazione sociale,
che può essere ricostruito se si precisa il terreno condiviso di conoscenze su cui il giudizio
individuale si esprime e il sistema di valori e significati sociali a cui il giudizio stesso è ancorato.
Dialogicità, conoscenza e rappresentazioni sociali
Markova' sostiene che la teoria delle rappresentazioni sociali fornisce lo strumento concettuale per
sviluppare il significato euristico della dialogicità.
Il termine dialogicità caratterizza la fondamentale capacità della mente umana di pensare, creare e
comunicare nell'ambito della realtà sociale nei termini dell'altro.
Ogni individuo nasce dotato di un corpo , di un cervello e delle capacità di sviluppo intellettuali e
linguistiche, ma esso nasce anche con un senso sociale, ovvero un'apertura verso gli altri. E' questa
capacità sociale che consente lo sviluppo del pensiero, del linguaggio, della conoscenza ecc. in tal
senso l'Ego e l'Alter si costituiscono a vicenda in un sistema dinamico trasformandosi, sia nella
comunicazione dialogica sia tramite complesse interazioni simboliche.
La comunicazione umana è profondamente ancorata alla cultura in cui si attiva. Comunicazione e
dialogicità si sovrappongono, ma non possono essere considerati identici.
Per la teoria delle rappresentazioni sociali il flusso è bidirezionale e coinvolge sia i parlanti sia gli
ascoltatori essendo il suo punto di partenza l'interazione dialogica Alter-Ego. La teoria delle
rappresentazioni sociali si basa su relazioni e comunicazioni piuttosto che su concetti statici.
Le rappresentazioni sociali non devono essere confuse con nozioni caratteristiche della social
cognition, non sono schemi cognitivi, né atteggiamenti, né stereotipi cognitivi, in quanto non
preesistono all'insieme delle relazioni sociali che costituiscono i contesti concreti della vita
quotidiana. Consistono invece in un processo dialogico di ricostruzione e di creazione di realtà e
significati sociali a proposito di fenomeni che si impongono all'attenzione di gruppi e collettività
diverse per certe caratteristiche peculiari.
I themata sono definiti come insiemi di concezioni generali, di idee-forza profondamente ancorate
nella memoria collettiva del gruppo.
Per la teoria delle rappresentazioni sociali l'acquisizione della nozione di thema è importante per
diversi punti di vista:
• permette di individuare meglio i contenuti del senso comune, espresse nei discorsi
quotidiani
• il fatto che i themata siano antinomie o polarità interdipendenti che sostanziano i discorsi
quotidiani, attribuendo ad essi anche una dimensione temporale ancorata alla storia del
gruppo in cui viene l'interazione.
4.Il sé e l’identità
I contorni e la sostanza del problema
La nozione di attore sociale è la più adeguata per denominare l’individuo in grado non solo di
conoscere ma anche di riflettere su se stesso e prendere iniziative sul contesto in cui è inserito.
L’attore sociale è una persona che entra in contatto con la realtà e si rappresenta i cambiamenti
provocati su di sé dall’incontro con la realtà, dalle rappresentazioni di essa e da come essa si modi-
fica. Quella parte dell’organizzazione della persona che rappresenta la sua soggettività e le sue
risposte alle proprie azioni è denominata IO e SE’.
La centralità dell’Io e del Sé nell’esperienza umana
William James introdusse per primo la nozione di Sé. Secondo l’autore il pensiero è continuamente
mobile e proiettato sul mondo degli oggetti, ma nel contenuto fa parte della coscienza individuale
per cui il sé deve essere considerato il dato immediato della psicologia.
Il sé è formato da 2 componenti:
IO, coincide con il soggetto consapevole
o ME, è quanto del Sé è conosciuto dall’Io, aspetto oggettivo ed empirico del Sé, quello che
o percepisco e vedo di me. Contiene gli elementi costituenti le qualità reali che definiscono il
Sé conosciuto, include le caratteristiche materiali (le cose che il soggetto possiede), quelle
sociali (come il soggetto si vede nel rapporto con gli altri), quelle spirituali (il sapersi con-
sapevole, capace di pensare e riflettere su di sé).
Ognuno organizza il contenuto del Me in una struttura gerarchica che assegna valori diversi ai
costituenti materiali, spirituali e sociali. Il Me corporeo è in fondo a tale gerarchia, il Me spirituale
alla sommità ed i vari Me extracorporei e sociali nel mezzo. Per James questa gerarchia è la stessa
per tutti gli individui.
Secondo James l’individuo è consapevole dell’Io come componente del Sé che interpreta ed orga-
nizza il contatto con la realtà attraverso 3 modalità:
o Continuità, base del sentimento di identità
,
o Distinzione base del sentimento di individualità
,
o Volizione sentimento di partecipare attivamente alla propria esistenza.
Le relazioni sociali hanno un ruolo fondamentale nella definizione del Sé, il Me sociale è percepito dal
soggetto stesso in riferimento alla opinione del Club, cioè di un gruppo significativo e importan-te per lui.
Cooley afferma che soltanto attraverso l’interazione sociale l’individuo sviluppa la conoscenza di sé
e il sentimento della propria identità, parla di looking glass self o Sé rispecchiato per esprimere
l’idea che comprendiamo quello che siamo osservando il modo in cui gli altri ci percepiscono ed
elaborano le opinioni su di noi. La consapevolezza di sé ha origine dal fatto che ci vediamo riflessi
dagli altri.
Mead studia la matrice sociale dello sviluppo del Sé e descrive il processo attraverso cui si forma la
capacità di conoscere il sé. Il sé non esiste alla nascita, in quanto per il suo emergere sono neces-
sarie 2 condizioni:
La capacità di produrre e rispondere a simboli: il linguaggio è lo strumento che permette ad un
insieme di organismi biologici di partecipare ad un atto sociale, permette di indicare gli oggetti, e in
particolare il sé, con un nome assegnato dagli altri ed inoltre permette l’uso dei pronomi per riferirsi
a sé e agli altri. Prima di assumere il linguaggio, gli individui compiono gesti reciproci: la conversa-
zione di gesti, è una forma di comunicazione costituita da uno scambio coordinato di azioni. Dal
sistema dei gesti condivisi, si passa al linguaggio quando i significati diventano organizzati nella
mente e condivisi. L’individuo interpreta il significato dei propri gesti e di quelli degli altri e può
prevedere i propri gesti in funzione di questa rappresentazione. Quando l’individuo utilizza consa-
pevolmente i simboli ha acquisito una mente. La mente è sociale, il bambino osserva i comporta-
menti degli altri e ne inferisce che tipo di oggetto egli è.
La capacità di assumere gli atteggiamenti degli altri. Il sé si costruisce nella capacità dell’indivi-
duo di divenire oggetto a se stesso e ciò avviene nel processo di assunzione dei ruoli altrui e della
prospettiva altrui. La mente non è la dotazione presociale che distingue l’uomo dall’animale ma è il
prodotto dell’interazione che consente di comunicare attraverso simboli significativi.
Nella fase del gioco semplice (PLAY) l’individuo assume i ruoli delle persone e degli animali che
fanno parte della sua vita. Comincia ad essere oggetto di se stesso in quanto si osserva dal ruolo che
ricopre. In questa fase la competenza sociale non è ancora interiorizzata: il bambino si costruisce
soltanto dei Sé parziali, non organizza se stesso in un insieme organico.
In una seconda fase partecipa al gioco organizzato (GAME) nel quale acquisisce la capacità di
assumere i ruoli di tutti gli altri implicati nell’attività comune. Per poter svolgere il proprio ruolo in
modo coordinato con gli altri, il bambino ha in sé contemporaneamente tutti gli atteggiamenti di
tutti gli altri partecipanti al gioco e non li assume uno dopo l’altro come nei Plays. Ha interiorizzato
atteggiamenti generali del gruppo, cioè ha costruito quello che Mead chiama l’altro generalizzato.
L’altro generalizzato è la comunità o gruppo sociale organizzato che permettono al soggetto di
costruire l’unità del proprio sé e di avere la certezza che il mondo ha la stessa apparenza anche per
gli altri, che la sua esperienza è condivisa dagli altri e ciò consente di poter distinguere la propria
esperienza privata. Assumendo l’atteggiamento dell’altro generalizzato, l’individuo diviene un
membro organico della società.
Gli atteggiamenti degli altri costituiscono il me, cioè quella parte del Sé che riflette la struttura
sociale. L’io invece è la parte creativa e ricostruttiva grazie alla quale l’individuo può agire sulla
struttura sociale. Il sé emerge dall’interazione tra IO e ME. La manifestazione del Sé implica
sempre la presenza di un altro. Il me in quanto riflesso della società è punto di confluenza di aspet-
tative contraddittorie e per questo il rapporto tra IO e ME porta ad azioni che sono una mediazione
tra conformismo e innovazione. James aveva sostenuto l’impossibilità di osservare l’io in quanto
fenomeno soggettivo, Mead ha mostrato come sia possibile cogliere empiricamente entrambe le
componenti del sé. Si deve focalizzare lo studio del sé sulla comprensione che ogni individuo ha sia
del me che dell’io.
L’Io ed il Sé nella prospettiva gestaltista
Per poter stabilire e mantenere interessi sociali soddisfacenti, l’attore sociale deve essere consape-
vole di un Io che esprime interessi e sentimenti sociali: l’esistenza psicologica è esistenza sotto
forma di un Io.
Secondo Asch quella parte dell’organizzazione della persona che rappresenta l’organismo, o la
reazione dell’organismo alle proprie azioni, è detta Io o Ego. L’io è un sistema unitario compren-
dente l’organismo e la mente. Il concetto di Io introduce quello di Sé. Il sé nella concezione
gestaltista è la rappresentazione fenomenica dell’io (aspetti fisici e psicologici dell’io che ogni sog-
getto assume a livello di coscienza), un complesso strutturato di vissuti e di qualità che la persona
ritiene pertinenti a se stessa e individua nel campo percettivo globale. Il Sé o Io fenomenico va
distinto dall’Io reale. Il sé non comprende tutto quanto è proprio dell’Io, l’Io è più ampio del sé,
cioè ci possono essere sensibili differenze tra come una persona è percepita a livello biologico e
come essa percepisce se stessa. Sono rappresentati fenomenicamente solo i processi dell’Io e le
parti dell’organismo attivati e percepiti quando l’attore sociale è consapevole di quanto sta facendo
e provando.
Ogni individuo elabora un sé ideale corrispondente a come vorrebbe essere agli occhi del mondo,
perché l’interazione sociale è fondamentale nel fare divenire il soggetto persona. L’azione sociale
precede il sé e fornisce materiale ad esso. Il bambino si affaccia nel mondo in modo attivo, a secon-
da delle risposte che riceve esperisce sentimenti di gratificazione, di rabbia, di fiducia o di collera.
Quando i suoi interlocutori si rivolgono a lui come ad un essere pensante, egli percepisce di essere
oggetto per gli altri e quindi diviene oggetto per se stesso. L’importanza dell’interazione con gli altri
non svaluta il contributo che l’individuo dà alla formazione di se stesso; questa è l’impostazio-ne
interazionista di Asch ispirata dal lavoro di Koffka, che spiega anche la genesi del Sé.
Koffka riconosce a Lewin il merito di aver elaborato la concezione gestaltista dell’Io come entità
complessa che consta di diverse parti autonome e interdipendenti. Ogni volta che l’individuo deve
raggiungere uno scopo il suo apparato psichico entra in uno stato di tensione che si risolve quando
l’obiettivo è raggiunto. Lo stato di superamento della tensione corrisponde ad una condizione in cui
altre motivazioni possono attivarsi creando ulteriori stati di tensione psicologica. Lo stato di tensio-
ne non riguarda l’io nella sua totalità, ma solo una sua parte. Infatti l’io può essere considerato
come un sistema costituito da sottosistemi che si sono differenziati nel corso dello sviluppo e sono
fra loro organizzati pur mantenendo una certa indipendenza garantita da confini più o meno fluidi a
seconda delle funzioni proprie di ogni sottosistema. Ogni stato di tensione riguarda uno o più
sottosistemi, può accadere che quando uno stato di tensione coinvolge uno o più sottosistemi il
raggiungimento di un obiettivo parziale risolva lo stato di tensione di uno soltanto dei sottosistemi.
Basandosi sulla teoria di Lewin, Bluma Zeigarnick ha teorizzato l’effetto Zeigarnick che riguarda
il fatto che il ricordo di attività non completate risulta migliore di quello di attività completate. Se il
bisogno corrisponde ad uno stato di tensione, tale tensione può indurre l’attore ad assumere una
condotta volta a completare il compito evocato. Se un compito viene completato la tensione è mino-
re come anche il rendimento mnestico.
L’io è il centro del mondo?
Secondo la tesi comportamentista i bisogni sono sempre riferiti all’organismo stesso e l’ambiente è
una massa di materiali e di mezzi per il soddisfacimento di questi bisogni. Questa tesi sottolinea
l’aspetto unidirezionale dell’azione dell’uomo. Tutto quello a cui l’uomo può aspirare è trovare
nuovi mezzi per soddisfare i suoi bisogni.
Asch entra in polemica con questa tesi proponendo una concezione non egocentrica dell’agire
umano. Anche se le esperienze che gli uomini vivono dipendono dal sistema nervoso, non tutte si
riferiscono a noi che le viviamo. Il nostro campo percettivo contiene una quantità di oggetti e di
caratteristiche che sono proprie del campo (che esistono “di per se”) e che non possiamo confondere
con ciò che appartiene a noi stessi. Esistono esperienze riferite senza dubbio a se stessi ma esistono
anche situazioni in cui l’azione dipende da fattori indipendenti dall’io che ricevono stimolo dall’am-
biente, per esempio le ricompense esterne.
Forme molteplici di conoscenza del Sé
La scuola gestaltista sostiene che l’io è segregato fra i vari aspetti del campo percettivo ed il sé
mostra confini variabili. Lewin parla di giocattoli e vestiti come prolungamenti del sé percepito in
quanto noi vediamo solo parti del nostro organismo distinte dal nostro campo percettivo e ne
avvertiamo i movimenti attraverso gli organi di senso.
L’orientamento interazionista che si rifà ai contributi di James e Mead, non affronta questi
problemi perché considera il sé come una elaborazione mentale che il soggetto continuamente
rielabora nel rapporto con altri e con la realtà sociale nella sua interezza.
L’impostazione cognitivista ha rilanciato gli studi e la ricerca sui diversi processi e le forme di
conoscenza del sé. Neisser presenta una lista di 5 modi di conoscenza del Sé.
Sé ecologico, è il sé come percepito in rapporto all’ambiente esterno ed ha origine dalla percezione
che ogni individuo ha delle parti del proprio corpo che può vedere poste tra altri oggetti (sono in
questo posto a fare questa particolare cosa). Compare molto precocemente nell’esperienza di ogni
soggetto: a partire dai 3 mesi il bambino ha una percezione simile a quella dell’adulto e distingue le
conseguenze delle proprie azioni da eventi di altro tipo. La percezione del sé ecologico è cosciente,
ma non si manifesta necessariamente come un oggetto del pensiero perché questo tipo di Sé è diret-
tamente percepito. I bambini ciechi dalla nascita sono lenti nello sviluppare un adeguato senso del
sé, per esempio utilizzano i pronomi tu ed io molto più tardi degli altri bambini. La funzione ottica
gioca un ruolo di rilievo nella specificazione del sé, anche se l’importante è “sentirsi” in azione. Gli
aspetti principali del sé ecologico sono definiti da 2 tipi di informazioni:
esistenza di un corpo articolato e controllabile, i cui confini sono specificato da quanto si può
o vedere e sentire
esistenza di un’entità che percepisce posta in un luogo preciso dell’ambiente.
o
Non sempre il sé ecologico coincide con il corpo, ma è determinato da tutto ciò che su muove con
esso. Il sé ecologico ha un’esistenza oggettiva, molte delle sue caratteristiche sono determinate da
condizioni oggettive che ci permettono di percepire la posizione del sé ecologico e la natura delle
sue interazioni con l’ambiente.
Sé interpersonale, di cui ci si rende conto fin dalla prima infanzia, viene individuato grazie a
segnali specie-specifici riguardanti rapporti emozionali e comunicativi quando si è coinvolti in
un’interazione immediata e non riflessa con un’altra persona; molte delle informazioni che lo
riguardano sono cinetiche. L’intersoggettività si crea se la natura, il ritmo e la direzione di una
persona si incontrano con qualità appropriate dell’azione dell’altro. I partecipanti percepiscono la
mutualità della loro condotta ed il sé interpersonale nasce dalla risposta individuale in rapporto a
questa mutualità. I soggetti infatti sono geneticamente predisposti ad accettare le risposte interattive
dell’altro. Se l’intersoggettività dipendesse soltanto da una comunicazione reciproca dei propri stati
mentali, potrebbe essere acquisita sulla base dell’accuratezza con cui attribuiamo pensieri e senti-
menti agli altri con cui ci incontriamo. In realtà la intersoggettività è fondata sulla percezione diretta
anziché su un’operazione cognitiva. I bambini nelle interazioni faccia a faccia con la madre per-
cepiscono lo svolgersi di una relazione intersoggetiva e non si limitano a ricevere informazioni circa
il loro partner. Il Sé interpersonale è definito dallo svolgersi dei gesti espressivi dell’altro e si
sviluppa in base agli effetti delle nostre azioni sull’altro.
La consapevolezza del sé interpersonale si accompagna a quella del sé ecologico e questi due aspet-
ti del sé sono difficilmente esperiti come distinti. Si potrebbe considerare il Sé ecologico senza
quello intersoggettivo se si guardasse all’altro come ad un oggetto. D’altra parte può accadere che
in certe condizioni di contatto interpersonale intimo (tra amanti o tra madre-figlio) l’attenzione sia
totalmente centrata sull’esperienza intersoggettiva vissuta in un dato momento che nessuno dei due
coglie alcuna informazione concernente il sé ecologico, ma si tratta di momenti molto rari. La
percezione interpersonale è accompagnata sempre da altre forme di conoscenza.
Sé esteso, è il sé come era nel passato e come ci aspettiamo sia in futuro, basato su quanto ricordia-
mo e quanto anticipiamo. Non tutti i ricordi però implicano il sé esteso, come mostrato dal fatto che
la memoria procedurale (il modo di fare le cose) è indipendente dalla memoria delle esperienze
personali (il che cosa). L’apprendimento motorio fornisce un esempio: ogni progresso di rendimen-
to è basato su informazioni immagazzinate in passato ma non necessariamente riguardanti il sé
passato. Nell’anmesia in cui il soggetto acquisisce competenze motorie più raffinate di quelle che
possedeva già, non viene recuperata la memoria delle occasioni in cui aveva impiegato quelle
competenze, l’amnesia è una patologia del sé esteso. Quando invece, nel momento in cui non la si
esegue, si ricorda qualcosa come routine allora si implica il sé esteso (esempio il bambino di 3 anni
che ricorda come si svolgono molte routine familiari).
Il Sé esteso diventa sempre più importante durante la crescita, perché gli adulti definiscono se stessi
sulla base di una particolare serie di esperienze passate e l’esigenza di affermare la propria specifi-
cità li fa ricadere in racconti ripetuti. Viceversa gli adolescenti si definiscono in base alle proprie
aspettative.
Quanto si ricorda dipende anche da quello a cui si crede nel momento attuale, perché la memoria è
ricostruttiva. Il sé esteso non è indipendente dal sé concettuale e le nostre teorie su noi stessi incido-
no su quello che decidiamo di ricordare oltre che sulla precisione con cui lo ricordiamo.
Sé privato, si manifesta quando il bambino (verso i 4 anni) si accorge che alcune delle sue
esperienze non sono condivise dagli altri. Le esperienze private sono ricordate e vanno ad arricchire
il sé esteso. Molte manifestazioni del sé privato possono concludersi in modo indipendente dal sé
ecologico e interpersonale (ad es. penso a Tizio mentre parlo con Caio). L’essere al mondo è
associato con esperienze soggettive particolari, con il sé privato. Alcune di queste teorie riguardano
i ruoli sociali (ad es. il significato dell’essere padre) altre entità interne più o meno ipotetiche (ad es.
l’anima, l’inconscio). Ogni concetto di sé si forma nella vita sociale, così in ogni società e cultura vi
sono concetti di sé diversi. Anche all’interno di una stessa cultura ognuno definisce in modo diverso
dagli altri il proprio con-cetto di sé. Le differenze non sono rilevanti e sono riferibili ad un numero
circoscritto di variabili che definiscono le somiglianze e le differenze tra gli oggetti sociali.
Il concetto di sé è definito in rapporto ad una teoria basata su quanto è stato detto di me in forma di
assunzioni generali e di comunicazioni personali e guida ciò che ciascuno rivela di sé e le previsioni
che si fanno sull’esperienza reale. Comprende varie subteorie più o meno distinte: quelle sul ruolo
esprimono il nostro modo di considerare come ci adattiamo alla realtà; quelle sui modelli interni
riguardano il nostro corpo (di tipo biologico meccanicistico) e la nostra mente (ispirate alla psico-
logia e alla filosofia). Altre teorie riguardano l’attribuzione dei tratti individuali (possiamo credere
di essere intelligenti o stupidi, belli o brutti, ecc.). Ad es. le credenze dei bambini sulla propria intel-
ligenza, influiscono sul loro rendimento.
Questo sé differisce dagli altri 4 per il fatto che si costruisce su idee elaborate nel sociale e comuni-
cate verbalmente. Gli altri 4 tipi di conoscenza del sé sono rappresentati nel sé concettuale. Il com-
portamento sociale è modellato non soltanto dalle qualità direttamente percepite delle interazioni
concrete, ma anche dalle teorie concernenti il modo in cui ci mettiamo in rapporto con gli altri.
Neisser si interroga sul perché alla luce di 5 sé, gli individui sperimentano se stessi come unitari.
Probabilmente a causa del continuo riscontro sociale delle unità del sé che è un fattore essenziale
per il nostro sentimento di identità. L’elaborazione di Neisser riconosce all’interazione dell’in-
dividuo con l’ambiente, l’origine dei vari sé. Tale origine è precoce negli individui, ma l’emersione
dei vari sé si verifica in momenti diversi. Tutti i sé hanno continuità nel tempo e contribuendo
all’esperienza di continuità di sé, sono tutti esperiti sebbene non tutti con la stessa coscienza.
Neisser assegna al sé concettuale. in quanto “teoria su se stessi”, una funzione peculiare nel rendere
possibile l’articolazione tra mondo interno dell’individuo e mondo esterno delle più varie conce-
zioni. Vedere “Sé ed identità”.
La prospettiva della Social Cognition
A partire dalla fine degli anni 60 vengono avviati studi riguardanti il sé come struttura cognitiva che
organizza le informazioni che compongono le rappresentazioni mentali riguardanti i propri attributi,
l’esperienza passata…
L’attenzione è focalizzata sulle caratteristiche di questa organizzazione, ed anche la social cognition
riconosce l’esistenza di molteplici componenti nel concetto di sé. Esse sono conoscenze inter-
connesse attivate in maniera differenziata in base al contesto specifico. L’aspetto del concetto di sé a
cui si ha accesso in una particolare situazione è detto concetto di sé-operativo o working self.
Per Markus il concetto di sé è costituito da un insieme di schemi (schemi di sé) corrispondenti alle
dimensioni su cui un soggetto si descrive. Uno schema di sé si costruisce nel momento in cui l’indi-
viduo utilizza una dimensione specifica per descrivere se stesso. La funzione degli schemi è consen-
tire all’individuo un rapido recupero di informazioni dalla memoria, grazie al quale può identificare
rapidamente gli oggetti, prevedere orientare il proprio comportamento. Gli schemi di sé guidano
anche il processo inferenziale: l’individuo trae conclusioni su se stesso e sugli aspetti ad esso
associati. Gli schemi di sé sono caratterizzati da disponibilità e accessibilità.
Non tutti gli schemi di sé sono positivi, perché le persone hanno una idea precisa anche degli
aspetti di sé che ritengono negativi. A domande su tratti del proprio carattere, i soggetti hanno tempi
di risposta più lunghi per tratti negativi in cui si riconoscono mentre i tempi di risposta sono più
brevi nel riconoscere i propri tratti positivi.
Gli schemi di sé non sono facilmente modificabili, questo è funzionale al sentimento di identità
che ciascuno possiede. Gli schemi di sé ricoprono anche funzioni riguardanti il modo di elaborare le
informazioni riferite ad altre persone.
Per quanto riguarda il rapporto tra la conoscenza di sé e quella delle altre persone si ha che:
gli schemi di sé sono più accessibili in memoria rispetto a quelli degli altri, in quanto sono
o più spesso utilizzati. L’effetto è attenuato per gli schemi degli altri che ci sono familiari
la conoscenza di sé è memorizzata in forma verbale, quella relativa agli altri in forma visuale
o la conoscenza di sé è organizzata intorno a stati interni, quella sugli altri è costruita intorno a
o caratteristiche osservabili
la conoscenza di sé è più intensa dal punto di vista emotivo di quella degli altri soprattutto se
o non familiari,
le informazioni su di sé vengono utilizzate anche per organizzare le informazioni sugli altri,
o cioè sono quadri interpretativi.
Il concetto di sé operativo
I teorici della social cognition si sono occupati delle funzioni regolatrici del sé ovvero di come i
soggetti assumono il proprio Sé come riferimento per regolare il proprio comportamento. Il sé
assume aspetti di flessibilità ed aspetti di costanza nel tempo, poiché le persone calibrano la propria
rappresentazione del Sé in rapporto alle pressioni sociali mentre hanno il bisogno di stabilità. L’en-
tità che permette questa coesistenza è il sé operativo o working self. Non tutta la conoscenza del sé
è sempre accessibile, ma è accessibile un sottoinsieme di informazioni messo a fuoco dalla coscien-
za del soggetto in rapporto alla situazione contingente. Il sé operativo quindi permette la funzione
regolatrice del Sé, ed è sempre attivo modificandosi in rapporto alle riflessioni su di sé che fa il
soggetto in un particolare ambito.
Altri elementi della funzione regolatrice del Sé
Altre componenti, oltre al sé operativo, assumono una funzione regolatrice come il sentimento di
efficacia di sé, che riguarda l’aspettativa che ciascuno ha di affrontare e superare certi compiti.
Per Bandura, l’attore sociale si impegna a risolvere determinati problemi se pensa di poterlo fare
con successo e quanto più si sente efficace tanto più si sforza di farcela. Quando una situazione
sembra troppo difficile, il soggetto tende ad evitarla e questo atteggiamento prepara l’insuccesso
che pure vorrebbe evitare.
Il modo in cui le componenti del sé influenzano l’elaborazione di informazioni rilevanti per il sé è
preconscio e non implica un intervento conscio da parte del sé. Tuttavia gli attori sociali possono
anche elaborare in modo consapevole scopi e progetti che decidono di perseguire. Si parla di
compiti vitali considerati come modalità per pensare alle attività il cui esito positivo è ritenuto
indispensabile in un dato momento. Identificando quale è il compito vitale che un soggetto sta
affrontando, diventa possibile interpretare molte delle azioni specifiche in cui si impegna. I compiti
vitali sono generati dalla conoscenza di sé.
Un altro processo di regolazione è la presentazione di sé e la gestione dell’impressione che si fa
sugli altri. Goffman: fa riferimento alla metafora del teatro per cui nella vita quotidiana le persone si
comportano come attori su un palcoscenico, selezionando quello che fanno vedere agli altri e quello
che rimane dietro le quinte. Uno dei fattori essenziali per dare di sé un’impressione favorevole è
assumere il comportamento appropriato nella situazione interattiva e conformarsi alle norme sociali
implicite e ciò è possibile perché siamo in grado di assumere il punto di vista degli altri.
Per evitare di fare una cattiva impressione si può adottare la tattica difensiva del self-handicapping.
Jones e Berglas sostengono che il consumo diffuso di droga e alcool può essere motivato dal fatto
che chi ne abusa ha bisogno di coprire il proprio insuccesso. Ci sono persone che per paura di non
riuscire in un determinato compito, si creano un handicap grazie a cui possono spiegare l’insucces-
so o il rifiuto di impegnarsi in una data attività. Il comportamento in pubblico è orientato anche a
fare una buona impressione su di sé, oltre che sugli altri. La tattica difensiva del self-handicapping
può essere utile, ma resta il fatto che chi l’adotta abitualmente rischia di non tenere conto dei ri-
sultati negativi a lungo termine a cui si espone, cioè a giudizi svalutativi da parte degli interlocutori.
Sé e possibili discrepanze del sé
Gli schemi di sé sono il frutto dell’esperienza passata e presente, alcune di queste immagini possono
implicare scopi e ruoli a cui il soggetto aspira o che vuole evitare (sé possibili). Markus e Nurius
affrontano il tema dei sé possibili che rappresentano le idee che gli individui hanno circa quello che
possono diventare o che temono di diventare e perciò costituiscono la connessione tra cognizione e
motivazione. I sé possibili sono componenti cognitive delle speranze, delle paure e degli scopi, fun-
zionano come incentivi per il comportamento rivolto al futuro e sono guide all’azione. In genere il
contenuto dei sé attesi risulta positivo (pregiudizio positivo circa il futuro). Questo effetto è detto
ottimismo irrealistico, cioè la tendenza a sottovalutare che eventi negativi possano accadere a noi
nel futuro rispetto alla probabilità che accadano ad altri. Le interpretazioni motivazionali di questo
assioma fanno riferimento al bisogno di ridurre l’ansia e di mantenere l’autostima, mentre le inter-
pretazioni di stampo cognitivista fanno riferimento alla euristica della disponibilità: la persona stima
la possibilità del verificarsi di alcuni eventi sulla base delle esperienze passate; aver avuto esperien-
ze negative diminuisce il grado di ottimismo irrealistico. L’ottimismo irrealistico da un lato è
funzionale perché impedisce la paralisi dell’azione delle persone, ma dall’altro può indurre ad
assumere troppi rischi e a fare delle valutazioni sbagliate.
Per Higgins, l’individuo ha una rappresentazione di come è (Sé reale) e di come vorrebbe essere
(Sé ideale) e di come dovrebbe essere (Sé normativo). Nell’esperienza sono avvertite delle discre-
panze tra i vari sé che provocano coinvolgimento emotivo e che spinge a mettere in atto azioni
costruttive per ridurre la discrepanza. Se non viene superata la discrepanza tra Se reale e Se ideale,
allora si vivono emozioni di scoraggiamento, insoddisfazione, tristezza ed emozione. Se invece non
viene superata la discrepanza tra Sé reale e Sé normativo, allora le emozioni saranno connotate
dall’agitazione (paura, senso di minaccia, ansia).
Per il superamento delle discrepanze in futuro ci sono due casi: alcuni pensano di aver superato le
discrepanze ma non è così, altri hanno l’impressione che per quanto si impegnino non potranno mai
risolvere le discrepanze. Nel primo caso i soggetti vivono un’esperienza di tipo depressivo carat-
terizzata da svogliatezza, nel secondo la risposta depressiva è caratterizzata da senso di incapacità.
Il sé nelle culture
Lo sviluppo del senso del Sé è connesso alle idee condivise nei gruppi e nelle culture. Oyserman e
Markus sostengono che il problema della identità (chi sono io?) è oggetto di elaborazione di rap-
presentazioni sociali del sé differenziate nelle varie culture ed operano un confronto nel modo in cui
le persone costruiscono la conoscenza di sé sulla base di una distinzione fra sistemi socio culturali.
Le rappresentazioni sociali del sé forniscono una struttura del sé di coloro che vivono in un
determinato contesto.
Nelle culture individualistiche il sé è l’unità di base e la società è vista come un insieme di indi-
vidui autonomi e indipendenti. Il principale compito di sviluppo individuale è la realizzazione del sé
(successo personale). Si tendono a valorizzare le differenze ed i processi mentali come l’astrazione
e l’ideazione, l’intelligenza e la competenza personale. La distinzione più saliente è quella fra sé e
non-sé. Gli altri sono caratterizzati come appartenenti all’in-group e all’out-group. Le attribuzioni
causali degli eventi sono riferite alla persona e non alla situazione.
Nelle culture collettivistiche la società è l’unità di base vista come insieme di gruppi sociali. Il
compito di sviluppo per l’individuo è raggiungere l’armonia. Assume importanza il mantenimento
di credenze condivise e gli individui vengono giudicati in riferimento all’adesione ad aspettative di
ruolo. Si valorizzano la costanza e la persistenza nel compito. La distinzione è tra ingroup e out-
group. Le attribuzioni causali sono riferite alle situazioni.
Le emozioni e le rappresentazioni riguardanti il sé differiscono in funzione di queste due situazioni.
La struttura cognitiva degli appartenenti a culture individualistiche è centrata sull’indipendenza e
sull’autonomia. Le persone vissute in culture collettiviste tendono ad utilizzare la dimensione
dell’interdipendenza, ciò significa vedersi come una parte di una relazione sociale. Sul piano
motivazionale, le persone indipendenti sono motivate a compiere azioni che esprimono attributi
interni. Le persone con un sé centrato sull’interdipendenza sono motivate alle azioni che fortificano
i legami sociali.
Sul piano emotivo nelle società individualistiche le emozioni vissute in modo positivo sono quelle
che fanno riferimento all’individuo (ego-focused emotions): la timidezza è vissuta come un
handicap. Nelle società collettivistiche sono positive le emozioni che hanno l’altro come primo
referente (empatia): in questo caso è la solitudine ad essere vissuta come un handicap.
Nelle nostre società caratterizzate da un alta mobilità, sorgono problemi quando si passa da un
sistema culturale all’altro. In questo caso o si sceglie di ridefinire il Sé oppure si sceglie di rimanere
nel quadro di riferimento di provenienza, creando dei gruppi di immigrati all’interno del nuovo
sistema.
L’identità come qualità relazionale e temporale del sé
La nozione di identità si riferisce alla relazione Se-Altro (prospettiva sociodinamica, Erikson e
Marcia) e Io-Me (prospettiva sociocognitiva, Codol e Tajfel).
Erikson ha indicato con il termine identità una tappa dello sviluppo umano. Ha sviluppato il con-
cetto di personalità di base e quello di carattere nazionale o sociale. Il suo scopo era di descrivere i
modelli di personalità condivisi dai membri di una società e derivanti da esperienze comuni.
L’identità è un’articolazione di componenti individuali e collettive. L’identità dell’io è la consa-
pevolezza che c’è coerenza e continuità del proprio significato per sè e per gli altri. L’acquisizione
dell’identità è il risultato di uno dei conflitti vitali che caratterizzano l’età adolescenziale ma si
pongono anche in ogni altra fase di transizione dell’individuo. La diffusione del sé è l’incapacità
dell’individuo di impegnarsi in un ruolo preciso ed è la soluzione negativa di ogni conflitto.
Marcia ha studiato il fenomeno dell’acquisizione o meno dell’identità. Esistono vari stati dell’i-
dentità che ogni adolescente elabora nella realtà in cui è inserito:
Esplorazione di alternative possibili nelle varie aree
Impegno ovvero il coinvolgimento verso l’alternativa prescelta
Per Marcia, gli stati di identità sono 4: acquisizione, blocco, moratoria e diffusione. I soggetti che
raggiungono l’acquisizione o il blocco, hanno assunto impegno in rapporto a precisi ruoli sociali. I
primi hanno assunto il loro impegno dopo un’esperienza di esplorazione di varie alternative, quelli
in stato di blocco hanno evitato tale fase di incertezza adottando ruoli e valori ispirati alle figure di
riferimento dell’infanzia. L’acquisizione si ha dopo un processo di esplorazione e dopo l’elabora-
zione delle identificazioni infantili in una rete stabile. Il blocco si verifica quando l’identificazione
diviene l’unico modo per affrontare il compito di entrare nell’età adulta. Lo stato di moratoria
dell’identità e analogo a quello di diffusione ed indica la mancanza di un impegno preciso verso la
realtà.
Modello di Codol. Illustra la connessione tra i concetti di identità e di sé, rilevando l’importanza
dei processi percettivi. La percezione permette di rilevare le somiglianze e le differenze tra gli
oggetti e gli individui e presuppone che l’individuo determini le somiglianze e le differenze in rap-
porto agli altri oggetti dell’ambiente. L’individuo determina le somiglianze e le differenze tramite il
processo di categorizzazione e registra solo ciò che può collegare ad oggetti che già conosce e che
hanno un senso per lui. La categorizzazione e l’assunzione di significato sono possibili perché
l’individuo vive in un ambiente fisico e sociale relativamente stabile. Egli identifica gli oggetti
perché appaiono abbastanza invariati. In base alla stabilità dell’ambiente l’individuo può fare
previsioni sugli oggetti e sulle persone. Sulla base di queste conoscenze generali è possibile mettere
a fuoco il processo di percezione di sé. Vanno considerati 2 punti:
1. Il sé come oggetto unico, il sentimento della differenza. Non vi è rappresentazione di sé se
l’individuo non può identificare un certo oggetto come se stesso, l’identificazione presuppone che
l’individuo si senta diverso da qualunque altro oggetto. Il sentimento di differenza quindi è vissuto
in rapporto agli altri,
2. Coerenza e stabilità dell’immagine di sé, il sentimento dell’unità e dell’identità con lo stesso.
L’unità del sé e la sua permanenza sono i 2 componenti essenziali dell’identità. Definendosi come
oggetto originale rispetto agli altri, l’individuo ha un’immagine coerente di sé e crede che l’oggetto
a cui tale immagine si riferisce sia costante nel tempo.
Tajfel considera l’identità come una parte del concetto di sé, ma non si pone il problema di chiarire
il rapporto tra sé e identità. Impiega la nozione di identità sociale definendola come quella parte
dell’immagine di sé di un individuo che deriva dalla sua consapevolezza di appartenere ad un grup-
po sociale unita al valore del significato emotivo attribuito a questa appartenenza. Secondo Turner
questa definizione di identità sociale serve per sostenere uno degli assunti della teoria intergruppi e cioè che
le immagini che abbiamo di noi stessi sono basate sull’appartenenza ad un gruppo e che l’identità personale è
la classe di contenuti “più personali” del concetto di sé. Per cui si potrebbe considerare il concetto di sé come
costituito dalla somma di identità sociale ed identità individuale. Ma questa posizione è stata ritenuta
Il contributo di Tajfel comunque evidenzia la necessità di integrare il modello di Codol
insostenibile.
in senso maggiormente sociale: il confronto con gli altri che da luogo ai punti (1) e (2) non prescin-
de dal fatto di sentirsi radicati in un gruppo.
In conclusione si può affermare che il sentimento di identità corrisponde ad una qualità relazionale e
temporale della rappresentazione di sé che diventa centrale nell’esperienza del soggetto quando:
Il soggetto sente che il proprio sé è lo stesso. Se il soggetto risulta incapace di dominare
l’avvenire mette in pericolo il sentimento di identità causando una disintegrazione del sé,
causando una fuga dissociativa nei casi di personalità alternanti dell’isterico, in cui la
personalità sognata si sostituisce alla personalità normale;
Il soggetto avverte che pur presentandosi in modi diversi nei rapporti che instaura nel quoti-
diano, l’esperienza fondamentale che vive di sé è sempre la stessa. Questa dell’incoerenza
con se stesso è una preoccupazione particolarmente avvertita dall’adolescente, uno degli
esiti positivi del processo è riscoprire la possibilità di trovare il filo della propria unicità;
Il soggetto vede e sente se stesso impegnato nell’azione e nella produzione di opere umane.
Egli si rende conto che è in grado di porre in essere una iniziativa intenzionale finalizzata ad
uno scopo riconoscibile non solo a lui, essere inserito nel mondo sociale ma sentirsi in
grado di iniziative autonome è una componente essenziale dell’identità.
Sentimento di identità e identità tipizzate
Jacobson ha criticato la teoria di Erikson dell’identità rivelando che in essa non è possibile distin-
guere tra identità di un individuo descritta sulla base di criteri oggettivi ed esperienza soggettiva
dell’identità. A questo secondo aspetto si riferisce Codol con la nozione di sentimento di identità
che non equivale all’identità definita con criteri oggettivi. La nozione di identità definita con criteri
oggettivi è quella chiamata da Berger tipo di identità (identità tipizzata), prodotto da specifiche
strutture sociali. Queste tipizzazioni danno conto della condotta dei singoli nella vita quotidiana: se
si vuole, delineano gli stereotipi che semplificano le spiegazioni ingenue degli eventi sociali. Ciò si
riallaccia alla complessità del sé: la pluralizzazione dei mondi della vita sociale ed il venir meno
dell’integrazione tra i vari universi simbolici, creano un tipo di identità incoerente.
È anche possibile distinguere tra identità personale e identità sociale. Appare riduttivo considerare
l’identità personale come prodotto dell’influenza di un gruppo che valorizza la differenza tra perso-
ne e l’identità sociale come prodotto di un gruppo che mette in risalto le caratteristiche di omo-
geneità esistenti tra loro. Si possono immaginare due punti estremi di un continuum lungo il quale
l’individuo, con il suo patrimonio genetico e all’interno di un gruppo sociale, sente la sua identità.
All’estremo sociale l’individuo si sente necessitato a vivere in rapporto con gli altri membri del
gruppo; all’altro estremo quello personale riflette sulla propria storia e sulla propria prospettiva
personale.
5.L E RELAZIONI SOCIALI
Le relazioni significative
Il modo con cui l’individuo si rappresenta gli altri è centrale per capire il suo comportamento nel
mondo sociale. Le procedure usate per studiare tali rappresentazioni riguardavano soggetti target
sconosciuti e non erano idonee per capire le rappresentazioni di altri significativi con cui si è in
relazione. Le relazioni significative sono state studiate grazie al contributo di Lewin con l’idea che
le relazioni non possono essere studiate a partire dagli individui che le intrattengono ma dall’inter-
azione fra le proprietà dei partner e quelle della situazione. Esse formano un sistema interdipenden-
te in cui il cambiamento di una parte si riflette su tutte le altre. Più recentemente si sono sviluppate
due prospettive teoriche per lo studio delle relazioni, quella di Kelley e quella di Fletcher.
Secondo la teoria dell’interdipendenza di Kelley, il dato qualificante di una relazione sociale sta
nell’influenza che ciascun partner esercita sull’altro cioè nell’interdipendenza. Gli eventi che si
verificano nell’interazione formano un processo a sviluppo circolare che modifica gli elementi in
gioco facendo evolvere la relazione stessa. Il metodo di studio più adeguato è la ricerca
longitudinale;
L’approccio cognitivo alle relazioni, considera le relazioni come uno schema composto da 3
componenti: rappresentazione del sé in relazione, credenze che riguardano il partner, script inter-
personale (cioè dalla sequenza attesa delle interazioni).
Le 3 componenti formano una struttura cognitiva detta schema della relazione. Gli schemi che
rappresentano gli altri significativi sono più complessi di quelli che rappresentano i semplici cono-
scenti. Lo script della relazione è considerato una componente ad attivazione automatica. I com-
portamenti nelle relazioni significative sono il frutto di sequenze routinizzate che non richiedono
una elaborazione consapevole delle informazioni disponibili.
Tipologia delle relazioni
La definizione di relazione significativa è soggettiva e varia in base all’età, al genere e alla cultura.
Nella prospettiva di Kelley una relazione è significativa quando si basa su una forte interdipendenza
tra i partner. Gli indicatori di interdipendenza consistono nel fatto che i partner influenzano i com-
portamenti reciproci da un lungo periodo di tempo. La scelta del partner basata sulle affinità (scelta
d’elezione) assume una rilevanza più importante della strumentalità e ciò rende difficile la codifica
delle esperienze soggettive entro categorie ben definite. Esistono alcuni tentativi di classificazione
delle relazioni ma questi non forniscono una teoria esauriente in grado di spiegare le condizioni
entro le quali si sviluppano i vari tipi di relazione.
Sono state messe a punto scale con l’obiettivo di quantificare i diversi tipi di sentimento. Uno dei
primi tentativi è stato quello di Rubin il quale ha messo a punto 2 scale:
liking scale, coglie il grado di piacevolezza attribuito al partner in termini di rispetto e stima
love scale, intende analizzare 3 componenti: attaccamento (il bisogno della presenza fisica),
prendersi cura (la manifestazione del bisogno di aiutare e sostenere) e intimità (il desiderio
di contatto stretto e confidenziale)
Rubin ha trovato che i punteggi della love scale correlano in modo positivo con indicatori di tipo
non verbale e con il livello di impegno reciproco rilevato nel tempo
Un’altra classificazione di successo è quella realizzata da Sternberg e Bargmes con il nome di
triangolo dell’amore. L’amore ha 3 componenti che entrano in diversa misura nei vari tipi di
relazione:
componente di natura emotiva (intimità, comprensione reciproca, complicità)
la passione, che ha natura motivazionale e riguarda l’attrazione fisica ed il desiderio sessuale
componente cognitiva, che riguarda il livello di impegno/decisione nei confronti del partner.
Le 3 componenti si combinano tra loro in maniera diversa ed assumono un ruolo differenziato
anche in relazione allo stadio di sviluppo della relazione (ad es. in una relazione amorosa, la pas-
sione può emergere inizialmente e declinare nel corso del tempo). Il modello di Stenberg esce dalla
concezione dicotomica amore/amicizia.
Hazan e Shaver propongono una spiegazione causale dei tipi di relazione e sostengono che il tipo di
legame di attaccamento con gli adulti che gli individui formano nell’infanzia, influenza gli stili di
relazione che adotteranno in età adulta. I bambini che hanno sviluppato nel corso dell’infanzia uno
stile di attaccamento sicuro saranno adulti fiduciosi nella loro capacità di stabilire rapporti significa-
tivi e stabili, pronti all’impegno e all’accettazione della dipendenza reciproca. I bambini che hanno
sperimentato uno stile di attaccamento evitante, nell’età adulta tenderanno a sentirsi insofferenti
rispetto alle relazioni troppo strette e alla possibilità di dipendenza reciproca. Gli individui che
nell’infanzia hanno formato un attaccamento ambivalente resistente, sono adulti preoccupati di non
essere sufficientemente amati, desiderosi di fondersi completamente con il partner.
La formazione delle relazioni
Nella formazione delle relazioni le scelte sono rese più o meno probabili da alcuni fattori che
riguardano le caratteristiche fisiche e sociali dell’ambiente in cui si trovano le persone:
Prossimità delle persone, quanto sono vicine fisicamente. Esperimenti hanno mostrato che in un
complesso residenziale, i legami che si creavano all’interno dello stesso edificio erano 10 volte
superiori rispetto a quelli che si creavano tra edifici differenti ed inoltre le persone che si trovavano
nelle vicinanze dei luoghi più frequentati, erano diventate le più popolari.
,
Aumento della familiarità dei potenziali partner reso possibile dalla prossimità delle persone,
l’ambiente diventa più rassicurante e prevedibile per cui l’associazione tra le persone è favorita, Ciò
è vero negli ambienti omogenei, mentre in quelli più eterogenei può essere vero anche il contrario
(cioè tra vicini possono scoppiare dei conflitti).
,
Percezione di somiglianza Byrne ha enunciato la legge dell’attrazione indicando nella percezione
di somiglianza il fattore più importante di attrazione: più il soggetti percepiscono il partner come
simile e più sono attratti da esso. La condivisione da parte degli altri delle nostre opinioni ci fornis-
ce il sostegno necessario ad assicurarci una validazione delle nostre opinioni. La percezione di
somiglianza di personalità può minacciare il senso di unicità dell’individuo e non risulta associata
all’attrazione. Le critiche rivolte alla legge di attrazione fanno notare che tale legge si basa sulla
correlazione fra somiglianza e attrazione e quindi la relazione potrebbe essere interpretata nel senso
causale opposto, cioè si tende a sovrastimare la somiglianza con le persone che si trovano attraenti.
Rosenbaum riformula il ruolo della percezione di somiglianza sostenendo che si tratta di una legge
della repulsione. Non saremmo tanto attratti dalle persone simili a noi, piuttosto non ci piacciono le
persone che hanno opinioni troppo diverse dalle nostre.
,
Bellezza fisica del partner le persone più piacevoli sul piano fisico sono meno sole hanno mag-
giori abilità sociale e più esperienze sessuali delle persone meno attraenti. Si può interpretare ciò
alla luce della profezia che si autoavvera: le persone più attraenti sono percepite in un quadro di
stereotipia come in possesso anche di tanti altri requisiti positivi. Le persone più attraenti hanno più
probabilità di ricevere feedback positivi.
Dal momento dell’incontro fra due persone all’avvio di una relazione significativa, intercorre la fase
dello scambio di informazioni di sé. L’apertura dell’altro (self-disclosure) non è solo una condizio-
ne necessari per raggiungere una conoscenza approfondita ma contribuisce alla percezione dell’at-
trazione reciproca. Le persone che si aprono più facilmente sono più apprezzate di quelle che non lo
fanno. L’avvio di uno scambio di informazioni intime è riconducibile ad una tendenza individuale,
l’iniziativa di uno dei 2 partner tende a indurre reciprocità nell’altro. Gli uomini tendono a parlare
meno di sé rispetto alle donne, soprattutto nelle relazioni tra uomini. La socializzazione al ruolo
maschile implica l’apprendimento di una rivelazione di sé selettiva verso le donne, ma non verso gli
altri uomini potenziali rivali.
Stabilità e soddisfazione nelle relazioni
Secondo il modello economico del comportamento umano, un individuo rimane in una relazione
con il partner finchè questo gli assicura il massimo dei beneficio al minimo costo.
Homans ha formulato la teoria dello scambio secondo la quale questo principio è applicabile a
qualunque scambio: un individuo sta in una relazione finchè ne è soddisfatto, dato che i benefici che
ne trae superano i costi costituiti da tutto ciò che nella relazione l’individuo valuta negativamente. I
benefici sono associati con la durata della relazione mentre i costi no. Kelley ha elaborato la teoria
della interdipendenza, per la quale il livello individuale di autostima influisce sulla valutazione:
una persona con una alta autostima avrà alte aspettative personali e valuterà in modo meno negativo
l’alternativa della solitudine, persone ad alta autostima saranno meno disposte a rimanere in una
relazione poco soddisfacente. La valutazione delle alternative può influenzare lo sviluppo della rela-
zione in termini di assunzione di impegno, in quanto l’essere disposti ad impegnarsi implica la
sospensione della ricerca di alternative. Un altro fattore che influenza la probabilità di mantenimen-
to di una relazione riguarda l’ammontare dell’investimento che gli individui hanno posto sulla rela-
zione stessa, vincoli psicologici che i membri di una coppia si costruiscono nel tempo.
Il modello dello scambio ha ricevuto critiche in quanto non è possibile applicare criteri economici a
relazioni affettive. Inoltre esso non riconosce un ruolo alle emozioni intense e ai comportamenti
impulsivi solo da esse guidati, che fanno saltare ogni bilancio.
La teoria dell’equità costituisce uno sviluppo della teoria dello scambio, perché attribuisce un
ruolo al principio della giustizia distributiva nel processo di valutazione della relazione. Nelle
relazioni in cui uno dei due membri riceve più di quello che offre, la stabilità è fortemente a rischio.
Questa instabilità dipende dalla dissonanza cognitiva che un tale stato di cose induce negli indivi-
dui, procurato dalla valutazione differenziata di ciò che l’individuo mette in gioco e ciò che riceve.
Mentre la teoria dello scambio era centrata su un attore sociale puntato su se stesso e sul proprio
bilancio personale, quella dell’equità prevede individui che confrontano tale bilancio personale con
quello del partner. Il principio di equità assume maggiore importanza nelle prime fasi della relazio-
ne, soprattutto in caso di relazioni di lavoro o di amicizia, mentre si dimostra meno utile per la
stabilità delle relazioni di coppia. Il principio dello scambio può essere applicato alle relazioni di
scambio che si distinguono dalle relazioni di condivisione, come quelle intime, nelle quali prevale
l’interesse per il benessere dell’altro, per esempio la relazione tra madre e figli.
Il principio dell’equità è tipico delle società individualiste ma non di quelle collettiviste. La
considerazione in termini di scambio e di equità contribuisce ad indurre delle aspettative nel partner
o delle rappresentazioni ideali della relazione la cui frustrazione può sfociare nella rottura del rap-
porto o nella ricerca di soddisfazioni compensative al di fuori della relazione.
Influenze culturali
A due estremi opposti si trovano la cultura individualista (tipicamente occidentale) che mette in
risalto l’indipendenza e la realizzazione del singolo, e la cultura collettivista (tipicamente orientale)
che sottolinea l’interdipendenza delle persone e pone le esigenze del gruppo davanti a quelle del
singolo. La scelta del partner quindi è effettuata con criteri diversi nelle diverse culture: soddisfaci-
mento dei bisogni della coppia nelle culture occidentali, scelta effettuata dalla famiglia in quelle
orientali. Solo di recente l’amore romantico è stato considerato un pre-requisito per la formazione
delle coppie, poiché gli studi di psicologia si sono sviluppati in occidente.
La comunicazione
Le rappresentazioni sociali sono il prodotto della costruzione sociale. La vita pubblica, le istituzioni
democratiche prendono vita dagli scambi comunicativi. Parlare di comunicazione significa riferirsi
ad un processo dinamico e circolare che richiede la condivisione di codici astratti. Il punto più
controverso è l’aspetto dell’intenzionalità, cioè alla definizione della comunicazione come evento
intenzionale. Il primo assioma del modello pragmatico della comunicazione afferma che non è
possibile non comunicare: anche una persona in silenzio comunica l’intenzione di non comunicare.
Negli anni 40 Shannon e Weaver formularono una concettualizzazione del processo di comunica-
zione che potesse essere utilizzata per spiegare alcune distorsioni di informazione dovute a canali
meccanici di comunicazione. “La comunicazione è una qualunque attività attraverso la quale una
mente può influenzare un’altra mente”
Altri autori invece evidenziano il fatto che frequentemente vi sono delle discrepanze di percezione
nel processo di comunicazione.
La struttura e le funzioni della comunicazione
L’idea che si possa parlare di comunicazione come di un processo che lega alcuni elementi strut-
turali, può essere fatta risalire ad Aristotele che prende in considerazione le caratteristiche di fonte,
messaggio e ricevente con l’obiettivo di delineare le migliori condizioni per l’efficacia comunica-
tiva.
Shannon e Weaver propongono un modello di comunicazione ugualmente centrato sul problema
della trasmissione accurata dell’informazione. Si tratta di una rappresentazione semplificata del
processo dinamico e circolare, ma che ha conosciuto una certa diffusione grazie all’introduzione
dell’idea di rumore. Il primo obiettivo di questi studiosi era quello di avere uno strumento utile per
individuare le cause di non coincidenza tra i processi di codifica e di decodifica. Al canale si associa
sempre una certa quota di rumore che influenza la probabilità di interpretazione corretta del messag-
gio da parte del ricevente. Al rumore di tipo fisico si è aggiunto anche quello di natura psicologica,
ovvero gli stati mentali o i sentimenti che interferiscono con l’attività di decodifica. Il modello però
non considera la possibilità che le discrepanze tra codifica e decodifica si producano a causa del
fatto che i parlanti fanno riferimento a mondi simbolici differenti frutto di esperienze sociali differ-
enti. La relazione tra parlanti è modulata da diversi sistemi in gioco contemporaneamente e in modo
coordinato, ed in particolare dal sistema verbale e da quello non verbale.
,
Sistema verbale che comprende il linguaggio, cioè un codice simbolico strutturato su regole che
governano l’articolazione dei suoni elementari, chiamati fonemi. I fonemi si compongono in unità
significative chiamate morfemi. I morfemi e le parole si associano in sequenze più lunghe secondo
le regole della grammatica e tali sequenze, i periodi, si articolano secondo le regole della sintassi.
La semantica fa riferimento alla relazione fra le parole, le frasi, i periodi e gli oggetti e significati
che assumono. Il linguaggio è una risorsa strutturante nell’interazione comunicativa, questa nunzio-
ne è stata approfondita attraverso lo studio delle proprietà descritte nel modello delle categorie
linguistiche. Tale modello considera il linguaggio come mediatore tra cognizione e realtà sociale.
La capacità comunicativa più sviluppata che gli esseri umani possiedono è il linguaggio, Semin ha
formulato il modello della modulazione del messaggio (MMM), in base al quale i messaggi
linguistici sono frutto della relazione tra gli interlocutori e le loro implicazioni sociopsicologiche
non possono che essere comprese all'interno di tale relazione.
Il MMM è organizzato intorno a 3 assunti:
-i messaggi linguistici sono strutture di conoscenza condivisa, che si modificano in funzione dei
contesti relazionali;
-la regolazione dei processi cognitivi e comportamentali degli individui è una funzione
fondamentale del messaggio;
-il messaggio costituisce una proprietà che emerge dalla relazione tra interlocutori.
Esiste una tassonomia dei termini maggiormente utilizzati nell’ambito interpersonale costituita da:
verbi descrittivi di azione DAV – descrivono obiettivamente un comportamento specifico ed
osservabile (A parla con B)
verbi interpretativi di azione IAV – descrivono una situazione specifica e ne danno una
interpretazione (una valenza positiva o negativa, ad es. A aiuta B)
verbi di stato SV – che descrivono stati psicologici ritenuti validi al di là del momento
contingente (ad A piace B)
aggettivi ADJ – fanno riferimento a disposizioni astratte e permanenti del soggetto (B è
estroverso)
Queste 4 categorie possono essere collocate lungo un continuum che va da un massimo di astrazio-
ne (ADJ) ad un massimo di concretezza (DAV). L’uso differenziato dei termini di una categoria
consente di trasmettere informazioni implicite sulla generalizzabilità del contenuto delle nostre
affermazioni e quindi anche sulla causalità. Il modello delle categorie linguistiche è stato usato per
studiare fenomeni di natura psicologica. Sono stati analizzati la causalità implicita nei verbi e i dif-
ferenti stili attribuzionali dell’attore e dell’osservatore. I risultati di questi studi possono essere così
riassunti:
Di fronte ad una frase del tipo soggetto-verbo-oggetto in cui il compito è quello di individuare la
fonte causale dell’azione espressa nel verbo, si presentano due possibilità: se la frase è formulata
con IAV la fonte causale è indicata nel soggetto mentre se la frase è formulata con un SV la fonte
causale è indicata nell’oggetto (ad es. Francesco aiuta Paolo, implica la capacità di aiutare di
Francesco e non la richiesta di aiuto di Paolo, mentre in “a Carlo piace Rosa” è Rosa la causa dello
stato di Carlo)
Le frasi formulate con SV fanno riferimento al soggetto di cui si parla, frasi con IAV fanno riferi-
mento alla situazione e al contesto. Gli IAV indicano la prospettiva dell’osservatore perché fanno
riferimento a comportamenti osservabili, al contrario gli SV si riferiscono a stati mentali non osser-
vabili del soggetto della frase inducendo a compiere attribuzioni situazionali. Gli IAV ed i SV
contengono una informazione causale implicita, poiché i primi si riferiscono a comportamenti
intenzionali, mentre i secondi descrivono comportamenti che hanno effetti non controllabili.
Altri studi hanno focalizzato l’attenzione sul modo in cui la formulazione della domanda incida
sulla risposta. Il linguaggio è visto come mezzo che consente di presentare strategicamente una idea
o un aspetto della realtà in modo da influenzare i processi cognitivi messi in atto dal ricevente.
L’interazione in cui si formano domande e risposte è uno scambio asimmetrico e interdipendente: la
persona che formula la domanda struttura la situazione sui propri scopi ed il ricevente risponde alla
realtà evocata dalla domanda.
Sistema non verbale, costituito da segnali paralinguistici, espressioni del volto e comportamento
spaziale. I segnali paralinguistici sono quelli che produciamo con la voce nel pronunciare le paro-
le, essi riguardano la qualità della voce, l’intonazione che si dà al discorso modulando l’intensità.
Anche le vocalizzazioni che vengono introdotte nel discorso danno informazioni su chi sta parlando
e servono ad attribuire un particolare significato alle affermazioni e consentono di regolare l’av-
vicendarsi dei turni di parola (ad es. riempire le pause con vocalizzazioni, indica che non si ha
intenzione di cedere la parola). Le espressioni del volto costituiscono l’insieme dei segnali con cui
esprimiamo le emozioni; è un canale di comunicazione fondamentale soprattutto nelle interazioni
precoci. Esistono alcune emozioni alle quali sono associate specifiche espressioni facciali che pro-
vocano espressioni universalmente riconoscibili. Al di là di queste emozioni di base esistono delle
regole di tipo culturale che riguardano il controllo della loro espressione nelle varie situazioni.
Queste regole di esibizione vengono apprese e rielaborate in maniera personale in seguito alla
socializzazione. Fra le espressioni del volto particolare importanza è stata attribuita al contatto
visivo, che è gratificante e induce reazioni positive. La durata del contatto visivo ha una soglia oltre
la quale perde ogni sua connotazione gratificante provocando ansia e imbarazzo. Tale soglia dipen-
de dal grado di intimità fra i partecipanti all’interazione. Tra le espressioni del volto, quelle che
coinvolgono la parte del viso, forniscono anche al parlante feedback sull’attività di decodifica del
messaggio da parte dell’ascoltatore, contribuendo così a regolare il tipo di discorso che il primo
svolge.
Il comportamento spaziale dei parlanti, riguarda la posizione del corpo i gesti e il contatto fisico
tra i parlanti. Costituisce la forma più primitiva di comunicazione sia fra gli essere umani che fra gli
animali. La deprivazione tattile nella prima infanzia provoca ritardi nello sviluppo sia sul piano
intellettuale che su quello psicologico. L’effetto del contatto fisico nell’interazione è stato studiato
sotto 2 aspetti.
Valutazione dell’ambiente e dell’interlocutore. E’ stato dimostrato che nell’interazione tra
estranei, un breve contatto fisico porta alla formazione di impressioni positive da chi è stato
toccato sulla persona che ha toccato.
Probabilità di aderire a richieste. Se nel momento di avanzare una richiesta, il richiedente
sfiora per qualche istante un braccio o una spalla del suo interlocutore, la sua richiesta ha
maggiori probabilità di essere accolta .
Questi aspetti hanno una specificità culturale Hall parla di culture di contatto caratterizzate da uno
stile tattile o olfattivo di comunicazione a differenza di culture di non contatto i cui stili sarebbero
più centrati su aspetti visivi. I contatti variano anche in base allo status (sono le persone con alto
status a sfiorare quelle con status più basso) e al genere (è più probabile che un uomo sfiori una
donna ed è improbabile il contatto tra due uomini). Un aspetto culturale importante è quello della
distanza mantenuta tra i partner dell’interazione. La distanza in termini spaziali viene utilizzata per
regolare il grado di intimità tra le persone: Secondo Hall ogni persona percepisce 4 zone di distanza
progressive alle quali mantenere gli altri a seconda del livello di intimità raggiunto dalla relazione:
la zona intima è quella entro la quale sono ammesse soltanto persone in relazione molto
stretta;
la zona personale (1-1,5 metri di distanza) si mantiene quando gli interlocutori sono due (il
superamento di tale limite può essere percepito come una minaccia, ad es. nel caso in cui
qualcuno in strada ci chieda informazioni avvicinandosi troppo);
la zona sociale è quella occupata da un gruppo di persone che comunicano fra loro;
la zona pubblica è quella che separa un oratore dal suo pubblico.
Il livello di intimità viene mantenuto in modo automatico agendo sui vari sistemi di comunicazione
non verbale. La distanza interpersonale varia anche in dipendenza di fattori culturali, di età (le
popolazioni del Sud dell’Europa ed i bambini tollerano una distanza minore) e di sesso (le donne
interagiscono in modo più ravvicinato degli uomini).
L’altra classe di segnali che rientrano nel comportamento spaziale riguarda i gesti, movimenti che si
esprimono nello spazio discorsivo comune agli interlocutori. I gesti possono essere classificati in
base alle funzioni che svolgono:
gesti illustratori ed altri gesti legati al linguaggio (ad es. l’indice per indicare una direzione)
segni convenzionali e linguaggio dei segni, movimenti che esprimono stati emotivi ed
atteggiamenti interpersonali (ad es. il pollice verso l’alto che indica incoraggiamento)
movimenti che esprimono stati emotivi ed atteggiamenti interpersonali (ad es. sfregarsi le
mani)
movimenti usati nei rituali e nelle cerimonie.
Recentemente si sostiene che non sia possibile isolare unità discrete di gesti per analizzarla. Le
espressioni non verbali costituiscono uno stile personale di comunicazione e variano in relazione a
fattori culturali. Questo aspetto è saliente quando una persona appartenente ad una certa cultura si
trova inserita in un contesto diverso.
Il comportamento non verbale favorisce il raggiungimento di diversi scopi:
orientare gli interlocutori nella riduzione della naturale ambiguità del linguaggio
fornire informazioni sullo stato d’animo e sul comportamento reciproco dei partecipanti all’inter-
azione, anche perché i segnali del corpo non sono sempre sotto il controllo personale e quindi posso-
no tradire reali emozioni;
definire il tipo di relazione che intercorre fra i parlanti, ogni relazione veicola una compo-nente di
contenuto ed una di relazione. E’ questo l’aspetto della metacomunicazione, vengo-no usate frasi
specifiche per ridefinire i ruoli all’interno di uno scambio verbale. La stessa funzione può essere
assunta anche da segnali non verbali;
regolare l’avvicendarsi dei turni di parola;
.
presentare se stessi
La comunicazione cooperativa
Partecipare ad una comunicazione implica un atteggiamento cooperativo perché gli attori devono
riconoscere uno scopo comune. Grice ha fornito delle regole che governano la conversazione come
azione sociale cooperativa, le regole devono essere implicitamente riconosciute dai partner: si con-
cretizzano in 4 massime:
,
massima di quantità un interlocutore deve dare tutele informazioni richieste
,
massima di qualità si tratta della presunzione di verità, quando parliamo con le altre
persone diamo per scontato che la probabilità che dicano cose vere sia maggiore di quella
che dicano cose false
,
massima di relazione l’informazione che si trasmette deve essere rilevante
massima di modo, riguarda le modalità di formulazione del messaggio, essere breve e chiaro
Quando l’intervento di un interlocutore sembra violare una di queste massime la conseguenza può
essere il venir meno del processo di cooperazione, quindi l’interruzione dello scambio. La violazio-
ne può essere interpretata anche come parte integrante del messaggio.
Ghiglione ha privilegiato una prospettiva psico-socio-pragmatica della comunicazione ovvero una
psicologia sociale dell’uso del linguaggio che articoli le conoscenze circa l’interazione sociale.
L’attore sociale diviene tale in quanto individuo comunicante, ed è intralocutore cioè detentore di
conoscenze e interlocutore cioè attore coinvolto in una interazione comunicativa. Questo ricercatore
formula il modello del contratto di comunicazione che si basa su 2 principi fondamentali:
1. ogni interazione comunicativa può essere pensata come una situazione in cui gli interlo-
cutori stabiliscono implicitamente un contratto fondato su un certo numero di regole;
2. il contratto si stabilisce implicitamente in riferimento ad una posta in gioco, dato che non
esiste una comunicazione senza scopi.
Per quanto riguarda le regole del contratto che gestisce la comunicazione esse vengono schematiz-
zate in:
principio di pertinenza, riconoscimento reciproco delle competenze necessarie per lo svolgi-
mento dello scambio comunicativo
principio di coerenza, gli attori sociali riconoscono di funzionare secondo logiche simili
principio di reciprocità, i potenziali interlocutori si riconoscono a vicenda il diritto di entrare
in comunicazione
principio di influenza, ogni scambio comunicativo è portatore di poste in gioco e co-costru-
zione della realtà, ogni interlocutore quindi tenta di imporre la propria visione del mondo.
Il contratto di comunicazione fornisce una trama interpretativa in cui le credenze che attribuiamo ai
nostri interlocutori sono associate in modo significativo. Quindi la comunicazione presuppone lo
sviluppo da parte degli interlocutori di competenza comunicativa che comprende:
acquisizione del linguaggio
saper utilizzare il linguaggio per agire nel proprio ambiente fisico e sociale (competenza
performativa)
saper riconoscere le norme specifiche del contesto che regola le interazioni verbali
saper riconoscere le regole che influenzano l’interazione nel contesto
saper influenzare l’interlocutore.
Implicazioni socio cognitive delle categorie linguistiche
Semir e Fiedler hanno dimostrato che l'astrazione dei termini linguistici influenza l'osseratore nel
centrarsi su aspetti differenti dell'episodio comportamentale comunicato. (Es. Maria avvicina le
labbra alla guancia di Paolo → Maria seduce Paolo/Maria bacia Paolo/Maria ama paolo/Maria è
affettuosa) → queste affermazioni descrivono e interpretano il medesimo evento, tuttavia danno
luogo ad inferenze e attribuzioni molto diverse sui protagonisti.
Per questa ragione, l'analisi dell'astrazione consente di esaminare e comprendere i processi psico-
sociali che sostanziano le relazioni tra persone. L'uso dell'astrazione linguistica è influenzato in
modo trasversale dalle motivazioni degli interlocutori e dal contesto sociale in cui avviene la
comunicazione.
Il linguaggio tra cultura e cognizione
Semin e colleghi hanno esaminato le differenze culturali nell'espressione di emozioni mostrando
che persone appartenenti a culture collettiviste centrate maggiormente sulle relazioni sociali
esprimono le proprie emozioni utilizzando un linguaggio relativamente concreto in confronto a
persone di culture individualistiche che utilizzano termini astratti, autoriferiti e decontestualizzanti.
Nel complesso dunque, gli studi transculturali mostrano che gli orientamenti cognitivi
caratterizzanti culture diverse si riflettono sistematicamente in diverse scelte linguistiche.
Relazioni interpersonali
Persone con elevato bisogno di chiusura preferiscono ricevere informazioni astratte che rimangono
invariate nel tempo senza necessità di riaggiornamento. In condizioni di forte bisogno di chiusura
cognitiva, i partecipanti formulavano domande con termini più astretti rispetto a condizioni di
scarso bisogno di chiusura. Inoltre, quando i partecipanti rispondevano a domande concrete,
focalizzavano la risposta su se stessi e di conseguenza percepivano una relazione + personale e
amichevole con l'intervistatore.
Messaggi con termini positivi astratti e negativi concreti inducono la percezione di una maggiore
prossimità con chi li ha formulati, rispetto a messaggi positivi concreti e negativi astratti.
Quando le descrizioni positive contengono termini astratti, i riceventi ritengono più probabile che
chi ha formulato il messaggio sia un amico, pittosto che un nemico. L'opposto accade per la
descrizione di comportamenti negativi.
Eubini e Sigall hanno dimostrato che le persone si presentano utilizzando un linguaggio più astratto
quando vogliono rendersi piacevoli ad altri simili, mentre un linguaggio più concreto con persone
con opinioni eterogenee.
Nell'insieme, i risultati, mostrano che astrazione e concretezza del linguaggio interpersonale
generano rappresentazioni differenziate di sé e degli altri a seconda del contesto comunicativo
danno luogo a risultati differenti in termini di prossimità percepita tra interlocutori.
L’aggressività e l’altruismo
Capitolo 6
Gli esseri umani sono buoni o cattivi?
Hobbes: le persone sono inclini all’aggressività verso i propri simili, quindi necessitano di istituzio-
ni sociali in grado di reprimere le tendenze antisociali. Rousseau: sostiene la concezione di una
natura buona corrotta dalle esigenze della civiltà.
Per Freud l’aggressività umana è inevitabile ed è frutto della tensione fra due sistemi primari quello
di autoconservazione (eros) e quello di autodistruzione (thanatos). Il primo ci fornisce l’energia
vitale necessaria per la sopravvivenza, il secondo produce un’energia distruttiva che deve essere
indirizzata verso l’esterno per consentire alla prima di prevalere. Il comportamento aggressivo è una
strategia di riorientamento di tale energia negativa ed è funzionale all’individuo. Nell’opera Il
disagio della civiltà, Freud sostiene che la civiltà pone dei limiti alle manifestazioni aggressive dei
suoi membri, attraverso le norme e le restrizioni. In queste limitazioni sta anche il contrasto tra la
libertà individuale e la civiltà. Le pulsioni individuali devono essere sublimate, cioè convogliate su
mete socialmente desiderabili quali le creazioni artistiche e la produzione scientifica. La frustrazio-
ne civile è il prezzo che il singolo paga alla società in termini di mancata soddisfazione delle sue
pulsioni aggressive.
L’approccio etologico condivide con Freud l’idea della naturalità dell’aggressività umana. Si deve
osservare il comportamento di individui di specie diverse da quella umana, per stabilire se è possibi-
le rinvenire comportamenti di aggressività non imputabili a fattori sociali o culturali. Lorenz soste-
neva l’inevitabilità dei comportamenti aggressivi che sono funzionali per la conservazione della
specie. L’aggressività fa parte delle strategie di selezione naturale.
Per entrambi gli approcci, il comportamento aggressivo rispetta la logica del modello idraulico:
l’energia istintuale deve essere indirizzata e manifestata; in caso contrario si accumula e può scop-
piare in modo incontrollato. La società deve trarre vantaggio dall’indirizzare le energie negative dei
singoli verso forme di scaricamento socialmente accettabili. Tale metafora è inadeguata nella
spiegazione delle evidenze empiriche. Le persone che hanno possibilità di manifestare comporta-
menti aggressivi non diminuiscono la propria carica di aggressività. Falliscono anche i tentativi di
attribuire all’osservazione di atteggiamenti aggressivi valore catartico: essere esposti a comporta-
menti aggressivi non è sufficiente ad eliminare la pulsione aggressiva anzi aumenta la probabilità
che l’individuo adotti una modalità aggressiva di risposta.
I livelli di spiegazione del comportamento antisociale
La frustrazione
La prima teoria che si distanzia dal concetto di inevitabilità dell’aggressività è stata elaborata da
Miller e Dollar. Una persona è motivata ad agire in modo aggressivo perché indotta da una frustra-
zione e non da fattori istintuali. La frustrazione si verifica quando degli ostacoli si frappongono fra
l’individuo e il raggiungimento dei suoi fini. Alla frustrazione segue sempre una risposta aggressiva
e l’aggressività è sempre causata da una frustrazione. Tuttavia l’aggressività può anche non essere
rivolta alla causa della frustrazione (se si è frustrati perchè bocciati ad un esame, non si è aggressivi
con il docente) perché nel corso dell’esperienza si tende ad associare una determinata risposta
comportamentale ad una conseguenza. Se l’aggressività non può indirizzarsi verso l’artefice della
frustrazione, si devia verso obiettivi da cui derivano conseguenze più lievi (ad es. si è scortesi verso
gli amici in caso di bocciatura).
L’azione aggressiva non è vista come il prodotto di un istinto innato, ma è una modalità di scaricare
pulsioni negative prodotte dalla frustrazione. I criminali sono stati sottoposti ad una serie di frustra-
zioni superiori alla media e sono in grado meno degli altri di associare la pena al loro comportamen-
to. La critica principale alla teoria di Miller e Dollard riguarda la bi-univocità tra aggressività e
frustrazione. È stata proposta una rilettura di questa teoria che tiene conto della teoria dell’apprendi-
mento sociale. Ogni sentimento negativo può indurre aggressività che è una delle risposte previste
in un repertorio di comportamenti. Quando nelle situazioni sono presenti stimoli a cui l'individuo ha
associato una risposta negativa nel corso di esperienze precedenti, l’aggressività ha maggiore proba-
bilità di manifestarsi.
L’imitazione
Questa idea può essere fatta risalire alla psicologia delle folle dell’inizio del 900. Tarde parlò
dell’imitazione come principio che governa il comportamento sociale in gruppi di vaste dimensioni.
Le Bon chiamava in causa la suggestione, cioè una forma di ipnosi collettiva. L’individuo capace di
controllo e censura nella folla perde tale controllo e attraverso l’imitazione adotta comportamenti
immediati in risposta a stimoli sociali. Quindi le persone sarebbero facilmente manipolabili da un
individuo dotato di un certo carisma. Questi concetti furono ripresi da Freud con la nozione di
disagio della civiltà.
L’idea dell’imitazione è stata ripresa nella teoria dell’apprendimento sociale di Bandura. L’ag-
gressività si può comprendere come comportamento sociale che viene acquisito e mantenuto in pre-
senza di alcune condizioni.
L’associazione del comportamento ai suoi esiti in termini di conseguenze negative o positive, può
essere appresa tramite esperienza diretta o attraverso l’osservazione di qualcuno che attua un com-
portamento e delle conseguenze che ne ricava. Se il comportamento osservato produce effetti positi-
vi si avrà un rinforzo di quel tipo di risposta, cioè aumenterà la probabilità che l’osservatore adotti
quella risposta in situazioni successive analoghe. I bambini che hanno assistito al maltrattamento di
un giocattolo da parte di un adulto tenderanno a riprodurre questo comportamento. Esiste una
relazione tra l’esposizione a programmi ad alto contenuto di violenza e il livello di aggressività ma-
nifestata, ma non è facile stabilire una reazione causale tra le 2 variabili. I programmi a contenuto
violento provocano un’attivazione emozionale e una risposta aggressiva più probabile nelle persone
che hanno già ottenuto risultati positivi nella messa in atto di questo genere di comportamento in
passato. Questa associazione tra emozione e risposta comportamentale risulta più forte in determi-
nate condizioni: se lo spettatore si identifica con il personaggio violento, se le conseguenze del
comportamento violento appaiono trascurabili, se la violenza osservata è realistica.
Le norme sociali
Studi condotti da Milgran volevano dimostrare che l’aggressività distruttiva poteva aversi anche in
un soggetto normale che si occupa del suo lavoro. In un esperimento in cui lo sperimentatore
chiedeva di somministrare scosse elettriche in base ad errori compiuti da un complice in compiti di
memoria, si stimava che solo l’1% sarebbe arrivato a somministrare le scariche più forti, ma si
rilevò una percentuale del 65%. Un riesame dei dati ha rilevato che l’adesione alle richieste fatte da
un soggetto fonte di autorità (lo sperimetatore) variano molto in funzione della distanza fra il sog-
getto sperimentale e la sua vittima e tra il soggetto sperimentale e lo sperimentatore che impartiva
gli ordini. Nel primo caso i partecipanti si trovavano in una situazione di conflitto tra la norma
dell’obbedienza e quella della responsabilità sociale nei confronti della vittima. Nei casi in cui si era
costretti ad un contatto fisico, l’obbedienza scendeva del 30%. Nel secondo caso Milgran osservò
che il grado di sottomissione dei partecipanti scendeva del 20,5% all’aumentare della distanza fra
sé e lo sperimentatore. Milgran afferma che la situazione in cui aveva posto i partecipanti era tale da
generare uno stato eteronomico in cui nella percezione del soggetto prevale la norma dell’obbe-
dienza ad un’autorità che si suppone assuma la responsabilità del comportamento disumano del
soggetto nel momento in cui gli impartisce l’ordine. A questo stato concorrono alcune condizioni:
percezione di legittimità dell’autorità (lo sperimentatore incarna nel laboratorio l’autorità
scientifica)
adesione al sistema di autorità (educazione all’obbedienza come esperienza rilevante nel
processo di socializzazione)
pressioni sociali (contravvenire alle richieste dello sperimentatore, significa metterne in
discussione le doti e non tenere fede agli accordi)
Le pressioni situazionali possono spiegare comportamenti non altrimenti spiegabili sulla base delle
disposizioni di personalità degli attori sociali (i risultati dell’esperimento non variavano in funzione
dello status dei soggetti). Ciò si spiega perché l’obbedienza all’autorità è una norma che in certi casi
garantisce anche un ordine sociale.
Le norme sociali, anche se spesso contradditorie, sono orientate alla regolazione dei comportamenti
aggressivi nelle varie situazioni. I gruppi che compongono la società generano loro propri sistemi
normativi che possono partire dall’accettazione del quadro normativo convenzionale oppure dal
rifiuto. Nei gruppi devianti la ribellione contro l’autorità formale e l’aggressività nei confronti dei
gruppi non devianti diventa una norma rilevante per i singoli membri. Il comportamento normativa-
mente appropriato è una condizione per essere accettati dal gruppo. Fenomeni collettivi distruttivi di
ampie dimensioni, che sono stati interpretati come condizioni in cui l’individuo deroga alle sue
capacità razionali, possono essere compresi in termini situazionali in cui si generano norme sociali
specifiche al contesto a cui l’individuo aderisce per mantenere un sentimento di appartenenza ad
una collettività.
La dinamica del comportamento aggressivo
La manifestazione del comportamento aggressivo può dipendere dall’interpretazione della situa-
zione in cui il soggetto si trova. La focalizzazione dei protagonisti su alcune caratteristiche della
situazione porta a interpretazioni differenziate, ogni situazione ha un certo livello di ambiguità.
Nella fase di definizione dell’evento è cruciale il ruolo che si attribuisce all’intenzionalità di ciò
che sta avvenendo. La scelta della risposta è influenzata dalla percezione delle conseguenze, dal
livello di attivazione emotiva negativa e dalle norme che sembrano pertinenti al contesto. Da questi
fattori deriva la motivazione ad agire una risposta negativa o neutra e la percezione della necessità
di una risposta che influenza la decisione finale circa il comportamento da tenere.
I livelli di spiegazione dei comportamenti prosociali
L’altruismo è una caratteristica individuale?
Lo studio delle cause della messa in atto di comportamenti altruistici è molto recente. Secondo
Moscovici l’altruismo è un concetto che interessa lo studio delle relazioni sociali. L’ipotesi è che la
probabilità di attuazione di comportamenti altruistici sia governata anche da fattori relativi alla
situazione e non solo da quelli socialmente patologici come la mancanza di valori. Episodi di crona-
ca mostrano come in caso di aggressioni si tenda a non intervenire in favore dell’aggredito. Questo
comportamento è spiegato da Latanè e Darley con il principio della diffusione: le persone non
potendo osservare i comportamenti reciproci, finiscono con il pensare che qualcun altro sia già
intervenuto in soccorso della vittima (diffusione della responsabilità). Se invece si è consapevoli
di essere gli unici ad assistere all’episodio, nella maggior parte dei casi si sarà portati ad intervenire.
Questa è un’altra interpretazione rispetto a quella che vede il disinteresse delle persone in questo
tipo di episodi.
Alcuni etologi hanno sostenuto la funzionalità dei comportamenti aggressivi per la conservazione
della specie, altri hanno messo in evidenza che anche i comportamenti prosociali servono allo stesso
scopo, come ad es. nel caso degli insetti. Alcuni comportamenti non sono finalizzati alla soprav-
vivenza individuale quanto al potenziamento della trasmissione dei geni, infatti sono attuati a favore
di individui della stessa famiglia. Per gli umani invece, i comportamenti prosociali sono attuati
anche nei confronti di estranei, per cui ci si chiede se l’altruismo non sia un tratto specifico della
personalità.
La personalità altruista è associata ad una costellazione di tratti di personalità quali alta stima di sé,
alta competenza morale, tendenza ad attribuire le cause degli eventi di cui il soggetto è protagonista
a fattori interni, basso bisogno di approvazione esterna e forte senso di responsabilità sociale. Altri
fattori risultano ancora più cogenti. In certe situazioni gli osservatori intervengono mentre in altre
nessuno è disposto a farlo, e quindi la dimensione della personalità non è sufficiente a spiegare la
messa in atto di comportamenti altruistici.
Il ruolo dell’empatia
Hoffman considera l’empatia come un elemento che precede la risposta di aiuto, fa riferimento ad
una attivazione emotiva fatta di simpatia per la persona in difficoltà. Tale attivazione emotiva è
associata ad un processo cognitivo, l’osservatore assume la prospettiva della persona in difficoltà.
Questo spiega come mai le persone sono più disposte ad aiutare qualcuno che percepiscono come
simile a sé. La percezione di somiglianza favorisce l’insorgere del sentimento empatico. Osservare
la sofferenza altrui crea disagio per cui quando l’evitamento non è possibile il comportamento di
aiuto può non essere frutto di altruismo, ma essere motivato dalla necessità di rimuovere il disagio
personale. Cialdini sostiene l’ipotesi del sollievo dallo stato negativo, le persone che si trovano in
uno stato negativo mettono in atto risposte altruistiche non tanto per un reale interesse verso la per-
sona che ha bisogno, quanto per migliorare il proprio umore. I comportamenti prosociali derivano
da un motivazione egoistica: il desiderio di rimuovere l’angoscia che provoca la vista dell’altrui
sofferenza. La stessa ipotesi spiega perché gli individui non intervengono in aiuto quando sono
possibili delle vie di fuga: la percezione di diffusione di responsabilità rende la fuga una risposta
funzionale alla riduzione del disagio personale. Tuttavia Batson ha dimostrato che, anche quando vi
è possibilità di fuga, ci sono individui che scelgono di prestare il proprio aiuto, in condizioni in cui
il reale interesse per la vita umana prevale ed è il prodotto della capacità empatica vera e propria.
Ha formulato il modello dell’empatia-altruismo: la preoccupazione per le sofferenze altrui è una
motivazione sufficiente per spiegare comportamenti prosociali che non rispondono a ferree regole
di bilancio costi/benefici.
Cialdini ha ripreso la concezione dell’essere umano come fondamentalmente egoista cercando di
dimostrare che il fattore motivante non è tanto l’empatia quanto il senso di unità interpersonale
che l’osservatore esperisce nei confronti della vittima. La percezione di somiglianza induce maggio-
re empatia ma anche maggiore senso di sovrapposizione tra sé e l’altro. Le circostanze entro le quali
si sono osservati i comportamenti più genuinamente altruistici sono le stesse che portano gli indivi-
dui a percepire una debole separazione tra sé e l’altro. Se la distinzione tra sé e altro non è chiara
nella mente dell’osservatore, non è facile separare le motivazioni altruistiche da quelle egoistiche.
Infatti se il sé non è distinto dall’altro aiutare l’altro ha anche ripercussioni positive per il sé.
Le norme sociali
La convivenza civile rende necessario l’apprendimento, nel corso del processo di socializzazione di
norme sociali che stabiliscono comportamenti prosociali. Uno dei principi importanti è quello della
reciprocità: le persone devono restituire l’aiuto a chi lo ha offerto loro o a chi potrà offrirlo in
futuro. La norma della reciprocità ha un carattere universale ed è un principio esplicatore nella
teoria della equità: in una relazione di coppia se un membro percepisce un disequilibrio tra i bene-
fici che dispensa e quelli che riceve sperimenta uno stato di disagio mentre la situazione contraria
porta a rabbia e frustrazione.
Buunk ha proposto una lettura evoluzionistica dell’efficacia sociale di tale principio. Parte dalla
teoria dell’altruismo reciproco di Dawkins: attraver-so il metodo della simulazione al computer,
l’autore ha dimostrato che individui incondizionatamente altruisti sono destinati a soccombere a
favore di individui incondizionatamente egoisti che però non possono sopravvivere senza i primi.
La strategia evolutivamente più vincente è quella degli individui che agiscono sulla base della
reciprocità mostrandosi altruisti e cooperativi con coloro che lo sono stati o che potranno esserlo nei
loro confronti. Secondo Buunk tale teoria porta ad un contributo alla questione circa l’esistenza di
una forma più pura di altruismo: gli individui sarebbero capaci di altruismo puro come esito di un
processo evolutivo che ha permesso di trarre benefici dall’altruismo reciproco.
Un’altra norma sociale che definisce l’aiuto come comportamento appropriato è quella della
responsabilità sociale. È la norma per la quale ci sentiamo in obbligo di aiutare e si sviluppa verso
i membri deboli della società che non possono contare nella famiglia. Esistono però anche norme
che prescrivono di non intervenire, per esempio la norma che protegge la privacy famigliare. Le
violenze a donne e bambini sono spesso inferte in ambito famigliare e i livelli di intervento sono
minimi perchè si pensa che i confini famigliari debbano essere regolati dai membri stessi.
Le società pluraliste presentano sistemi normativi formali e informali costituiti da regole che
possono apparire in contrasto. Le condizioni entro le quali una norma sociale influenza il comporta-
mento degli individui sono:
La norma deve essere interiorizzata dall’individuo nel corso della socializzazione, in
questo modo gli individui sviluppano il proprio senso di dovere morale come risultato della
rielaborazione personale del sistema normativo
La norma deve essere percepita come pertinente in una data situazione
Secondo Moscovici l’altruismo si declina in 3 forme:
altruismo partecipativo, comportamenti che favoriscono la vita collettiva (ad es. il volontà-
riato)
altruismo fiduciario, sacrificio finalizzato a stabilire un legame di fiducia (ad es. nelle rela-
zioni di vicinato)
altruismo normativo, in forma di classificazione degli aiuti che si possono dare e delle
persone che devono essere riconosciute in stato di bisogno e delle rinunce a risorse personali
che le altre persone possono fare (ad es. sussidio di disoccupazione)
La dinamica del comportamento altruistico
Le fasi che compongono il processo che ha come esito l’offerta di aiuto sono:
Definizione dell’evento. Ogni evento presenta un certo grado di ambiguità e la probabilità di aiutare
qualcuno dipende dall’attribuzione causale. L’errore fondamentale di attribuzione è una tendenza
diffusa a sopravvalutare le cause interne nella spiegazione dei comportamenti altrui. A questa
distorsione si aggiunge la credenza in un mondo giusto, perché le persone tendono a presentarsi
l’ambiente in un modo ordinato e razionale. Tutto ciò fa diminuire la probabilità di prestare aiuto.
L’attribuzione causale non è attuata solo da parte dell’osservatore, ma anche dalla persona che
riceve aiuto. I risultati dei due processi possono non coincidere a causa della differente autostima,
poiché chi è aiutato ha minore autostima e tende a sottovalutare l’importanza dell’aiuto. Se la
minaccia del sé indotta dal fatto di ricevere aiuto prende il sopravvento, il beneficiario può anche
mettere in atto risposte negative verso colui che è intervenuto per ripristinare il senso della propria
autonomia.
Di fronte ad un evento ambiguo, le persone osservano anche il comportamento degli altri presenti
nella scena per interpretare quello che sta succedendo, senza considerare che anche gli altri stanno
facendo lo stesso (ignoranza pluralistica). Una volta attribuito il carattere di emergenza alla
situazione, si ha una fase di valutazione del costo attribuito all’aiuto, poiché intervenire può
comportare dall’essere inefficaci al rischio della propria vita.
7.L’
INTERAZIONE NEI GRUPPI
L'esperienza di gruppo come processo co-costruito
Nel processo di socializzazione dei piccoli umani entrano in gioco fattori naturale e fattori culturali.
Per molto tempo il rapporto fra natura e cultura è stato considerato in modo conflittuale: la
dimensione naturale positiva del bambino, simile al “buon selvaggio”, è inquinata e distorta da
fattori culturali che limitano la creatività e la libertà del soggetto che cresce. Per altri, invece, il
piccolo selvaggio, dominato da istinti biologici aggressivi ed egocentrici, deve essere educato dal
contesto culturale che gli inculca regole e obblighi morali.
Le conoscenze bio-antropologiche hanno chiarito che nel corredo innato degli esseri umani è
presente una predisposizione costituzionale alla vita sociale.
In altre parole, il piccolo umano non è un'entità puramente istintuale né una tabula rasa come
sosteneva il comportamentismo: egli dispone già dalla nascita una propria organizzazione biologica
che produce, fin dai primi giorni condotte dal significato sociale in grado di influenzare gli adulti
che si prendono cura di lui.
Eraldo De Grada sostiene la tesi che i gruppi ssi costituiscano per un'associazione spontanea fra
attori sociali: “un gruppo tende a nascere spontaneamente in ogni situazione di stare insieme nella
quale siano presenti elementi atti a consentire o stimolare una autocategorizzazione comune... come
x esempio, il semplice abitare nello stesso caseggiato, frequentare la stessa scuola ecc..
Lewin afferma che non basta incontrarsi fra simili per costruire un gruppo, occorre attivare un
progetto comune, anche se di portata limitata.
L'ingresso in un gruppo esistente,non avviene in modo semplice, richiede sempre che le regole ivi
esistenti siano conosciute e rispettate.
Un neofita che entra in un gruppo assumendo comportamenti assertivi, volti a cambiare certi stili
consolidati, viene generalmente marginalizzato se non espulso.
Una volta che si sia socializzato alle regole del gruppo, il nuovo arrivato può cominciare a far valere
le sue idee ed eventualmente proposte razionali volte a modificare regole percepite come poco
produttive.
Levine e Moreland hanno precisato le tattiche che rendono più facile l'ingresso in un gruppo:
-Prima di tutto è necessario svolgere un'accurata esplorazione ambientale per scegliere il gruppo
giusto, che risponde alle proprie attese;
-Assumere l'atteggiamento del new comer esibendo atteggiamenti cauti e attendisti per non creare
allarme negli anziani del gruppo: è una sorta di captation benevolentiae volta d essere accolti senza
generare sospetti;
-Cercare fra i componenti del gruppo coloro che ispirano fiducia e possono agire come tutori per
scoprire come funzione il gruppo e per conoscere i comportamenti ritenuti adeguati;
-Collaborare con altri nuovi membri permette di avere un agevole punto di riferimento
nell'ambiente inizialmente sconosciuto e di confrontarsi con questi altri nello sfondo di interpretare
le regole vigenti.
Kurt Lewin e lo studio dei fenomeni di gruppo in psicologia sociale
La definizione di gruppo è difficile a causa delle numerose implicazioni filosofiche ed epistemo-
logiche. Un gruppo sociale è costituito da un certo numero di individui che interagiscono l’uno con
l’altro con regolarità. Questa regolarità di interazione tiene insieme i partecipanti dando vita ad una
unità distinta all’interno della quale ciascuno si aspetta dall’altro un certo tipo di comportamento e
questa aspettativa non vale nei confronti dei non appartenenti al gruppo. Gli aggregati sono insiemi
di individui che si trovano nello stesso luogo allo stesso momento, senza condividere alcun legame
(ad es. i viaggiatori in uno scompartimento). Una categoria sociale è un raggruppamento statistico
costituito da individui classificati nella stessa categoria sociale in base ad una particolare carat-
teristica in comune (ad es. per reddito). Gli individui che si trovano nella stessa categoria sociale
non interagiscono tra loro e non si trovano nello stesso luogo.
In sociologia è ancora utilizzata una distinzione tra:
,
gruppi sociali primari sono insiemi di persone che interagiscono direttamente e sono
legati da vincoli di natura emotiva;
gruppi sociali secondari, sono formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti
ma di tipo impersonale determinati da scopi pratici. Nei gruppi secondari si possono
instaurare legami tali da trasformarli in gruppi primari.
Lewin ha definito lo status psicologico dei gruppi sociali, affermando che ogni totalità è diversa
dalla somma delle singole parti. Il gruppo è concepito come una totalità dinamica basata sull’inter-
dipendenza dei suoi membri indipendentemente dalla somiglianza. Non è la somiglianza o la diver-
sità che decide se due individui appartengono allo stesso gruppo o a gruppi diversi, ma l’interazione
sociale o altri tipi di interdipendenza. L’adolescente ebreo capisce che indipendentemente dal fatto
che il gruppo ebraico sia di tipo razziale religioso nazionale o culturale, l’essere classificato dalla
maggioranza non ebrea come un gruppo distinto è quello che conta. Sarà pronto ad accettare la
varietà di opinioni entro il gruppo ebraico come qualcosa di naturale per tutti i gruppi. Il criterio
principale dell’appartenenza è l’interdipendenza del destino. Questa considerazione del destino
comune rende chiaro che nella definizione di Lewin non è presente alcuna limitazione dei possibili
membri di un gruppo. Lo studio della dinamica dei gruppi è stato spesso inteso come studio dei
piccoli gruppi.
Temi classici della dinamica di gruppo
Vi sono alcuni temi della dinamica di gruppo affrontati nel corso della “prima generazione” degli
allievi di Lewin.
Il sistema di status
Lo status è la posizione che una persona occupa in un gruppo ed è la valutazione in termini di
prestigio data a quella posizione. Esistono 2 indicatori dello status:
la tendenza da parte di chi occupa uno status elevato a promuovere iniziative
una valutazione consensuale del prestigio connesso ad un certo status
Fra i metodi per misurare lo status sono state utilizzate tecniche osservative del comportamento non
verbale, coloro che occupano uno status più elevato tendono ad avere una postura eretta e a
mantenere il contatto visivo. Per quanto riguarda il comportamento verbale queste persone parlano
più delle altre esprimono critiche e comandi ed interrompono gli altri.
Sono state anche utilizzate tecniche d’indagine che consistono nel richiedere ai membri del gruppo
chi sia il più popolare. I giudizi di differenziazione di status sono ancorati ad un estremo, i giudizi
concordano maggiormente quando si considera un livello più elevato e uno più basso della struttura
gerarchica. La gerarchia però non è un fatto immutabile.
Lo status può derivare dalla messa in atto di alcuni comportamenti come sacrificarsi o aiutare gli
altri membri. Vi sono 2 spiegazioni teoriche sullo sviluppo del sistema di status:
i teorici degli stati di aspettativa sostengono che già nei primi incontri del gruppo le posi-
zioni vengono attribuite in accordo con le aspettative riguardo al contributo che ognuno può
dare al raggiungimento degli obiettivi del gruppo
i teorici della corrente etologica sostengono che fin dai primi approcci i membri del gruppo
valutano la forza di ciascuno a partire dalla sua apparenza e dal suo contegno.
Le differenziazioni di status corrispondono ad un bisogno di prevedibilità e di ordine.
Il ruolo
Il ruolo è un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi un indivi-
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