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LA TORTURA CI RIGUARDA
Nelle democrazie moderne, le distinzioni tra cittadini, ospiti, sovversivi, terroristi, nomadi e criminali sono temi di grande dibattito politico e investono tutte le questioni di ordine pubblico. La pratica della tortura contribuisce a creare queste divisioni all'interno della compagine sociale. Essere etichettati come sovversivi e terroristi urbani è la precondizione per subire un trattamento degradante, il quale, a sua volta, nel momento stesso in cui è agito, segnala che la persona che lo riceve in qualche modo "se lo merita", perché si pone al di fuori dei confini di una tutela legale inerenti alla cittadinanza.
Un ulteriore aspetto attiene all'evoluzione della tortura in "tortura bianca". Su questo tema c'è disaccordo in merito a talune pratiche, se considerarle o meno disumane. Sappiamo bene come determinati metodi, perché visti al di fuori dell'ordinario, siano maggiormente
assimilatialla tortura, mentre altri, più intrecciati con la vita quotidiana risultinoviceversa più accettabili.E allora non c'è alcun dubbio: chi può salvarci dalla tortura è lospettatore, il terzo come opinione pubblica. In qualità di cittadini, siamochiamati a guardare con il giusto rispetto chi indossa una divisa rappresentativa di un sistema democratico, a sua volta un concittadino. Però, nello stesso tempo, il nostro sguardo deve essere intenzionato dalla consapevolezza che è nello spazio delle istituzioni civili che si stabiliscono le norme circa l'uso legittimo della forza fisica. Siamo noi spettatori-cittadini a decidere, attraverso la partecipazione democratica, come vogliamo essere trattati e non certo un ufficiale dell'esercito o un funzionario di polizia. Uno Stato dovrebbe agire per combattere la tortura e rimediare agli errori cagionati. Ciò è possibile attraverso tre livelli: prevenzione, la- condannala ,- compensazionela .-Gli Stati devono prevenire la tortura astenendosi dal praticarla e facendo tutto necessario per impedirla; dotarsi di leggi adeguate, impegnarsi nella formazione individuale e nell'informazione sociale, sensibilizzando i cittadini.
Gli Stati devono condannare la tortura, intervenendo con il diritto penale affinché ogni atto di tortura sia punito con pene adeguate; riconoscere che la tortura è ingiustificabile e pertanto chi se ne macchia non può invocare gli ordini ricevuti da un'autorità superiore a giustificazione di ciò che ha fatto.
Infine gli Stati devono risarcire le vittime di tortura per i danni inflitti e concedere i mezzi necessari per una completa riabilitazione: va garantita alla vittima il diritto di presentare una denuncia, fornendo al denunciante e ai testimoni adeguata protezione.
Questi tre livelli d'azione sono tra loro strettamente connessi, e mancanze a ogni livello incidono negativamente.
sulla capacità degli Stati di avversare efficacemente la tortura.CAPITOLO 3
ABUSI IN DIVISA: IL CITTADINO COME NEMICO?
INTRODUZIONE
Lo Stato si oppone legittimamente a tutte le forme violente con cui singoli individui e gruppi umani aggrediscono l'ordine pubblico. Avendo ricevuto dai cittadini il potere di ricorrere alle misure coercitive per mantenere la pace civile, lo Stato invoca prontamente e facilmente questo diritto per tutelare la sicurezza collettiva. Può certamente raggiungere lo scopo prefissato muovendosi all'interno dei vincoli normativi esistenti. Così come può oltrepassare illecito, trasformando la propria azione da tutela a minaccia per i cittadini.
Detto questo, è fuori discussione che qualsiasi società democratica abbia bisogno di un servizio legittimo per preservare l'ordine e fare rispettare le leggi. Indubbiamente, la polizia può essere costretta a usare una coercizione fisica per neutralizzare i violenti e
metterli nella condizione di non poter nuocere allacompagine sociale. Nella concreta vita quotidiana, lo Stato democratico pare più preoccupato di costringere i singoli cittadini a rispettare le norme non violente, che obbligare i propri rappresentanti a rispettare i diritti del cittadino di essere trattato con metodi non violenti. Quando si comporta in questo modo, lo Stato viene meno al suo scopo primario ossia mettere fuorilegge la violenza. E allorquando, invocando la necessità dell'ordine e appoggiandosi a un'ideologia securitaria, lo Stato si proclama innocente dei propri atti violenti, dismettere gli abiti di Stato democratico per indossare quelli di Stato totalitario. DALLA PARTE DEL POTERE O DEI CITTADINI? Vale la pena puntualizzare un aspetto: la smilitarizzazione è certamente il fuoco della riforma della legge 121, però tale processo assume le fattezze di un tentativo piuttosto che di un progetto compiuto. La struttura gerarchica della poliziapermane sostanzialmente di stampo militare, e gli avanzamenti di carriera sono una sistematica mortificazione della professionalità. Inoltre, con la legge che abolisce la leva obbligatoria, è sancita la possibilità di entrare a far parte della polizia per chi ha prestato servizio di leva volontaria per almeno 12 mesi consecutivi. In pratica, dagli anni Duemila ad oggi, in polizia è stato assunto direttamente ed esclusivamente personale proveniente dalle forze armate, vanificando nella sostanza il principio della smilitarizzazione. Detto altrimenti, il percorso che doveva trasformare radicalmente il tradizionale modello di "polizia al servizio del sovrano" nella direzione di un modello di "polizia al servizio del cittadino", attento ai diritti e alla tutela propri di chi vive in democrazia, appare ancora accidentato.
LA PROTESTA TRA DIALOGO E COERCIZIONE
Le criticità summenzionate si esprimono chiaramente nelle questioni di ordine pubblico,
quando la polizia deve affrontare la tensione tra potere e diritto; ossia agire per superare resistenze e ostacoli rispettando i vincoli normativi collettivi. Del resto lo sappiamo, almeno dalla nascita della psicologia delle folle, la protesta è stata ed è una minaccia per l'ordine costituito. Oggi, per la polizia delle moderne società democratiche, affrontare la protesta richiede un difficile equilibrio tra la tutela dell'ordinamento giuridico e la difesa della libertà individuale dei cittadini. La qualità di tali strategie si riflette pertanto nella percezione che i cittadini hanno circa il rispetto o meno da parte dello Stato dei loro diritti. Sino ad oggi, le scienze sociali hanno riconosciuto due modelli di controllo della protesta e tre tipi di strategie. Queste ultime si diversificano a seconda del loro uso in determinati periodi storici: 1) impiego delle armi e forza fisica (strategie coercitive); 2) creazione di contatti con attivisti e gruppi di protesta (strategie di negoziazione); 3) adozione di misure preventive e di controllo sociale (strategie preventive).organizzatori precedenti alla protesta (strategie persuasive); 3) raccolta preventiva di informazioni, anche attraverso l'uso di moderne tecnologie audiovisive, per identificare chi viola la legge senza dover intervenire (strategie informative). All'interno di simili categorie, trovano spazio, secondo diverse gradazioni, ulteriori elementi: - l'utilizzo della forza, brutale o soft, da parte della polizia; - il ricorso a comportamenti considerati illegittimi, oscillando tra repressione e tolleranza; - il rispetto o meno della legge da parte delle forze dell'ordine; - le strategie di controllo dei cittadini, diffuse o selettive; - il momento dell'intervento della polizia, preventivo o reattivo; - il grado di comunicazione con i manifestanti, basato sul confronto oppure sul consenso; - la capacità di adattarsi a situazioni emergenti, rigido o flessibile; - il livello di formalizzazione delle regole del gioco, formale e informale; - la preparazione professionale oa) Il primo è: dà bassa priorità e tolleranza al diritto di manifestazione, c'è poca comunicazione tra polizia e manifestanti, si ricorre a un uso frequente di mezzi coercitivi e pure distrumenti illegali.
il controllo negoziato
b) Il secondo è: il diritto di manifestare pacificamente è considerato prioritario; c'è più tolleranza da parte della polizia; la comunicazione fra manifestanti e agenti è ritenuta essenziale per una buona riuscita della protesta; si evitano mezzi coercitivi, puntando alla selettività degli interventi.
STORIE LEGITTIME E ILLEGITTIME
Nelle società democratiche, il pubblico consenso verso istituzioni e organismi dello Stato passa inevitabilmente attraverso la comunicazione sociale. Come altre organizzazioni, anche la polizia dedica molti sforzi per
polizia e la realtà dei fatti. La costruzione di una buona reputazione richiede quindi un'attenta gestione delle narrazioni, al fine di mantenere l'immagine positiva dell'istituzione e instillare fiducia nella popolazione.polizia e come effettivamente si comporta. Da qui, sempre più frequente appello all'accountability, quale momento di chiamata dei funzionari di polizia a rendere conto dell'operato. ACCOUNTABILITY Il concetto di accountability si riferisce a dover rispondere a un'audience di una performance rispetto a determinati standard. Due sono gli aspetti costitutivi:- la necessità di spiegare un comportamento ad altri;
- la valutazione delle spiegazioni prodotte secondo precise norme e valori.