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INTRODUZIONE

La condivisione tra esseri umani sembra ridursi nel momento in cui è più necessaria. A rendere

difficile la condivisione, infatti, sembrano proprio la nostra infanzia simbolica e un uso spesso

inappropriato del linguaggio. Con le tecnologie, e con quelle della comunicazione in particolare, ci

riduciamo ad espropriarci dell’esperienza e a non comunicare, degradando verso l’indifferenza: la

vita non è mai qui ed ora, ma sempre differita e lontana in un luogo diverso dal punto in cui ci si

trova a respirare in un’esistenza vissuta sempre altrove. Per governare e non subire questi

processi, abbiamo bisogno di condivisione. Ma la consapevolezza non basta, anzi, spesso la

consapevolezza è l’inizio della messa da parte del problema. Gli eventi e le forme di violenza

distruttiva dell’uomo sull’uomo non ci consentono di sentirci mai né immuni né tranquilli. Tutto

questo sembra produrre un effetto di “vittimizzazione secondaria” che ci riguarda tutti e che non

solo aumenta il livello di ansia indefinita a livello collettivo, ma genera un’assuefazione e

un’anestetizzazione, un dissolvimento della compassione, che si affermano come ostacolo alla

condivisione. Condizione per assumere una posizione non passiva nel presente è cercare di

elaborare la nostra situazione, di ostaggio di noi stessi e delle nostre scelte più o meno

consapevoli. Siamo presi da un continuo gioco di autonomia/dipendenza. E’ necessario inoltre

considerare che nessuno può salvarsi da solo, soprattutto perché siamo essere relazionali e nella

relazione vi sono tutti i problemi e tutte le possibilità. A renderci più vulnerabili è l’estensione delle

connessioni e la nostra difficoltà ad attrezzarci mentalmente per contenerle e governarle, ma

anche l’esigenza di far fronte al “peso del mondo” che ci raggiunge da ogni lato. Siamo

naturalmente empatici, portatori di simulazione incarnata e di modulazione intenzionale con gli

altri. Quello che dobbiamo cercare di fare è affrontare le nostre resistenze e le nostre difese ad

accogliere il cambiamento, liberandoci dai retaggi del fissismo identitario, con tutte le sue

conseguenze. L’essere oggi somiglia sempre più a un divenire. Si diviene nelle relazioni con gli

altri e con percorsi e processi interni non sempre consapevoli.

1 – VITTIME SENZA COMPASSIONE

Un senso indefinito di paura pervade i nostri sentimenti quotidiani. E’ proprio l’indefinitezza una

delle cause principali del nostro disagio. Se si aggiunge a ciò la mediatizzazione della distruttività,

ne ricaviamo un effetto problematico che, nella psicologia individuale e collettiva, può essere

definito di “vittimizzazione secondaria”. Dovremmo allora considerare almeno 2 aspetti che

possono aiutarci. Da un lato possiamo fare un esame di realtà delle nostre responsabilità in quello

che sta accadendo. Dall’altro, sembra proprio tempo di riconoscere il valore del processo di

civilizzazione delle nostre città e dei nostri paesi. Dovremmo riferirci a quello che Heinz von Forster

ci ha insegnato essere il principio etico fondamentale: agisci in modo da aumentare il numero delle

possibilità per te e per gli altri. Fare di questo principio la base della nostra reazione e della nostra

azione.

Abbiamo anche e soprattutto un nemico interno: la nostra disposizione ad assuefarci e a scivolare

lentamente in uno stato di terrore. La chiamiamo “compassion fade” quella disposizione. La

compassione mostrata nei confronti degli eventi catastrofici e critici verso le vittime spesso

diminuisce all’aumentare del numero degli eventi e delle persone che necessitano di aiuti. Gli

stessi risultati emergono a proposito di eventi terroristici. Non solo tende a dissolversi la

compassione, ma crescendo la paura sembra che tenda ad aumentare l’individualismo egoistico e

a calare il comportamento pro-sociale. Si afferma la forza dell’abitudine e la neutralizzazione della

spinta a cambiare qualcosa nei nostri comportamenti. Mentre di fronte alla prima manifestazione di

un evento la sensibilità e la reazione tendono ad essere elevate, abbastanza presto la

rassicurazione che ci deriva da un adattamento alla consuetudine prende il sopravvento. Per

essere messa in discussione richiede alcune condizioni: un deciso investimento in eccedenza

rispetto al trend della dissolvenza della compassione, una leadership in grado e un’etica della

responsabilità civile che metta al centro la partecipazione attiva e il bene comune.

2 – NOI, FRAGILI, E PERCIO’ GENERATIVI, NONOSTANTE…

E’ la cultura a insegnarci a osservare e a ricordare, ad apprendere dai nostri errori, a cooperare e

condividere le nostre esperienze e a controllare ed elaborare noi stessi. Noi ci rompiamo come

tante cose in natura e come tutti gli esseri viventi, ma a differenza di loro diamo significato a quella

rottura, siamo in grado di concepirla. Essere fragili comporta, pertanto, vincoli ma anche

possibilità.

Noi adoperiamo una serie di risorse psicologiche e neurali sia per interagire praticamente con il

mondo, sia per comprendere quanto accade intorno a noi. Tutta l’esposizione relazionale con gli

altri e con il mondo, è allo stesso tempo condizione della nostra individuazione e fonte di fragilità e

rischio. Se non fossimo vulnerabili non saremmo raggiungibili dagli altri e dai segni del mondo.

Il primo e forse più impegnativo sentimento di fragilità ci viene dalla conoscenza. Oggi accade

sempre più spesso che una spiegazione di un fenomeno strano introduca elementi ancora più

strani e inquietanti del fenomeno stesso.

Come si presenta quella sofferenza della conoscenza che ci rende fragili? Noi conosciamo e

sappiamo immaginare e narrare la morte, diversamente dagli altri che, per quello che ne

sappiamo, muoiono. Noi conosciamo e narriamo l’amore, conosciamo il significato dell’opera

associata al lavoro. Lo spazio dell’immaginazione e del significato, quello stesso spazio che ci

distingue e rende umani, è alimentato direttamente dai vissuti di fragilità: quello spazio ci procura

l’autoelevazione semantica che ci fa umani, ma è lo stesso spazio che ci fa vivere la fragilità di

contenere i significati.

L’amore degli umani è bello perché è rischioso e mutevole. Il vuoto che si apre nei vissuti di

fragilità può portare a perdersi, può diventare “vuoto a perdere”, ma è allo stesso tempo generativo

di ricerca di possibilità. L’ambiguità del fragile assume le caratteristiche di porci di fronte alle più

significative esperienze della vita in una posizione in cui viviamo la più elevata felicità e l’angoscia

più alta.

3 – OSTAGGI. ANGOSCIA DEL NUOVO E AUTOINGANNI

Con la mente che ci genera creiamo le condizioni della nostra. Se non incorporata, relazionale e

contestualizzata culturalmente, una mente semplicemente non esiste. Di questa dipendenza dalla

relazione e dal contesto possiamo essere un frutto libero o rimanere ostaggio. Nel nostro percorso

di individuazione accadono, almeno in parte e sempre un po’, entrambe le cose. Ci differenziamo,

ci distinguiamo e dipendiamo, fin dall’origine. Accade che nell’essere noi animali relazionali con

mente relazionale, diveniamo almeno in parte ostaggio di un altro o di altri che sono al contempo

fonte del nostro stesso riconoscimenti e delle nostre possibilità. Così come possiamo annullarci

nell’emozione della massa e fonderci nel conformismo, ostaggi della fusione adesiva che ci

travolge e annulla.

Ha questo di proprio l’ostaggio, che è hostes e hospis: ospite e nemico. Almeno in parte ci

ritroviamo in ognuna delle posizioni, mentre ne occupiamo una prevalentemente, nelle catene di

provvisorietà che fanno la nostra esistenza. Non libero ma liberabile: in questo sta la condizione di

ostaggio, nello stato di attesa si riconoscono la sua attività, il suo essere e il suo divenire. Rivelare

vuol dire allo stesso tempo accedere alla conoscenza e alla consapevolezza di qualcosa e porre

un nuovo velo. Impossibile è una cosa senza l’altra. L’unico possibile, qui, è in quell’impossibile.

Per preservare il suo valore l’ostaggio va ospitato e deve restare evidentemente un nemico, anche

se chi lo detiene se ne prende cura senza poter mai stabilire se lo preserva per poterlo scambiare

o perché la sua condizione lo coinvolge. Ostaggi del nostro stesso mondo interno, ospitiamo una

parte di noi che ci è nemica. Siamo infatti spesso e a lungo ostaggio di una parte di noi stessi, del

nostro mondo interno, che protegge, minaccia, tacita, imprigiona le altre. Le riduce e induce a

tradirsi, a non essere ciò che potrebbero o avrebbero potuto essere.

Non sempre riusciamo a perseguire un sogno e spesso ciò accade per eccesso e non per difetto.

Troppo alto il sogno, al punto da apparirci irraggiungibile, non alla nostra portata, fino a

consegnarci ostaggi della nostra stessa autovalutazione. Non riusciamo ad accettare di poter

sbagliare e non troviamo la misura per metterci in gioco. Allora, piuttosto, rinunciamo. E’

l’ambiguità dell’amore a renderci almeno in parte ostaggio nelle relazioni affettive. Ostaggio sociale

e politico può essere un gruppo o un popolo che dallo stato di costrizione ricava un anelito di

libertà. Quei popoli scelgono senza fine se essere ostaggi della memoria e subire la tirannia del

passato o divenire capaci di vedere nei presunti difetti dell’altro i propri stessi difetti e i propri limiti,

generando così una possibilità di reciproca emancipazione. Si può uscire dalla condizione di

ostaggio mettendo in gioco risorse ed energie equivalenti alla posta, istituendo perciò uno

scambio.

Il principale rischio per noi siamo noi stessi. La teoria rivela e ri-vela. Ci aiuta ad emanciparci

mentre ci lega ad una spiegazione del mondo che presto tende a naturalizzarsi e a celare o

assolvere rispetto al bisogno di conoscere e al bisogno di negare. La teoria ci tiene in ostaggio.

Mentre ci garantisce la rassicurazione che può derivare da una spiegazione del mondo, ci vincola

rispetto a tutte le altre spiegazioni possibili dello stesso formato. La condizione di ostaggio ha

questo di costitutivo, forse: siamo ostaggi della morte per tutta la vita e senza la morte non ci

accorgiamo di essere vivi.

4 – LA BOMBA INTERNA. INDIFFERENZA, CRISI DI LEGAME E VULNERABILITA’

Siamo tornati ad avere paura dell’altro simile a noi. Le guerre e l’antagonismo oggi tendono a

divenire a-simmetrici. L’azione invisibile, inattesa e l’utilizzo delle tecnologie come “il corpo

esplosivo” sono divenuti i principali mezzi di distruzione. Il corpo del kam

Dettagli
Publisher
A.A. 2017-2018
13 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/06 Psicologia del lavoro e delle organizzazioni

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Scolari97 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bergamo o del prof Morelli Ugo.