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Nella tecnica classica il concetto di resistenza è coerente con la teoria etiopatogenetica che vede
il conflitto intrapsichico all’origine delle nevrosi: le difese strutturate dal paziente contro gli impulsi
si manifestano nel corso della cura opponendosi al cambiamento. Freud aveva introdotto il
concetto di resistenza in relazione al non voler ricordare, successivamente collegò la resistenza
alle manifestazioni di transfert e al ripetere come sostituto dei ricordi: a questo proposito, Freud
giustificava tali resistenze sottolineando la pericolosità del metodo psicoanalitico e, sollevando il
velo della rimozione, poteva far riemergere situazioni sintomatiche o aprire il varco a nuovi moti
pulsionali che fino a quel momento non erano stati avvertiti. Nel fondamentale saggio di Gill sul
transfert, l’autore riporta integralmente il concetto di resistenza al lavoro interpretativo sul transfert.
Nella misura in cui, nella sua concettualizzazione, il transfert risulta pervasivo nella relazione
analitica, anche le manifestazioni di resistenza alla terapia possono essere raggruppate in tre
grandi categorie: la resistenza alla presa di coscienza del transfert, la resistenza alla risoluzione
del transfert, infine la resistenza al coinvolgimento del transfert. Mentre quest’ultima corrisponde
ad un rifiuto totale di entrare nella relazione analitica la prima forma di resistenza corrisponde alle
strategie relazionali che il paziente mette in atto per non riconoscere i pensieri e le reazioni
emotive relative all’analista e al suo comportamento e la seconda corrisponde invece
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all’ostinazione con cui il paziente, una volta riconosciute le proprie reazioni transferali le attribuisce
esclusivamente all’interazione analitica, evitando di riconoscere il carattere illusorio e di
ricollegarle con le proprie strategie più antiche. Dal punto di vista tecnico per superare l’impasse
creata dalle resistenze, è necessaria la rielaborazione che dovrebbe consentire al paziente,
attraverso ripetute interpretazioni della stessa resistenza nell’arco di diverse sedute, di transitare
dall’insight al cambiamento. Il termine rielaborare fu introdotto da Freud nei suoi scritti sulla
tecnica accanto a ricordare e ripetere per descrivere appunto gli elementi fondanti della cura
psicoanalitica intesa come una battaglia contro la rimozione. Ma, nella misura in cui questo
concetto è strettamente connesso a quelli di transfert e di resistenza, ne ha seguito l’evoluzione e
viene ancora oggi utilizzato per descrivere come si produca un effettivo cambiamento nei
comportamenti e nelle reazioni affettive dei pazienti. La rielaborazione, frutto di cicliche esperienze
di ripetizioni di transfert e di interpretazioni delle stesse, giunge a modificare gradualmente ciò che
viene ripetuto. La discussione su questi problemi tecnici porta in primo piano una questione
centrale per la coerenza di qualsiasi modello di teoria della tecnica e cioè la questione dei fattori
terapeutici: che cosa opera un cambiamento del paziente che possiamo ritenere migliorativo del
suo stato precedente? Gli studi sulla tecnica psicoanalitica hanno gradualmente spostato
l’attenzione dall’insight come principale fattore di cambiamento all’esperienza di un’efficace
regolazione affettiva reciproca come fattore determinante per il consolidamento del senso di
identità e la riorganizzazione di un sé non adeguatamente sviluppato. Nel 1950 Balint affermava
che il nuovo orientamento della tecnica che egli definisce “orientamento alla relazione oggettuale”
consisteva nel prestare attenzione, accanto ai contenuti delle libere associazioni, agli elementi
formali del comportamento del paziente nella situazione analitica, intendendo per formali sia gli
aspetti rituali che quelli non verbali delle interazioni terapeutiche. Il concetto di regressione,
originariamente legato al modello freudiano dello sviluppo psicosessuale, viene ripreso dai clinici
di orientamento relazionale in connessione con una spiegazione etiopatogenetica di tipo
drammatico, per cui i fallimenti ambientali hanno dato origine ad un arresto evolutivo.
L’argomentazione di Winnicott a favore dell’ipotesi che sia necessaria una regressione ad una
concezione di dipendenza emotiva dal terapeuta è appunto basata sull’opportunità di utilizzare
una relazione sicura con l’analista in funzione di un nuovo sviluppo del sé. Per quanto riguarda la
funzione dell’analista nella relazione dunque viene sottolineata l’esigenza di quel contenimento
che Winnicott associava al modo in cui la madre tiene fisicamente in braccio il proprio neonato.
Alcuni autori americani ribadiscono che la neutralità analitica non deve spingersi a negare la
partecipazione relazionale del terapeuta alla situazione analitica, una partecipazione collaborativa
implica che il terapeuta sia in grado di registrare le proprie reazioni a ciò che accade nelle sedute,
ma anche di sentirsi libero di percepire il paziente al di là del proprio ruolo di analista. In questi
ultimi anni si è aperto un dibattito sull’opportunità di abbandonare la tradizionale neutralità fino al
punto di comunicare, in particolari circostanze, il proprio punto di vista tuttavia, a causa
dell’asimmetria della relazione, lo svelamento dell’analista rischia di essere considerato una sorta
di autorevole verità.
2.7. Gli obiettivi della cura: differenze tra psicoanalisi e psicoterapia psicodinamica
Tradizionalmente i psicoanalisti hanno sempre rifiutato di far coincidere l’obiettivo della cura con il
sollievo della sintomatologia, ritenendo che la complessità del funzionamento dinamico della
psiche richiede l’intervento più radicale per ottenere il ripristino di un ideale benessere psichico.
L’analisi è in primo luogo rivolto alla cura, in quanto cura psicologica non segue la logica medica
della remissione sintomatica. Pone al centro del procedimento terapeutico l’attivazione di processi
psicologici di tipo cognitivo e affettivo come strumenti di cura o meglio come obiettivi processuali.
La definizione teorica del benessere psicologico, e di conseguenza la metà del lavoro
psicoterapeutico, si porta dal piano dei contenuti (l’accessibilità alla coscienza di specifici ricordi o
percezioni) al piano delle funzioni (la flessibilità delle modalità di pensiero e delle relazioni affettive
in circostanze diverse). Ciò implica che l’obiettivo terapeutico non sia più definibile come un punto
di arrivo ma venga più correttamente descritto in termini processuali, considerando aspetti diversi
del processo: la capacità di monitorizzare i propri pensieri tenendo presenti almeno due punti di
vista, una riorganizzazione delle modalità di regolazione affettiva che consente di attenuare le
conseguenze soggettive di situazioni stressanti; l’attivazione di nuove risorse e di una maggiore
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flessibilità nelle strategie di relazione interpersonale; la mobilitazione di creatività e di progettualità
vitali. L’esigenza di estendere l’ambito di applicazione della tecnica psicoanalitica a forme più gravi
di patologie, accanto ad altre esigenze di natura sociale e istituzionale, hanno suggerito la
possibilità di adattare la tecnica a forme modificate di cura psicologica conservando tuttavia la
specifica impronta di un atteggiamento analitico. Nascono diverse denominazioni che non sempre
corrispondono a chiare differenze tecniche o strategiche: la psicoterapia esplorativa di Gill, la
psicoterapia psicoanalitica espressiva e la psicoterapia supportiva del progetto Menninger, etc. La
differenza sostanziale tra queste forme modificate e la psicoanalisi classica può essere
sintetizzata grossolanamente con un prevalere dell’interazione spontanea sull’interpretazione del
punto di vista della tecnica è come un prevalere del fine terapeutico su quello conoscitivo dal
punto di vista degli obiettivi
3) Ricerca Empirica E Psicoterapia Psicodinamica
Freud ha sempre sostenuto la tesi secondo la quale la psicoanalisi deve necessariamente aderire
alla “Weltanschauung scientifica”, delimitando quindi gli oggetti di studio, precisando la
metodologia dell’osservazione e della raccolta dei dati, rifiutando infine tutte le ipotesi che risultino
non sufficientemente controllate. D’altra parte, in polemica con una psicologia strettamente
sperimentale, Freud ha sempre sottolineato la peculiarità del laboratorio clinico come osservatorio
privilegiato per il suo campo di ricerca, assumendo un atteggiamento diffidente nei confronti delle
proposte di verifica empirica e rischiando così di chiudere le possibilità di dialogo e di confronto
scientifico con altri settori della ricerca psicologica e con altri orientamenti psicoterapeutici. Si deve
anche all’influenza di Sullivan sulla psicoanalisi americana se proprio negli Stati Uniti, intorno alla
metà del secolo, si sviluppa l’esigenza di sottoporre a verifica empirica la consistenza delle ipotesi
teoriche costruite nel laboratorio del “lettino analitico”, nonché la validità dei risultati ottenuti dalla
riapplicazione clinica di quelle ipotesi nella diagnosi e nel trattamento psicologico delle persone
mentalmente e affettivamente disturbate. Numerose sono state le critiche rivolte da epistemologi e
filosofi della scienza, come anche da studiosi di altri settori della psicologia, sia alla teorizzazione
che alla prassi psicoanalitica: la prima perché ritenuta dogmatica insufficientemente fondato sulle
osservazioni empiriche, la seconda perché autoreferenziale e priva di dimostrazioni adeguate
circa l’efficacia del metodo di cura. Molte sono state, nella tradizione psicoanalitica, le resistenze e
le difficoltà ad accettare che la falsità o la veridicità di un’ipotesi psicodinamica fosse valutata
attraverso metodi di indagine diversi dalla tradizionale introspezione clinica, condotta per mezzo
delle libere associazioni e dell’interpretazione del transfert, ancora maggiore è stata l’opposizione
alla registrazione delle sedute e alla valutazione delle interazioni cliniche da parte di osservatori
esterni, anche invocando comprensibili motivazioni deontologiche relative alla privacy dei pazienti.
È indubbio che risulta spesso estremamente difficile organizzare le ipotesi psicoanalitica in una
forma che consenta la formulazione di precisi quesiti da sottoporre a verifica empirica e che, per
quanto riguarda la valutazione della prassi analitica, i problemi posti dalla definizione degli
obiettivi, dalla valutazione dei risultati, dalle procedure diagnostiche e dalle divergenze della teoria
della tecnica sono ben lungi dall’aver trovato una formulazione univoca e verificabile. Oggi la
ricerca scientifica nell’area della psicologia dinamica può considerarsi di notevole sviluppo