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LE ASCENDENZE TEORICHE
La teoria interpersonale
Il principio generale che sosteneva il pensiero interpersonalista era molto semplice: “l’ambiente ha
un ruolo nel modellare l’esperienza umana”. Applicato al passato, continua Mitchell, questo
concetto si traduce in principio ecologico per cui ciò che è accaduto è importante, che le
dinamiche familiari e il carattere dei genitori hanno un forte impatto sulla formazione della
personalità e della psicopatologia. Applicato al presente, il concetto generale si traduce nel
principio di partecipazione: ciò che accade è importante, la partecipazione del terapeuta ha un
ruolo cruciale nel generare i ati che il erapeuta stesso si sforza di comprendere.
Tutto questo aveva portato la psicoanalisi interpersonale a concentrarsi sulla veridicità delle
comunicazioni del paziente. Il terapeuta così si trasforma in un osservatore esperto che controlla e
verifica i dati ottenuti. Ovviamente Sullivan è consapevole che il terapeuta non può osservare da
una posizione distaccata e invisibile, dunque non può evitare di influenzare e di essere influenzato
da ciò che sta osservando. L’indagine clinica provoca una reazione nel paziente. Scopo
dell’osservazione era di eliminare le illusioni, omissioni, distorsioni e mistificazioni fino ad ottenere
un’approssimazione sempre maggiore a “ciò che è veramente accaduto”. Per fare questo
l’analista doveva promuovere una relazione antagonista con il sistema del Sé del paziente in
modo da diventare un nemico esterno e dare la possibilità al paziente di vivere una minaccia che
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proveniva non dall’interno del sé ma dall’esterno, dal campo interpersonale formato dal paziente e
l’analista. Una volta ottenuto questo risultato, l’analista poteva iniziare l’analisi vera e propria, che
consisteva nel delicato processo di discriminazione tra residui deformati del passato e realtà
dell’interazione attuale.
Le relazioni oggettuali britanniche
La psicoanalisi britannica è un’altra corrente che ha fortemente influenzato gli analisti relazionali,
soprattutto perché ha fornito la possibilità di controbilanciare l’eccessiva attenzione rivolta alla sola
realtà delle interazioni con l’ambiente sociale, tipica dell’impostazione interpersonale. Gli autori
che più anno contribuito sono Fairbairn, Balint, Winnicott. Un discorso a parte merita il ruolo
giocato dell’opera di Melanie Klein.
Con la sua rivisitazione del sistema motivazionale, Fairbairn è forse l’autore che ha rappresentato
il vero ponte concettuale tra la tradizione interpersonale e quella freudiana. Per Fairbairn l’Io è
sempre legato agli oggetti. Il bambino fin dalla nascita ha bisogno degli altri, verso cui è orientato.
Il piacere non sarebbe dunque l’obiettivo finale dell’impulso, ma un mezzo per raggiungere il suo
vero fine: la relazione. Egli è stato uno dei primi analisti a esplorare le caratteristiche della
personalità schizoide, a guardare alle relazioni terapeutiche negative come segno del legame con
un oggetto interno cattivo, a parlare del ruolo terapeutico e dell’analista come persona.
Melanie Klein e i kleiniani, con la loro lettura intrapsichica della motivazione, delle fantasie e delle
spinte aggressive della prima infanzia, sono stati oggetto di critiche da parte degli emergenti
relazionali americani. Se da un lato Klein poneva l’accento sull’importanze delle prime fasi dello
svilupo, slegando il suo ragionamento da una riflessione sull’ambiente reale, dall’altro proponeva
un vocabolario concettuale (attacco invidioso, gratitudine, trionfo maniacale, riparazione
ecc.),stimolando così i relazionali a una rilettura di tali concetti nel contesto delle reali vicissitudini
evolutive. Per esempio, Mitchell scrive: “è possibile pensare che la spinta alla riparazione emerga
come reazione non tanto al danno immaginario, quanto alle sofferenze reali e alla patologia
caratteristica dell’altro. L’attacca invidioso si può intendere non come legato ad aggressività
innata, ma come un tentativo di sottrarsi alla posizione dolorosa di chi ama e desidera un genitore
per lo più assente o danneggiato o, in modo particolare, un genitore incoerente”. Tipicamente era
l’attenzione alle dinamiche transferali e controtransferali, fino a considerare la situazione analitica
una condizione di “transfert totale”. Il controtransfert veniva considerato sempre più spesso un
elemento indispensabile per la comprensione dei vissuti del paziente. Per gli autori relazionali si
trattava quasi di un “invito” a mettere in gioco la soggettività dell’analista nella situazione analitica.
Introdotti nel pensiero relazionale, concetti come comunicazione inconscia e identificazione e
contro-identificazione proiettiva consentivano di prendere in considerazione la faccia interna
dell’impatto interpersonale dell’analista.
Molto importante è stata la creazione di un atteggiamento clinico relazionale: non dogmatico,
capace di flessibilità tecnica e riconoscimento delle inevitabili speranze e aspettative dell’analista
Winnicott con il suo concetto di holding environment sottolinea la necessità di creare un ambiente
analitico capace di favorire l’emersione di aspetti autentici del sé del paziente. Ha certamente colui
il quale ha contribuito a ridisegnare l’ambiente clinico organizzato intorno ai temi del contenimento,
del riconoscimento reciproco e dell’autenticità.
Secondo Aron le metafore dell’analista come “madre sufficientemente buona” (Winnicott) o come
“contenitore” e “metabolizzatore” (Bion) dei contenuti patologici del paziente, sono state
stremamente utili per richiamare l’attenzione sui sottili scambi verbali e sui modi in cui l’analista ha
bisogno di rispondere a queste “comunicazioni primitive”. Tuttavia, il pericolo consiste
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nell’infantilizzare eccessivamente il paziente privandolo di un tipo di intimità più intima e
complessa, ma anche nel fatto che l’analista viene strumentalizzato e gli venga negata
un’esistenza soggettiva.
Ma è proprio l’enfasi sulla regressione della situazione analitica un’altra influenza della
psicoanalisi britannica sul pensiero relazionale. Per Winnicott e Balint il paziente era davvero un
bambino e come tale doveva essere avvicinato. Winnicott, infatti, sottolineava l’importanza della
creazione di uno spazio transizionale di gioco, capace di sostenere questa illusione senza
spostarsi troppo velocemente verso una chiarificazione di cosa fosse reale e fantasticato, solo
così poteva emergere il vero Sé. Questo approccio ad un paziente regredito era assai diverso
rispetto all’impostazione della correnti nordamericane classiche, ad un paziente adulto che doveva
discernere l’illusione dalla realtà, o che doveva abbandonare fantasie e desideri infantili per
adeguarsi alle esigenze dell’ambiente (psicologia dell’Io).
L’approccio evolutivo
Una visione del paziente non solo come adulto regredito e la necessità di considerare l’analista
come più di un “oggetto che soddisfa il bisogno” sono due elementi che hanno caratterizzato la
visione evolutiva del pensiero relazionale. Un’altra prospettiva che ha influenzato il pensiero
relazionale è stata quella dell’infant research. La risonanza ottenuta va ricondotta all’interesse
degli autori interpersonali-relazionali per l’immediatezza delle interazioni dirette e alla necessità di
trovare un contrappeso al modello britannico, troppo centrato sulla relazione-analista in termini
madre-bambino. In questo modo l’attenzione del clinico si rivolgeva al ciclo di rotture e riparazioni
nella relazione terapeutica e alle ritmicità relazionali. Ritmicità e sintonizzazione diventano termini
ricorrenti nel vocabolario relazionale: lo sguardo si sposta verso quegli aspetti delle capacità di
auto ed etero-regolazione che contraddistinguono lo stile della relazione terapeutica e ne
influenzano necessariamente le vicissitudini.
La prospettiva intersoggettiva
Il campo intersoggettivo che emerge da due “menti che si incontrano” è un altro degli elementi
privilegiati dell’approccio relazionale, dove il focus non è tanto l’oggetto in relazione al soggetto,
bensì il modo in cui i due soggetti si relazionano. I contributi del Middle Group e della psicologia
del Sé hanno contribuito a privare l’analista della sua soggettività, relegandolo a un ruolo di madre
non intrusiva, oggetto che soddisfa un bisogno. In altre parole, si correva il rischio di sostituire la
metafora della “schermo bianco” con quella del “contenitore vuoto”. La critica femminista partiva
proprio dalla denuncia di una scotomizzazione (operazione inconscia mediante la quale il soggetto
esclude e occulta dalla sua coscienza o dalla memoria un ricordo penoso e sgradevole) della
soggettività della figura materna.
Jessica Benjamin scriveva: “abbiamo appena cominciato a pensare alla madre come soggetto a
pieno diritto, soprattutto grazie al femminismo contemporaneo, che ci ha fatto capire quanto sia
dannoso per le donne sentirsi ridotte a un semplice prolungamento di un bambino di due mesi.
Nessuna teoria psicologica ha analizzato adeguatamente l’esistenza indipendente della madre. La
vera madre non è semplicemente l’oggetto delle richieste del suo bambino; di fatto è un altro
soggetto il cui centro indipendente deve restare al di fuori del bambino per potergli concedere il
riconoscimento che cerca. In questo senso, nonostante l’ovvia disparità tra genitore e bambino, il
riconoscimento deve essere reciproco e consentire l’affermazione di ciascun Sé. Il riconoscimento
reciproco è un obiettivo della crescita tanto importante quanto la separazione. Da qui la necessità
di una teoria fondata sul presupposto che fin dall’inizio ci sono sempre (almeno) due soggetti.
Nella letteratura relazionale possiamo identificare due visioni dell’intersoggettività:
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Clinica: in questo caso il termine viene utilizzato per comprendere il modo in cui l’analista fa
1. uso della propria soggettività per comunicarla al paziente;
Evolutiva : il termine compare negli scritti di alcuni autori relazionali attraverso il lavoro
2. dell’infant research. Per Stern l’intersoggettività consiste nel graduale riconoscimento della
soggettività madre/altro (M/other) come unità indipendente con i propri bisogni, e acquista
valore di un sistema motivazionale indipendente e autonomo. Beebe e Lachmann vedo