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IL PRIMO ‘500: IL RINASCIMENTO

Nel corso del ‘400 in Italia si va riscoprendo la cultura classica, a opera dei

cosiddetti umanisti. Il motore di questo processo sono soprattutto le corti

principesche dell’Italia centro-settentrionale: dalla Ferrara degli Este alla

Mantova dei Gonzaga, dalla Urbino dei Montefeltro alla Roma dei papi. Le corti

inventio

si circondano di artisti e intellettuali che inventano il teatro moderno:

come ritrovamento, riscoperta della classicità. È la corte a farsi centro

diffusore della nuova tipologia del teatro classico, prendendo occasione da una

ricorrenza festiva per esibire una manifestazione ludica all’interno della quale

lo spettacolo teatrale si inserisce: è il ‘teatro dentro la festa’ cioè il teatro

come segmento di un contesto festivo più ampio che prevede anche

banchetti, danze, musiche, giostre, tornei. La festa ha un committente, che è il

principe, e il teatro è la parte di un tutto in cui si applicano non dei

professionisti bensì dei dilettanti, che lo fanno per diletto, per il proprio piacere

e per quello del proprio principe. Quindi c’è lo spettacolo ma non ci sono le

professioni dello spettacolo, e i recitanti non sono attori ma generici cortigiani.

Il pubblico degli spettatori coincide con il pubblico degli invitati; se lo

spettacolo medievale riguarda ancora una comunità, il teatro rinascimentale

che si sviluppa nelle corti si rivolge ad un’élite, secondo un fenomeno nuovo

che può essere definito ‘privatizzazione del teatro’. Infatti il teatro nell’età

moderna serve a contrassegnare il potere delle nuove classi dirigenti, funziona

cioè come status symbol. Il teatro allestito nel palazzo del principe presenta

commedie e tragedie di stampo classico mentre, al di fuori del palazzo, nelle

piazze della città, il popolo continua ad assistere alle tradizionali Sacre

Rappresentazioni. Inoltre, mentre la scenografia medievale presentava tutti i

luoghi dove si svolgeva l’azione, quella rinascimentale unifica il luogo dello

spettacolo in un quadro solo, costituito da uno spicchio di città dipinto alle

spalle degli attori, sul fondo del lato più corto della sala del palazzo; si tratta di

una città astratta, con edifici generici (non peculiari di una singola città) ma

sempre sontuosi, simulati in marmo e realizzati in legno e stucco, poiché

hanno un valore ideologico: quella che si ammira a teatro è la città del

principe il quale, seduto in prima fila, guarda se stesso guardando la città

dipinta, e vi vede un riflesso dell’ordine e della stabilità della città reale che

egli regge politicamente. Viene adottata la scena prospettica con un unico

fuoco, cioè un punto centrale da cui si dipartono tutte le linee di fuga, così

come la città ha un unico centro di potere, quello del principe. Elementi

dominanti dello spettacolo teatrale sono quindi l’apparato, ossia la

scenografia, e gli intermezzi, che scandivano i vari atti della rappresentazione,

e avevano lo scopo di far rilassare gli spettatori, distraendoli dalle operazioni

dei servi di scena che riordinavano il palcoscenico, anche se poi finivano per

porsi come l’oggetto principale dello sguardo dello spettatore, per la loro forza

scenografica e spettacolare. Il teatro all’italiana si caratterizza soprattutto per

la visione frontale che separa nettamente spettatori e attori: c’è una

superiorità gerarchica e morale in chi guarda rispetto a chi è guardato. Gli

umanisti riscoprono il valore fondante del teatro, cemento della comunità, e

chiedono pertanto la creazione di teatri stabili, cittadini, in grado di accogliere

e ricomporre la comunità; ma i principi rifiutano l’idea di un teatro come

legame dell’intera comunità, connesso all’idea di edificio teatrale, preferendo

la consuetudine del luogo teatrale, cioè di uno spazio (cortili o sale del

palazzo) destinato solo occasionalmente all’esibizione spettacolare. I primi

due edifici teatrali sorgono infatti solo alla fine del ’500: nel 1585 il TEATRO

, progettato da Andrea Palladio, e nel 1588 il

OLIMPICO DI VICENZA TEATRO DI

costruito da Vincenzo Scamozzi. Il Rinascimento italiano fissò da

SABBIONETA

un lato l’idea monumentale di edificio, dall’altro la concezione della scena

pittorica illusiva, legata alla raffigurazione della città, e organizzata inglobando

dai lati lo spazio centrale.

4. LA DRAMMATURGIA DEL PRIMO ‘500

La scena italiana del ‘500 si pone al punto d’incontro da un lato, della

tradizione dei commediografi latini Plauto e Terenzio e, dall’altro, della

tradizione boccacciana, ricca di situazioni comiche, fondate sul piacere della

beffa ma anche su intrecci che stimolano la curiosità più piccante, per le

trame erotiche che sono al centro delle novelle. Ma all’interno dell’ambiente di

corte domina il gusto della varietà, del contrasto; accanto a rappresentazioni

di commedie latine e di commedie italiane, troviamo anche la diversa

spettacolarità mimico-gestuale di buffoni, giocolieri, mimi, danzatori,

performers che agiscono in gruppo o come solisti, inventando talvolta dei

personaggi, delle vere maschere teatrali. Uno di questi è il senese Niccolò

Campani, detto lo Strascino, autore-attore di cui sono rimasti tre testi teatrali;

è la figura più nota di una realtà senese fatta di piccoli intellettuali in cui c’è

un’ampia velleità di scrittura e sperimentazione linguistica; la novità principale

commedia alla villanesca,

consiste nella diffusione della commedia rusticana o

che ha come protagonista il villano, il contadino, presentato come grossolano,

bestiale, maligno. Il teatro senese del primo trentennio del ‘500 (dei Pre-Rozzi)

che ha in Campani il suo personaggio di punta, muove dalla cosiddetta “satira

antivillanesca”, una violenta polemica sociale, economica e letteraria, contro i

contadini, che affonda nel contrasto tra città-campagna. Fuori dalle corti

centro-settentrionali, il gusto del teatro si diffonde con un certo ritardo. A

Venezia, dove non c’è una corte ma un sistema oligarchico, il motore è

rappresentato dalle Compagnie della Calza, associazioni che organizzavano

eventi ludici e festivi; spesso sono gli stessi giovani patrizi che recitano da

dilettanti, ma accanto troviamo anche giocolieri, buffoni e professionisti del

teatro più impegnato culturalmente, come l’attore lucchese Francesco Nobili,

detto Cherea. Lentamente l’ambiente veneziano si apre all’intera gamma della

spettacolarità primo-cinquecentesca, alle pastorali ma anche alle commedie

alla villanesca. Si impone l’astro del padovano Angelo Beolco detto Ruzante,

un borghese agiato, dotato di una certa cultura, uomo di fiducia del ricco

latifondista Cornaro. I dialoghi Parlamento e Bilora sono i due capolavori

beolchiani. consiste quasi interamente nella “parlata” del villano

PARLAMENTO

Ruzante, reduce dal campo militare. È la tragedia del villan che va in guerra

per sfuggire al suo destino di fame e miseria ma ritorna più miserabile di

prima. Dietro la figura di Ruzante, viene delineata quella di Gnua, la sua

donna, che si è spostata in città e vive con un bravo; la tensione del

parlamento è costituita dal desiderio di Ruzante di riavere la donna, unico

punto di riferimento in una vita di sconfitte umane e sociali, e dal rifiuto della

donna di tornare a dividere la miseria con lui. L’arrivo del bravo, che bastona

Ruzante e se ne va con la donna, ribadisce il destino di sconfitta e frustrazione

del villano. Anche in il contadino Bilora arriva in città per riprendersi la

BILORA,

moglie Dina, che gli è stata portata via da una vecchio mercante veneziano,

messer Andronico. E anche Dina, rifiuta le richieste del villano di tornare a

vivere con lui di fame e di stenti. Ancora una volta la tensione teatrale si

accende nel contrasto tra i due uomini e anche se Bilora alla fine uccide a

pugnalate l’avversario, ciò non modifica il destino di eterno sconfitto che gli è

connaturato. Parlamento e Bilora, che presentano la nuova struttura teatrale

del dialogo, una sorta di atto unico, sono incentrati sulla figura del contadino e

sulla realtà ossessiva della fame; Beolco mette allo scoperto le contraddizioni

del quadro sociale e il rapporto di sfruttamento e alienazione che la campagna

ha nei confronti della città. La commedia invece ha come

MOSCHETTA

protagonista Ruzante, che non è un villano ma un cittadino di Padova, anche

se rigettato ai margini della vita associata, a livello di sottoproletariato che

vive di espedienti. Ritroviamo qui gli equivoci e i travestimenti di tante

commedie del ‘500 da parte di colui che crede di essere più furbo degli altri

mentre è il più sciocco. L’ultima fase della produzione beolchiana è

classicheggiante: la Piovana e la Vaccaria sono rifacimenti di due commedie di

Plauto (Rudens e Asinaria); in esse il villano perde la sua carica umana e

sociale e si trasforma nella figura del servo astuto. A Siena nel 1531 si ha la

costituzione di un’associazione di attori-autori dilettanti, la Congrega dei Rozzi,

che punta quasi esclusivamente sul personaggio del villano, che acquista

centralità scenica; il punto di partenza dei Rozzi, artigiani di professione, è

sempre la tradizionale satira antivillanesca, ma con esiti diversi rispetto ai Pre-

Rozzi: il villano, pur presentato inizialmente in chiave negativa, si fa portavoce

delle insofferenze dell’artigianato urbano verso la classe dirigente

responsabile, tra l’altro, dell’intervento spagnolo che avrebbe cancellato

l’indipendenza delle repubblica senese. Tra i Rozzi, ricordiamo Salvestro, detto

il Fumoso, di professione cartaio, autore di sei testi. Anche a Firenze, come a

Venezia, il teatro si diffonde tardi; nella città l’istituzione repubblicana si

alterna con la presenza dei Medici, ma fino all’ascesa di Cosimo I (1537),

manca un’organizzazione principesca dello Stato e con, essa, l’invenzione del

teatro, di una scena cortigiana. La spettacolarità fiorentina del primo

trentennio del secolo è legata all’associazionismo cittadino, in particolare

emerge la figura dell’araldo, ufficiale della Repubblica, messaggero e garante

delle cerimonie urbane, ma anche attore-autore di un teatro ancora informe,

fatto di cantari, frottole, esposizioni di novelle, prima che di testi

drammaturgici veri e propri. Esistevano poi le cosiddette compagnie di piacere

(di cui Vasari ricorda la compagnia del Paiuolo e quella della Cazz

Dettagli
Publisher
A.A. 2018-2019
46 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/05 Discipline dello spettacolo

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Pegasus.21 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia dello spettacolo e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Messina o del prof Mazzaglia Rossella.