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A M I C O A S P E RT I N I
Intro duz i on e
Nello scorso corso ho cercato di introdurre il mio pensiero circa la complessa natura dell’arte nel mondo d’oggi. Quello che mi premeva di
combattere era l’idea di un concetto di storia dell’arte già “data”, immobile nelle sue graduatorie e nelle sue periodizzazioni. Il rivolgimento portato dai
movimenti studenteschi entro i tradizionali metodi didattici mi ha dimostrato a usura che il progredire del tempo storico incide sulla nostra
condizione di professori.
Voglio perciò intrattenervi sulla funzione della lezione accademica, che continua a sembrarmi uno strumento valido. Perché essa non è affatto una
manifestazione repressiva che abitua alla acriticità, creando di conseguenza nuovi repressori, quando diventeranno professori. Lo è quando è intesa
dogmaticamente, sta perciò nella discrezione di chi la esercita quella di farne una proposta, senza la pretesa di farne un assoluto.
D’altra parte è ovvio che dal rapporto culturale è ineliminabile una qual forma di violenza, ma essa è maggiore nel rapporto scritto, anche nei testi che
voi ammirate tanto spesso acriticamente (e lo si desume dall’uso che fate di queste letture, spesso generatrici di slogan più che di convincimenti).
Qualora, per libero convincimento, voi accettiate, in tutto o in parte, quella trasmissione, allora si verifica quello che io chiamo “tramando”.
Riprendo ora il corso interrotto nel 1968 che intendeva essere un organismo, la presentazione ragionata e continua d’una storia accaduta in Emilia,
che si svolgerà in tre anni accademici. Questa storia fu sollecitata dai corsi tenuti dal mio maestro Roberto Longhi, che ci stimolarono a intendere
quei moventi artistici e umani che fanno della Padanìa una civiltà originale e autonoma rispetto alla tradizione tosco-romana e veneziana, queste
ultime profondamente imbevute di spiriti classici, di equilibrio profondato nella vita ma calibrato dalla ragione. Longhi ci fece intendere come anche
la nostra terra fosse stata sede di un alta civiltà, una “provincia” capace di elaborare valori universali.
La storia che intendo seguire non riguarda tutta l’arte bolognese-emiliana, ma segue solo uno dei due aspetti essenziali, quello naturalistico-
espressionistico. L’anno scorso abbiamo quindi illustrati Wiligelmo più che Antelami; parleremo quindi di Lodovico Carracci più che di Annibale o
Guido Reni; di Crespi più che di Creti; del Morandi “di materia” più che del Morandi classico.
Lasceremo in ombra quegli aspetti che si fondano sull’ordine razionale e sull’equilibrio classico che, propagatisi con i rinascimento, hanno finito con
dare a Bologna la fama di aulica città “dotta”, finendo col celare quegli aspetti irrazionali, naturali, popolari, che a mio avviso ne costituiscono il
carattere più schietto ed autonomo. Corpo, azione, sentimento, fantasia: nessuno di questi vocaboli fa appello a quantità razionali.
Contro tutte le interpretazioni di stilismo astrattivo o di ritorno neoclassico, per me la grande novità di Wiligelmo è il ritrovamento così radicale del
“corpo fisico”; egli fu nuovo rispetto al carattere essenzialmente metafisico-trascendentale dell’arte medievale.
L a vi cen da d el l’ar te a B olo g na ne l ‘400
A dare tono al ‘400 è quanto accade in Firenze. Caratteri costitutivi della nuova civiltà sono la chiarezza illuminata; la razionalità dello spazio,
dominato dalla prospettiva, invenzione assoluta anche rispetto all’antichità classica; una rinascita effettiva di movimenti che già attivi nel paganesimo
e che esprimono la virtus eroica di un uomo capace di autogoverno.
Ma fino al 1450 e oltre Bologna non conosce nulla di ciò. Le ragioni di questa refrattarietà non sono chiare, né io sono tanto da fare ipotesi di
condizionamenti storico-sociali diversi. Ma mentre a Firenze sta per prevalere Masaccio, a Bologna la figura più rilevante è Giovanni da Modena,
autore nel 1412 delle Storie dei Magi e il Giudizio Finale nella Cappella Bolognini in San Petronio, che si inseriscono ancora nella tradizione
Internazionale con la loro interpretazione favolosa della vicenda.
Tuttavia, come seppe notare Longhi, «di fronte alla squisitezza cortese, manifesta una possanza rusticana, quasi una controparte comunale, di popolo, di
corporazione». Talvolta la sua forza drammatica arriva quasi a sfiorare la ricerca di Masaccio, così nel Crocefisso, ma di fatto tende piuttosto verso
l’espressionismo che verso il dramma vero e profondo.
Giovanni da Modena può quindi facilmente convivere con un genio alto ma ambivalente come Jacopo della Quercia, una cui interpretazione in
senso totalmente rinascimentale non sarebbe del tutto esatta. La Creazione di Adamo (1425-34), formella di San Petronio, ha una forza plastica che
avvicina a Masaccio, ma segue ancora etichette ritmiche tardogotiche. In Jacopo dunque la preoccupazione d’eleganza tempera i nuovi fermenti, in
un equilibrio personalissimo ma non totalmente rivoluzionario.
Del resto Bologna difficilmente avrebbe accettato un genio rivoluzionario in senso razionale, arroccata com’era tra la sua cerchia medievale e le sue
torri, con le sue strade tortuose dominate da archi a sesto acuto e colonne tortili, con i suoi portici che sono emblemi dell’irregolarità, con edifici che
crescono l’uno accanto all’altro sfuggendo ad allineamenti razionali.
Ma il Rinascimento era una forza così irresistibile che neppure una città tanto refrattaria poteva respingerne del tutto i portati; essi sono però
posteriori alla metà del sec.
L’apertura è dovuta al centese Marco Zoppo, educato presso lo Squarcione e per lo più attivo in Veneto, che nel 1460 licenzia il Trittico del Collegio di
Spagna. Pur facendo parte di una nuova civiltà, lavorando per Bologna può affidarsi solo nella predella ad una narrazione immersa nel nuovo lume
d’atmosfera; per il resto, pur calibrando la prospettiva, è costretto dal gusto tardogotico dei committenti ad un fondo dorato e ad una carpenteria
internazionale e fiorita, né basta la luce pierfrancescana a bonificare interamente quel mondo.
È solo con l’arrivo di Francesco del Cossa che si inaugura a Bologna una stagione rinascimentale. Ma è sempre il rinascimento dei ferraresi, così
Cossa filtra la prospettiva attraverso una sostanza ancora rustica e immediata. Nel Marzo Schifanoia, il brano della potatura tiene in equilibrio il
rapporto diretto con la vita con istanze più intellettuali, al punto che il terreno, anziché liberamente irregolare, è un piccolo altipiano strutturato
prospetticamente dall’architettura sottostante.
Nella Pala dei Mercanti (1474) la struttura prospettica è ancora più solenne, ma allo stesso tempo nessun dettaglio materico sfugge nella descrizione
delle rughe di s. Petronio o della figura di s. Giovanni, ruvido come un bovaro emiliano, ma insieme solenne come un eroe.
La Maddalena di Niccolò dell’Arca è un ulteriore segno di come la Bologna bentivolesca abbia preferito un Rinascimento eccezionale e non
ortodosso; ma sempre di Rinascimento si tratta, perché Niccolò, pur phantasticus et barbarus, mantiene una plausibilità organica.
Questa fase artistica, opera di artisti giunti da altre terre, culmina in Ercole de’ Roberti. La Cappella Garganelli in San Pietro - una «mezza Roma de’
bontà» a detta di Michelangelo - è perduta.
Ma un gusto così cordiale com’era quello bolognese non poteva reggere a lungo una temperatura così potente e drammatica; ecco allora farsi strada
il ferrarese Lorenzo Costa e il bolognese Francesco Raibolini detto il Francia che cedono cadenze più facili, presentendo le euritmie di Raffaello.
Ve li presento in un momento di concordia spirituale, nell’Annunciazione della Cappella Vaselli in San Petronio di cui eseguono ognuno una metà:
nonostante l’adesione alla grammatica prospettica, le figure sono come isolate nella silente vastità ambientale, quasi pervadesse una tristezza sottile, le
ragioni della geometria non sono più così preponderanti.
Questo clima guadagnerà terreno con l’arrivo nel 1495 della pala di Perugino e con la morte nel 1496 di Ercole de’ Roberti; ad esso che reagisce
Amico Aspertini.
G l i in iz i de l l’Asp er tin i ( B olo g na 1 474-1552)
Gli inizi di un artista aiutano gli attribuzionisti e quanti ritengono che ricostruire il corpus dell’opera di un’artista sia il modo migliore d’intenderlo.
Ma in questo corso nessun artista sarà affrontato con compiutezza filologica e monografica, ma in quanto i singoli artisti hanno un certo significato
entro una civiltà. Vi mostrerò quindi Aspertini in opere sicure e tipiche.
Adorazione dei pastori (1496). Diverge dal clima di affabile e armoniosa cortesia ormai prevalente in Bologna, e non bastano, a spiegazione, alcune
inquietudini insinuatesi nell’opera del Costa a fine ‘400. In quell’anno Aspertini viaggia a Roma assieme al padre pittore, passando per l’Umbria e la
Toscana e facendo attenzione agli spiriti più inquieti. Quest’opera risente dell’umbro Pinturicchio e del fiorentino Filippino Lippi.
Pinturicchio, Pio II presenta Eleonora d’Aragona a Federico III. Quest’opera del 1507 evidenzia come il maestro umbro abbandoni le preoccupazioni
strutturali e prospettiche; lo spazio cresce col racconto, ricco di episodi e di attenzione ai dettagli. Le stesse intenzioni si ritrovano nell’Appartamento
Borgia, che Aspertini vide.
Filippino Lippi, Adorazione dei Magi, 1496. Una calca travolgente di figure flessuose e inquiete si staglia in primo piano e finanche il paesaggio è
arricchito e inquietato da mille episodi di figure, alberi e rocce.
Si capisce perché la scena di Aspertini è dominata da un ritmo verticale, fiorita di episodi. Tuttavia non c’è l’eleganza del gotico cortese, ma qualcosa
di aspro, mentre compare il tema, che gli sarà sempre caro, della rovina classica sbrecciata e muschiosa, dei bassorilievi animati in modo inquietante.
Ma in questi anni di apprendistato multivalente Aspertini sente anche l’attrazione di uno spirito opposto, quello di Perugino, che nel 1500 invia a
Bologna la Pala di San Giovanni in Monte, dove un quieto allineamento di figure si staglia su un paesaggio senza episodi e senza abitato (Vasari parla di
una «dolcezza nei colori unita; che la cominciò a usare nelle cose sue il Francia Bolognese et Pietro Perugino»). Si tratta del frutto di una deliberata selezione
operata per staccarsi dalla cultura di origine (la prospettiva di Piero e l’energetismo del Verrocchio) e approdare a questa nuova purezza.
La Vergine, il Bambino, san Sebastiano, 1493. Rappresenta un momento di con