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Nel rapporto tra genitori e figli si ha la prima forma del riconoscimento (amore); i
soggetti si riconoscono vicendevolmente come esseri che amano e che hanno
bisogni affettivi.
È in famiglia che ci si scopre soggetti relazionali. Qui si vive anche la tensione tra il
desiderio di autonomia e la necessità dell’intersoggettività. L’agire educativo dei
genitori deve quindi essere volto a dar vita all’autonomia del sentire, a rompere il
legame simbiotico. Chi ha cura deve favorire questo distacco garantendo la
certezza della dedizione e dell’amore. Grazie ai vissuti di amore e al consolidarsi del
legame emotivo il bambino sopravvive alla separazione e ottiene libertà.
I doni del riconoscimento familiare: il dono della madre che non è solo dono di vita
biologica ma anche di un atteggiamento di amore, affetto e sollecitudine
indispensabili allo sbocciare della vita. Il dono della figura paterna è dono di
certezza e punto di riferimento, del senso del limite e della giustizia; è anche dono
di appartenenza (cognome). Doni: linguaggio, l’azione (essere agente), il
racconto/la memoria di sé (essere narrante). Altro dono è la fiducia e reciprocità
che consente la separazione nella certezza che il legame non verrà spezzato.
Il riconoscimento a scuola
Riconoscere la singolarità di ciascuno + Riconoscimento-attestazione.
Intuire e promuovere le capacità degli studenti: Una scuola che sia “selettiva” in
positivo, luogo in cui s’individuano e selezionano le capacità peculiari di ciascuno
per far sì che si sentano titolari di uno spazio “riconosciuto” ed in possesso di
capabilities apprezzate nella società in cui si vive.
Scorretto chi prova a rimuovere tutte le fatiche perché promuove un senso di
incapacità.
Scuola pensata come spazio relazionale in cui gli adulti scelgono di agire la
responsabilità educativa nella forma della risposta creativa ai bisogni degli
educandi. L’insuccesso si traduce in una valutazione negativa dello studente, in un
non-riconoscimento delle sue capacità e genera svalutazione del sé. Importante
che le figure educative trovino percorsi didattici differenti per far si che l’educando
si riappropria dello spazio scuola (nel mancato riconoscimento percepito come un
luogo senza senso) e dell’autostima. [coltivare i propri interessi a scuola, la
“capriola” di Mattia)
Essere riconosciuti come insegnanti. Dai superiori, dai colleghi (dà luogo a rete di
protezione e a luogo di formazione sul servizio), dagli studenti (che sanno
riconoscere chi ama la propria professione).
Il riconoscimento in comunità
Per un intervento educativo con bambini che hanno vissuto situazioni di difficoltà
centrali sono l’accoglienza, il contenimento emotivo e il riconoscimento.
Stimolare in loro nuova fiducia verso sé e verso gli altri.
Parada e bimbi abbandonati dalla famiglia, rifiutati dalla società, perseguiti dallo
Stato. Hanno esperito solo della privazione dell’approvazione; è mancato l’incontro
originale decisivo. Ecco perché si affidano all’unico mondo che conoscono: la strada
con il gruppo dei pari. + Storia di Miloud, in particolare nelle esperienze di
Costantin e Daniel (filosofia delle 5 palline) e nel doppio riconoscimento di Miloud:
non solo il valore dell’altro ma anche la propria responsabilità nei confronti della
sua fragilità.
La pedagogia degli Oppressi, P. Freire
Capitolo Primo: la dialettica oppresso-oppressore.
1. Giustificazione della pedagogia dell’oppresso
Umanizzazione e disumanizzazione sono possibilità degli uomini ma solo
l’umanizzazione ci sembra vocazione dell’uomo. Vocazione negata, nell’ingiustizia e
nell’oppressione, ma affermata, nell’aspirazione alla libertà e alla lotta degli
oppressi.
Le origini della contrapposizione oppressi/oppressori è in un atto di violenza degli
oppressori che si tramanda di generazione in generazione.
Sono gli oppressori a generare violenza anche se ne riversano le cause negli
oppressori. La ribellione degli oppressori è invece atto d’amore perché la loro
violenza non è per la sopraffazione ma per la liberazione loro e degli oppressori
stessi. Il grande compito umano e storico degli oppressi è liberare sé stessi e i
propri oppressori.
Per liberarsi hanno bisogno di acquisire la coscienza critica dell’oppressione.
(inserzione critica) (prassi)
Riflessione e azione devono legarsi perché si possa
giungere alla liberazione.
2. La contraddizione oppressi/oppressori e il suo superamento
La scoperta della condizione oppresso/oppressore negli oppressi può portare a esiti
diversi rispetto alla lotta per la libertà:
- Gli oppressi non cercano la liberazione ma, possedendo l’ideologia dominante
e conoscendo solo il modello dell’oppressore come possibilità di essere uomini
dell’aderenza all’oppressore),
(fenomeno tenderanno ad essere oppressori o a
cercare di divenir tali. Non si aspira al superamento della contraddizione ma
alla sua inversione.
- Paura della libertà perché non si sentono capaci di correre il rischio di
assumerla, o paura di maggiori repressioni.
Questo significa che riconoscersi oppressi non vuol dire ancora liberazione. Si
supera la contraddizione in cui ci si trova solo quando il riconoscersi oppressi
impegna nella lotta per liberarsi.
Lo stesso nell’oppressore: scoprirsi oppresso e soffrirne non vuol dire diventare
solidali con l’oppresso. Può portare a due forme false di generosità:
- Quella di chi dona mantenendo gli oppressi nel loro stato, non muovendosi
verso il cambiamento
- Quella di chi pur volendo la liberazione degli oppressi, si porta dietro
pregiudizi dall’ideologia dominante e pretende di sostituirsi agli oppressi per
liberarli (perché non crede nel popolo), impossibilitando la liberazione.
per con
Solo l’atteggiamento di chi lotta non loro ma loro, di chi sa riconoscere le
capacità riflessive del popolo e da queste parte è veramente co-partecipe del
processo di liberazione degli oppressi.
3. La situazione concreta di oppressione e gli oppressori
La coscienza degli oppressori è possessiva, tendono a trasformare ogni cosa in
oggetti del loro dominio. Ne deriva una concezione materialista dell’esistenza:
essere è avere e il denaro è misura di tutte le cose. Loro stessi affogando nel
possesso e nella ricerca d’avere finiscono per non essere più.
Avere di più, con esclusività, è per loro un diritto conquistatosi; al contrario degli
invidiosi, incapaci e pigri visti come nemici potenziali e oggetto di controllo.
Tendenza che si identifica con quella sadica.
Quando la liberazione è in corso gli oppressori non si riconoscono in via di
liberazione, qualunque restrizione ai loro privilegi in nome dei diritti di tutti sembra
una violenza al loro diritto di persone (spiegabile sulla base dell’ideologia di
oppressori che portano in loro).
Possono essere: sfruttatori, spettatori passivi, eredi dello sfruttamento.
4. La situazione concreta di oppressione e gli oppressi
Vivono l’ideologia degli oppressori nel: fatalismo relativo alla loro condizione,
nell’aggressione, nell’attrazione irresistibile verso l’oppressore,
nell’autosvalutazione, nella dipendenza emotiva dall’oppressore. Finché non
prendono autocoscienza non possono liberarsi.
5. Liberazione nella comunione
La pedagogia dell’oppresso è uno degli strumenti di questa scoperta critica: gli
oppressi che scoprono sé stessi e riconoscono gli oppressori come tali. Essa è
umanistica e liberatrice. Diviene pedagogia dell’uomo col superamento della
distinzione oppresso/oppressore.
L’oppressore che diventa realmente solidale può aiutare questa presa di coscienza
attraverso il dialogo critico e liberatore. Avere fede nell’uomo oppresso e nella sua
capacità critica. La convinzione degli oppressi di dover lottare deve essere il
risultato della loro coscientizzazione non di slogan. Gli oppressi devono lottare
come persone e non come “cose”.
La pratica deve quindi avvenire attraverso una pedagogia umanizzante in cui il
metodo è la stessa coscienza e non attraverso slogan. Vi deve essere una co-
intenzionalità e una co-partecipazione, un impegno, non una pseudo-
partecipazione.
Capitolo Secondo: l’educazione problematizzante.
1. La concezione “depositaria” dell’educazione
- Rapporti educatore/educando nozionistici e narrativi; Non c’è comunicazione;
l’educando è semplice vaso da riempire.
- Non c’è atto conoscitivo, ma solo memorizzare ciò che l’insegnante narra. Non
esiste trasformazione, creatività, non vi è scoperta del sapere.
- Si basa sull’assolutizzazione dell’ignoranza (che è solo dell’educando) e sulla
rigidità delle posizioni. Mantiene e stimola la contrapposizione in modo
funzionale agli oppressori.
- Non favorisce la riflessione critica e la coscientizzazione ma l’adesione passiva
al mondo, l’immobilismo, la negazione della vocazione all’essere “di più”.
Impedisce di essere anche all’educatore (non si può essere con autenticità
mentre si impedisce che gli altri siano).
- Propone una concezione che separa uomo e mondo, che concepisce il mondo
come statico e gli uomini non come esseri storici ma astratti.
2. La concezione “problematizzante” dell’educazione e la liberazione
- è atto di conoscenza che supera la condizione educatore/educando; è basata
sul dialogo e sull’educazione in comunione, attraverso la mediazione del
mondo dove gli educandi sono ricercatori critici
- Parte dalla storicità degli uomini, dal loro essere in divenire e dalla
consapevolezza dell’incompletezza; recupera il legame uomo-mondo e la
visione del mondo come in mutamento, come sfida e processo per muovere
alla vocazione all’essere di più, al rivoluzionare il futuro.
- ciò che prima era percepito oggettivamente ora è sfida, base per l’azione e la
trasformazione creatrice: pratica la libertà ed è a favore d’essa
Capitolo Terzo: il metodo.
1. Dialogicità e dialogo
Quando si penetra nel dialogo si scopre ch’esso è parola. Suoi elementi costitutivi:
riflessione e azione. Non esiste parola che non sia prassi. Se manca uno degli
elementi: attivismo o verbosità. L’esistenza non può essere muta, ma non può
nemmeno riempirsi di queste due forme