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Si realizza un cambiamento profondo della concezione di insegnamento che si avvicina
molto all’idea socratica della maieutica: non inculcare nozioni, ma “risvegliare” attitudini e
condotte naturalmente insite nel bambino.
La proposta metodologica quindi è chiara: si deve andare nella direzione di un sistema
musicale in cui l’educatore non impone un determinato sistema musicale ma lo aiuta e lo
sostiene nella sua crescita musicale, offrendogli occasioni per risvegliare le sue attitudini,
capacità e desideri di comunicare in forma sonora.
PRIMO DIALOGO - Quale musica, quale pedagogia?
Nel primo dialogo Delalande difende una concezione di “Risveglio alla musica”. La finalità è
formare i bambini a tutto ciò che possa precedere le acquisizioni tecniche, a sensibilizzare i
bambini alla musica, a praticare una pedagogia di risveglio. Si dovrebbe indirizzare i
bambini verso musiche diverse, verso altri linguaggi, altre tecniche e vari strumenti. Bisogna
aiutare il bambino a sviluppare le proprie attitudini, dargli una condotta e il senso
dell’ascolto di sé. Ma l’attenzione resta sempre e comunque una questione di motivazione.
Non bisognerebbe far ascoltare loro Mozart perché non ne capirebbero molto, ma pezzi
recenti che non si fondano su un sistema elaborato dalla tradizione e che sono più vicini
all’esperienza musicale dei bambini.
Contemporaneamente bisogna lasciar inventare ai bambini la loro musica con i loro
strumenti, i loro corpi sonori.
La ricerca del suono e del gesto non è altro che un gioco senso-motorio che domina fino ai
due anni. Oltre i due anni si sviluppa il gioco simbolico e infine, quando i bambini sono un
po’ più socializzati (scuola elementare), il gioco prende l’aspetto di un gioco di regole.
SECONDO DIALOGO - La musica è un gioco da bambini
Delalande basa la propria pedagogia musicale sull’intreccio teorico tra musica e gioco e,
per dar maggiore vigore alla sua teoria, può contare sul rinforzo lessicale che traduce il
verbo “JOUER” con giocare ma anche suonare. Tale significato però viene purtroppo perso
sul testo italiano dove il “JOUER” francese verrà tradotto solo con giocare.
Si tratta del gioco senso-motorio attraverso il quale il bambino acquisisce gli automatismi
motori, ovvero, attraverso le mani e i gesti, prende coscienza del mondo che lo circonda.
La ricerca pedagogica si basa di solito sui mezzi, nel senso che in matematica o in
grammatica si sa molto bene dove si vuole condurre i bambini, si deve solo cercare il modo 2
giusto per farlo. In musica è il gioco la nozione cardine, è un mezzo ma anche il fine, è una
strategia accattivante per interessare i bambini e farli entrare nel gioco musicale.
Secondo Piaget, il gioco d’esercizio domina il primo periodo di vita fino ai due anni del
bambino che, attraverso esso, arricchisce il proprio bagaglio di schemi sensoriali. All’inizio
non sa fare altro che succhiare, poi impara ad afferrare e scuotere: è il movimento in cui è
attirato dai sonagli. Lo stesso vale quando, più tardi, giocherà con la palla contro il muro o
quelli in cui si fa lavorare il corpo per il piacere di farlo. Questo accade perché il bambino
non ha altre finalità nel gioco se non quella di divertirsi. Dunque la soluzione potrebbe
essere quella di avvicinare il bambino alla musica con il solo intento di farlo divertire.
Siccome tutta l’attività umana è impregnata di simbolismi, il gioco simbolico è una condotta
ben conosciuta dai genitori. E’ il gioco del “far finta” che mima il reale e lo aggiusta a modo
proprio. Anche la musica mima il reale. Essa evoca un movimento, una situazione vissuta
oppure dei sentimenti che si provano in determinate situazioni.
Il musicista imita la vita come la bambina fa finta di essere la mamma. Tutte le condotte
musicali hanno in genere uno scopo simbolico, non fine a se stesso ma con l’intenzione dei
musicisti di rinviare a qualcosa di altro dal suono e questo “altro” è fatto di immagini,
emozioni o storie fantastiche.
TERZO DIALOGO - Un’arte del gesto
Associare il gesto alla musica significa enfatizzare l’espressione corporea. Lo si comprende
bene se si pensa alla produzione del suono: cioè quando si suona uno strumento, è il gesto
che crea e controlla il suono. Spesso, in concerto, l’esecutore accentua il suo gesto come se
volesse trasmettere al suono tutto il movimento del corpo per rinforzare l’emissione, per
aiutare il gesto che tecnicamente lo produce, ma al tempo stesso si tratta di una forma di
esplicitazione per il pubblico. La musica si legge nelle espressioni gestuali del pianista o
sulle mani del direttore d’orchestra quasi altrettanto chiaramente di quanto la si sente
attraverso l’orecchio.
C’è una forma di relazione tra suono e gesto che balza agli occhi, questa è la danza. A
seconda della velocità del movimento, si può associare al gesto che lo segue una forma, di
sentimento. Non si può parlare del gesto senza pensare immediatamente alla musica che
invita al movimento. È quello che Faisse chiama “Effetti dimogenesi” della musica: se si fa
ascoltare ad un soggetto una ripetizione di impulsi sonori regolari, egli tende a battere il
tempo.
A volte l’unico contatto con la musica che propone la scuola è quello di far danzare i bambini
perché la musica li spinge spontaneamente al movimento.
QUARTO DIALOGO - Il ritmo: un doppio malinteso
Il suono si attiva attraverso due aspetti:
- La ripetizione
- La variazione
Questo è il ritmo, tutto ciò che si ripete con andamento costante.
Il ritmo viene considerato da molti pedagogisti come il punto di partenza dell’educazione
musicale.
Il ritmo rappresenta il movimento del camminare, il battito del cuore, l’immagine classica
della vita. Ma esso non è una verità universale: infatti è sufficiente viaggiare un po’ per
constatare che ciò che va sotto la parola ritmo è diverso da una cultura all’altra. Si può dire
quindi che il ritmo è l’arte di ripartire le durate e gli accenti, sia in modo regolare che
irregolare, per formare delle figurazioni, ed esso cambia da cultura a cultura in base agli
strumenti che lo producono, ma anche e soprattutto in base al bagaglio culturale dei popoli.
Ad esempio, tipico del ritmo africano, è l’uso di strumenti il cui suono riproduce il rumore
della foresta e dei suoi abitanti. 3
Il ritmo è stato studiato in psicologia sperimentale e viene preso dal suo senso classico
occidentale, cioè come ripetizione periodica e contemporaneamente come struttura di
durata. Ma poiché il ritmo non è così universale come si crede, i metodi che puntano su
una base ritmica della musica corrono il rischio di smarrirsi un po’ e quindi è bene
preparare i bambini a una musica basata su una ritmica particolare per l’induzione alla
danza.
All’età di circa un anno, la musica stimola il dondolamento ma non c’è ancora la sincronia
senso-motoria tra il ritmo della musica e quello del dondolarsi. Verso i 4 anni il bambino
si dondola al ritmo della musica.
Ecco spiegati i due malintesi riguardo al ritmo:
- L’errore sul credere che sia una caratteristica universale della musica;
- Invocare il fondamento corporeo del ritmo.
QUINTO DIALOGO - Parole per descrivere i suoni
Una delle difficoltà che l’insegnante incontra quando propone un’attività ricreativa è la
mancanza di strumenti per capire musicalmente le produzioni infantili. All’insegnante
mancano le parole per ascoltare, ed è per lei impossibile mettere da parte la propria
concezione di melodia per poter ascoltare i “rumori” prodotti dai bambini.
È in grado solo di analizzare i quattro parametri classici: altezza, durata, intensità , timbro.
Ma insegnare la musica in termini di parametri vuol dire farne una costruzione formale
eliminando ciò che ha di più prezioso: la corrispondenza tra il gesto e la vita affettiva.
La percezione del suono è largamente dipendente dal vocabolario ed occorrono delle
parole per ascoltare. Nonostante questo il bambino privilegia certi aspetti del suono
anche quando non dispone ancora di nessuna parola per nominarle. Si possono aiutare i
bambini a rinforzare con le parole le loro trovate sonore, il vocabolario aiuterà a fissare
una percezione fuggevole. La parola permetterà una presa di coscienza delle qualità
musicali del suono e questo è proprio uno degli obiettivi pedagogici.
SESTO DIALOGO – Quali strumenti?
Il sonaglio è il primo strumento musicale del bambino che intorno ai quattro/cinque mesi
impara a tintinnare e insieme ad una serie di bilancieri che si urtano producendo un
suono, è tutto il catalogo di giochi educativi che si hanno a disposizione per il risveglio
sonoro.
Intorno al secondo anno di vita l’attrazione per le fonti sonore è assai viva, il bambino è
affascinato dal suono in sé, e quando la mastra gli chiede di andare alla scoperta di
oggetti che producono un suono interessante, risveglia un ascolto dei suoni quotidiani
che non è abitualmente sollecitato.
Dunque, alla scuola materna, la ricerca delle fonti sonore è uno dei percorsi fondamentali
e la scelta degli strumenti dipende dall’uso che si fa. I bambini molto piccoli suonano
sempre da soli (il gioco collettivo è un’attività sociale che non si manifesta prima dei
quattro/cinque anni) e necessitano di strumenti che consentono loro di produrre musica
abbastanza varia. L’errore più grande che fa un educatore è dare ai bambini più piccoli gli
strumenti più semplici e ai bambini grandi gli strumenti più complessi. In realtà
bisognerebbe fare il contrario. Una giusta linea pedagogica è quella di risvegliare le
condotte di ascolto, partendo da oggetti trovati. Inoltre, i bambini non danno agli oggetti
lo stesso valore che danno gli adulti: uno strumento musicale di alto valore commerciale
non avrà per loro nessun significato (non sarà diverso dalla palla) e quasi sempre verrà
subito rotto. Non c’è da sorprendersi, per i bambini l’oggetto ha valore solo se viene
associato al vissuto che esso rappresenta e di cui diviene simbolo. 4
SETTIMO DIALOGO – Educare all’ascolto
Fino a non molto tempo fa l’insegnamento della musica nella scuola secondaria
consisteva nel far ascoltare dei dischi. L’obiettivo principale era di formare dei melomani
capaci di ascoltare con piacere i capolavori del repertorio classico. Questa prassi
educativa però si è evoluta e si c