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FER RARA
Palazzo Schifanoia, affreschi 1469-70.
Erano raffigurati in origine 12 mesi; ne sono stati recuperati 7. Ognuno consiste in 3 fasce parallele; ciascuna ha uno spazio figurativo autonomo e
rappresenta figure grandi la metà del naturale. Artisti con capacità diverse hanno collaborato al ciclo; una lettera del 25.mar.1470 attesta che Cossa
era stato l'ideatore dei primi tre mesi (marzo, aprile, maggio).
In alto: dèi dell’Olimpo reggenti del mese su carri trionfali. In basso: l’attività mondana alla corte di Borso d’Este. Al centro: divinità astrali, cioè il
segno zodiacale attorniato da 3 enigmatiche figure che Warburg per primo seppe ricondurre ai decani (simboli di stelle fisse che, nella migrazione
dalla Grecia all’Asia minore, l’Egitto e la Mesopotamia, l’Arabia e la Spagna, hanno finito per perdere la fisionomia greca).
Warburg analizza 3 mesi: marzo, retto da Pallade e dall’Ariete; aprile, governato da Venere a dal Toro; luglio, in cui una personalità artistica meno
pronunciata fa trasparire meglio il dotto programma iconografico.
Elaborazione della tradizione astrologica.
Arato. Poeta greco, nel 300 a.C. elabora una rappresentazione del cielo delle stelle fisse che sfrutta le creature dell’immaginario religioso; ma questo
brulichio di esseri non offriva all’astrologia ellenistica una scorta sufficiente di geroglifici divinatori.
Spaera barbarica. Creata in Asia minore da Teucro, offre una descrizione del cielo tre volte più grande di Arato grazie all'arricchimento con nomi
astrali egiziani, babilonesi e dell’Asia minore. Fra i nuovi abitanti della volta celeste, vi sono i decani, divinità di origine egizia che presiedono un terzo
del mese, cioé 10° dello zodiaco. F. Boll l’ha ricostruita in Sphaera (1903, incontro fondamentale per Warburg) e ha tracciato le tappe della sua
migrazione verso Oriente, e da Oriente di nuovo in Europa.
La Sphaera Barbarica è a base dell'astrologia medievale: penetra ancora l’Astrolabium magnum (1293) di Pietro d’Abano, filosofo e astrologo
padovano, ispiratore del ciclo di Palazzo della Ragione PD di Giotto.
In appendice al suo testo, Boll aveva inserito un testo che offrì la rivelazione illuminante per W.: la Grande Introduzione del persiano Abu Ma’sar
[787-886, autorità suprema dell’astrologia medievale] il testo che diffuse la Sphera in Occidente (quello che quindi lesse d’Abano): esso fornisce la
sinossi di tre diversi sistemi di stelle fisse, quello arabo corrente, quello teolemaico e quello indiano.
Grazie alle descrizioni dei decani raccolte da Abu Ma’sar e trasferite all’Occidente, W. poté riconoscere i decani di Palazzo Schifanoia.
Migrazioni della Sphaera fino a Pietro d’Abano. Nasce in Asia Minore > giunge in India > transita in Persia > è rielaborata nella Grande Introduzione
di Abu Ma’sar > questa è tradotta in ebraico in Spagna da Ibn Ezra (XII sec) > la versione di Ezra è tradotta in francese da Hagins (1273) > la versione
francese fu la base dell’edizione latina di Pietro d’Abano (1293).
Un primo sguardo ai decani indiani fa pensare a frutti genuini dell’immaginazione orientale; ma analizzando più a fondo si vede come accessori
indiani siano proliferati fino da rivestire simboli astrali di origine schiettamente greca.
Lo si vede bene a proposito di una pagina dell’Astrolabium magnum di Pietro d’Abano. L’uomo con falce e balestra, primo decano dell’Ariete, non è che
un rivestimento del Perseo antico con il berretto frigio e la spada ricurva, il quale si può vedere in un manoscritto di Leida (2).
I decani indiani sembrerebbero quindi un frutto genuino dell’immaginazione orientale; ad un’osservazione più attenta si vede tuttavia come
accessori indiani siano proliferati a tal punto da rivestire simboli astrali di origine schiettamente greca.
W. identificò il I decano dell'Ariete di Schifanoia con il vir niger della sfera indiana descritto da Albumasar. L’indiano Varaha Mihira (VI sec) - fonte
che Abu Ma’sar sfrutta senza citare - menziona come primo decano dell’Ariete un uomo nero vestito con un panno bianco cinto ai fianchi, d’aspetto
terribile, che reca una scure bipenne, dipendente da Marte. Abu Ma’sar scrive: “gli indiani affermano che in questo decano si leva un uomo nero dagli occhi
rossi, alto, coraggioso, con ampia veste bianca cinta da una corda; è adirato, custodisce, osserva”.
Leggendo Boll, Warburg è riuscito a ricordare le figure del Palazzo Schifanoia viste quattro anni prima e a trovare l’intuizione che gli permise di
interpretare l’intero sistema astrale delle fasce mediane di Schifanoia.
Il cielo greco (Arato) delle stelle fisse costituisce lo strato inferiore, sul quale si era depositato il sistema dei decani egizi. Quest’ultimo era stato a sua
volta coperto dallo stato della trasformazione mitologica indiana la quale, probabilmente attraverso la mediazione persiana, era transitata nella
cultura araba. Solo dopo che la versione ebraica aveva sovrapposto un ulteriore residuo, e grazie alla intermediazione francese da cui era scaturita la
traduzione latina di Abu Ma’sar di Pietro d’Abano, il cielo greco delle stelle fisse si era riversato nella monumentale cosmologia del primo
Rinascimento italiano. Per svelare l'iconografia astrologica occorre quindi considerare che il cielo greco delle stelle fisse costituisce lo strato inferiore;
su questo si era depositato il sistema dei decani egizi; questo era stato poi coperto dallo strato della mitologia indiana. Questa versione è raccolta dalla
cultura araba (Albumasar) che la trasferisce in Europa (Ibn Ezra, Hagins). Con la traduzione latina di Pietro d'Abano il cielo greco delle stelle fisse si
era riversato nella cosmologia del primo Rinascimento italiano.
Fascia superiore
Warburg per primo ha compreso che il poema didascalico Astronomica di Manilio (I sec a.C.) - che dal 1416 è uno è dei classici riscoperti dagli
umanisti - è la fonte per questo zodiaco olimpico. In un passo M. presenta le divinità che tutelano i mesi: i 7 di Schifanoia corrispondono
letteralmente a questa serie che non è attestata da nessun altro autore (in particolare incuriosisce la coppia Giove-Cibele che, con un’alleanza
caratteristica che non ha altri riscontri, protegge il Leone e luglio).
Marzo. Pallade con la Gorgone sul petto e la lancia in mano è trainata da liocorni sul carro trionfale. A sx i suoi discepoli: medici, giuristi, poeti (forse
recano ritratti di personalità dello Studio padovano). A dx delle donne praticano il cucito: per i nati sotto l’Ariete è predetta la vocazione al
maneggio della lana; è la stessa attitudine mentale e professionale che Manilio celebra per i nati sotto l’Ariete.
Aprile. Retto dal Toro e da Venere. La dea è su una barca trainata da cigni (iconografia mutuata dai Trionfi di Petrarca); non reca una reale traccia
dello stile greco e si distingue solo per la veste, i capelli sciolti e la ghirlanda di rose dai due gruppi ai suoi lati che suonano e ragionano d’amore.
Incatenato di fronte a lei c’è Marte, che la dea dell’amore ha vinto, il quale evoca un'atmosfera da miniatura nordica (che non stupisce visto l’interesse
ferrarese per la cultura cavalleresca francese).
In questa rappresentazione Cossa si è ispirato al manuale di iconografia mitografica di Alberico, che descrive infatti così Venere: “Vergine bellissima,
nuota nuda nel mare; ha ghirlanda di rose bianche e rosse in capo e colombe la accompagnano. Accanto le stanno le tre Grazie - due rivolte verso lo spettatore, una di
spalle - e suo figlio Cupido, che scaglia frecce ad Apollo”. L’Afrodite di Cossa ha la ghirlanda di rose rosse e bianche, è attorniata da colombe mentre procede
sul mare; Amore è inciso sulla sua cinta mentre scaglia frecce a degli innamorati; le Grazie ricalcano la posizione prescritta.
Nell’Ovide moralisé Venere sorge ancora dal mare e i suoi attributi sono sostanzialmente gli stessi, con poche varianti: rose bianche e rosse, galleggia
sull’acqua, colombe svolazzano, una Grazia è di spalle.
Luglio. Realizzato da una personalità artistica più fiacca. Secondo Manilio questo mese è retto da Giove-Cibele (che nell’a ffresco si divide il trono
guidato dai leoni), mentre secondo la dottrina planetaria antica era retto da Sole-Apollo; sullo sfondo è adagiato Attys, marito di Cibele.
In alto a sx, in una cappella ci sono alcuni monaci in preghiera: nonostante l’immagine sia ispirata al poema di Manilio, questa particolare scena di
uomini pii in preghiera deriva dal ciclo dei figli planetari del Sole-Apollo.
La scena nuziale a sinistra dovrebbe rappresentare le nozze di Bianca d’Este, figlia di Borso, con Galeotto della Mirandola, il cui fratello Pico, valoroso
pioniere della lotta contro la superstizione astrologica, infervorò in una sua opera contro l’assurda dottrina araba dei decani (W. individua, attraverso
la storia delle civiltà e i documenti dell’epoca, un’altra prova che testimonia della diffusione dei decani alla corte estense).
Chi ispirò questi affreschi? Alla corte estense l’astrologia aveva gran importanza: Lionello indossava per ogni giorno della settimana un ambito del
corrispondente colore planetario; la corte era costantemente frequentata da astrologi (uno perfino mediante la geomanzia, ultima propaggine della
divinazione astrologica antica). Fu Pellegrino Prisciani, professore di astronomia allo Studio cittadino, bibliotecario e storiografo di corte, l’ideatore.
Pure gli altri astrologi di corte citano nei propri pronostici Abu Ma’sar ma è Prisciani a rifarsi in un responso astrologico a quel singolare trinomio che
fu da fonte per gli affreschi: Manilio, Abu Ma’sar, d’Abano.
Quando Eleonora d’Aragona, consorte del duca Ercole, gli aveva chiesto qual era la congiunzione astrale più propizia perché si realizzasse un suo
desiderio, Prisciani nel suo erudito responso si appella agli aforismi di Abu Ma’sar e al Conciliator di d’Abano, e fa intonare l’accordo finale a Manilio.
C’è un’ulteriore prova documentaria del fatto che il committente fu Prisciani Nella lettera già menzionata, Cossa si lamenta direttamente con Borso
di essere stato trattato male e scarsamente remunerato. L’ispettore alle arti del Palazzo era Prisciani, ma Cossa scrive di rivolgersi al duca per non
disturbare il professore: “non voglio esser quello il quale et a pellegrino de prinsciano et a altir vegna a fastidi”. È chiaro che voleva evitare Pellegrino poiché fu
questi ad averlo posto sullo stesso piano dei “più tristi garzoni di Ferrara”: egli stimava gli altri pittori quanto Cossa se non altro perché essi avevano
raffigurato con bella esattezza le sottigliezze del suo erudito programma. (in certi bran