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LINGUAGGIO COME CORONAMENTO E NON BASE

Sul versante opposto, nel quadro della sua particolare psicologia evoluzionistica, Tomasello

sostiene, insieme a Corballis, una visione gradualista dell’insorgenza del linguaggio, a partire dal

patrimonio cognitivo-comunicativo attribuibile a un ipotetico antenato comune a grandi scimmie e

ominini. Egli invita in particolare a inscrivere l’emergenza del linguaggio nei risultati di quella

ultrasocialità che rappresenta a suo dire la vera e propria prerogativa umana. Ciò che Tomasello

ha di mira non è di per sé un ridimensionamento del linguaggio, cui anch’egli attribuisce un ruolo

centrale, bensì una messa in questione delle posizioni che lo prelevano dal contesto complessivo

dell’esperienza umana e lo fanno giocare come un deus ex machina che produce il salto cognitivo

che caratterizza l’homo sapiens. Non si tratta pertanto di individuare il gene apposito per lo

sviluppo del linguaggio, ma di reinscriverlo nell’esperienza che ne ha preceduto l’emergere: lo

stimolo culturale sarebbero le attività socio-comunicative preesistenti. Il linguaggio è quindi

coronamento e non base.

Il linguaggio non è attendibile a un gene bensì a un’evoluzione stimolata da elementi come

l’ultrasocialità oppure le attività socio-comunicative presenti, a differenza dell’ipotesi puntualizza

che parla del risveglio di un gene.

Ma che cosa accade con il linguaggio?

Nel volume “Dalla mano alla bocca” di Corballis, viene identificato, sulla scorta di Chomsky, le tre

proprietà che caratterizzerebbero il linguaggio umano: la generatività ( l’illimitata possibilità di

combinazione e ricombinazione degli elementi linguistici, perciò la produzione di sempre nuovi

enunciati); la grammatica ( una classe di regole per lo più inconsapevoli che governano tutte le

forme naturali di linguaggio umano e che determinano la relazione tra gli elementi, dunque la

costruzione degli enunciati nella loro potenzialmente infinita varietà”); la ricorsività ( la capacità di

incastonare subordinate in altre subordinate).

In primo luogo abbiamo a che fare con il linguaggio quando i segni che ne fanno parte hanno per

gli emettenti e per i destinatari lo stesso significato, vale a dire, in termini pragmaticistici, evocano

o suscitano il medesimo atteggiamento di risposta. Questo vuol dire che il segno linguistico è

strutturalmente pubblico e intersoggettivo. Esso non può avere un carattere meramente privato,

idiomatico, deve rimandare a un significato comune, identico, condiviso.

Gli animali di molte specie producano segnali di vario genere, che suscitano la medesima risposta

negli altri membri del gruppo, ma non per questo essi hanno segni linguistici, poiché non

possiedono il significato dei segnali che emettono, vale a dire non ne dispongono in quanto segni

di qualcos’altro: sono stimolati a emetterli in situazioni determinate, ma non si può dire

propriamente che se ne servano invano. Essi non sanno il significato del segno, non lo hanno a

disposizione e non possono produrlo in assenza della determinata situazione che lo richiede.

Proprio il significare in assenza rappresenta invece una dimensione essenziale del linguaggio

stretto.

Ora in terzo luogo, significare in assenza contiene un ulteriore risvolto, che merita di essere

considerato: infatti l’assenza resta tale anche quando ci rivolgiamo a qualcosa di presente. Il

referente del segno linguistico è in certo modo costituivamente assente perché rimanda sempre a

un universale, che non è mai questa o quella cosa ma sempre qualcosa di assente. Il linguaggio

quindi universalizza strutturalmente.

Ma che rapporto c’è tra lo schema, il tipo e il significato ideale? E tra questo e il linguaggio?

Per tentare di affrontare il problema, dobbiamo procedere prendendo di spunto di nuovo le

osservazioni di Tomasello sulle scimmie antropomorfe. Egli riconosce ai primati non umani più

simili a noi la capacità di compiere inferenze creative che vanno oltre questa o quella particolare

esperienza. Per far ciò occorre che essi “rappresentino” le loro esperienze come tipi in forma

generalizzata , schematizzata e astratta. Ossia rappresentazioni off-line. Grazie a questa

schematizzazione, le scimmie antropomorfe hanno la possibilità di costruire modelli cognitivi

generali della causalità e dell’intenzionalità, applicabili rispettivamente nel mondo fisico e nel

mondo sociale, in base ai quali immaginare le mosse successive di un conspecifico che entra in

competizione per la ricerca del cibo. Le antropomorfe non solo sono agenti intenzionali in prima

persona, ma sono anche in grado di figurarsi gli altri come agenti intenzionali. Questo

dimostrerebbe che per pensare non è necessario aver linguaggio. L’ipotesi di Tomasello è che tali

creature fossero capaci di intenzionalità individuale e razionalità strumentale. Esse, tuttavia, erano

prive degli elementi embrionali del linguaggio, cioè non sapevano fare un segno, vale a dire non

realizzavano né gesti indicativi né iconici. Corballis sottolinea che la pur straordinaria abilità

cognitivo-comunicativa esibita da alcune scimmie addestrate non conduce al linguaggio, bensì a

un protolinguaggio. Essi usano cioè sequenze di gesti, possono combinarli tra loro, ma le loro

abilità grammaticali finiscono qui, non superano questo livello elementare legato alla struttura della

richiesta. Per Corballis il salto viene effettuato quando si è sviluppata una capacità cognitiva più

generale che permetterebbe a questi animali di formare rappresentazioni mentali e di combinarle

in modi dotati di significato.

GHELEN E IL SALTO, LA RIPETIZIONE DELLA PAROLA MAR IN SITUAZIONE

Ma quindi, che cosa accade in questo salto? Prendiamo un esempio tratto da Arnold Ghelen in “

L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo”. Supponiamo che un qualsiasi suono per esempio

‘mar’ avesse accompagnato in epoche primordiali l’azione dello sfregare o affilare pietre, senza

rivestire un senso particolare, ma semplicemente come un naturale suono riflesso abituale. Ma se

ora qualcuno che volesse iniziare ad affilare le pietre iniziasse a mugolare ‘mar’ ancora prima di

iniziare, ecco che avverrebbe un’associazione, che significa che i due eventi sono andati

collegandosi e che ogni volta che verrà pronunciato ‘mar’ si evocherà quella rappresentazione.

Per un verso il significato “affilare la pietra” non è altro che il tipo, lo schema, che consente a noi il

riconoscimento “ eccolo di nuovo” con le conseguenti ricombinazioni e inferenze. Per altro verso

però quando si lega al segno, quando diventa significato del segno, il tipo, lo schema si trasforma,

si idealizza, si stacca definitivamente dalla situazione concreta. Acquista un’identità autonoma,

obbiettiva, intersoggettiva, pienamente ideale. Il linguaggio non è in questo senso un accessorio,

non interviene a esprimere qualcosa di già pronto senza di esso. Il segno linguistico diventa perciò

il medium o supporto di una possibilità indefinita di evocazione del significato ideale. Ma occorre

aggiungere: è un medium che consente di evocare il significato ideale avendo anzitutto concorso

alla sua costituzione. Non basta la ripetizione dell’esperienza per costituire l’identità ideale del

significato. Il linguaggio non è in questo senso un accessorio, non interviene a esprimere qualcosa

di già pronto senza di esso. Il diventare segno del suono e il diventare ideale del significato sono le

due facce di uno stesso evento, i lati di un apparizione simultanea e correlativa. Ma a ciò bisogna

aggiungere: beninteso, l’evento di questa differenza è l’evento stesso del linguaggio,, poiché

l’ideale emerge come il correlato del segno. La differenza tra l’ideale e l’empirico non apparirebbe

senza il segno linguistico. Vi sarebbe l’esperienza del riconoscimento, la differenza tra il tipo e le

sue repliche, ma in un legame costitutivo con il vissuto presente. Il significato ideale è invece il

significato obiettivato, pubblico.

LA NASCITA DEL LINGUAGGIO A PARTIRE DAI GESTI.

Corballis a differenza di Ghelen vuole percorrere una strada molto più lunga che ha a che fare con

il gesto. Nella stessa prospettiva si muove anche Tomasello, che dice che se vogliamo spiegarci la

comunicazione umana non dobbiamo partire dal linguaggio verbale, ossia da un codice simbolico

astratto che veicola un significato, come se esso fosse caduto dal cielo già fatto o prescritto dalle

circonvoluzioni del cervello, ma arretrare verso forme preesistenti di comunicazione entro cui quel

codice può essere sorto. Candidati eccellenti per questo ruolo sono i gesti naturali degli umani

come l’additare e il mimare. Il percorso lineare-evolutivo proposto dallo psicologo statunitense

muove dai gesti comunicativi delle antropomorfe, assunti come precursori animali della

comunicazione umana, per concentrarsi sugli aspetti comunicativi “naturali” unicamente umani,

l’additare e il mimare, quali base necessaria degli sviluppi convenzionalizzanti. Corballis dice che

questi gesti sono diadici: comportano un’interazione con un altro individuo, di solito in modo da

invogliare la risposta. Essi sono di rado triadici, non implicano di cioè un terzo polo oltre l’emittente

e il ricevente, com’è invece per i gesti deittici prodotti dagli esseri umani. Tomasello nota che

nessuno dei primati non umani usi gesti iconici. Esempio: quando le scimmie antropomorfe vedono

qualcuno che schiaccia una noce con un sasso capiscono benissimo il senso dell’azione; ma se gli

vedono fare lo stesso movimento senza che vi sia il sasso restano perplesse. Per comprendere i

gesti iconici è necessario interpretare certe azioni intenzionali compiute fuori dei normali contesti

strumentali come atti comunicativi. Occorre cioè mettere in quarantena l’azione insolita, non

interpretarla come strumentale, classificarla come un’azione con scopi esclusivamente

comunicativi. Non solo per produrre gesti iconici occorre anche essere in grado di realizzare

un’azione che somigli a un’azione reale, possedere perciò una capacità di imitazione nella quale

gli esseri umani eccellono.

LA COMUNICAZIONE NASCE DAL BISOGNO DI COOPERAZIONE.

Sottolinea Tomasello che ciò è dovuto a una necessità sviluppatasi nelle prime specie di genere

Homo. In questo stadio di collaborazione e comunicazione tra coppie di individui, si deve parlare,

secondo Tomasello di intenzionalità congiunta contro la mera intenzionalità individuale delle grandi

antropomorfe. In una seconda tap

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Publisher
A.A. 2017-2018
19 pagine
2 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/01 Filosofia teoretica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher GinevraLindi di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Gnoseologia e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Di Martino Carmine.