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Nell'attività di Grotowski, è possibile distinguere 4 periodi.
Durante la fase del teatro di regia (1957-61), pur essendo egli ancora un
– allievo, autore di spettacoli poco riusciti, si evidenziano già gli elementi chiave
della sua ricerca: l'autonomia del teatro dalla matrice letteraria, la centralità
dell'attore e il rapporto con lo spettatore.
Il periodo dell'affermazione internazionale (1962-69), con spettacoli memorali
– del Teatro Povero, sarà però seguito
dal periodo del Parateatro (1970-79), in cui Grotowski annuncia l'intenzione di
– non allestire nuovi spettacoli, per dedicarsi a ricerche e progetti, tra cui
l'Istituto Laboratorio.
Esso venne chiuso nell'84 per contrasti col nuovo regime polacco, ma diede
– inizio al Teatro delle sorgenti, ossia al recupero degli interessi antropologici e
storico-religiosi, utili a sperimentare le tecniche del comportamento
(soprattutto corporeo) con cui mantenere un rapporto con le proprie radici e il
proprio bios. Il teatro costituisce ormai solo una di queste tecniche, accanto a
rituali di trance e possessione, preghiera e meditazione.
Esiste tuttavia un filo logico tra le varie fasi del teatro di Grotowski: l'itinerario
dell'uomo verso la verità, attraverso un processo di autorivelazione totale.
Rappresentare e recitare diventano, tuttavia, a un certo punto, degli ostacoli alla
vita reale: il teatro si rivela quindi essere solo un mezzo e un momento
dell'itinerario conoscitivo del regista, mentre l'attore lo interessa solo in quanto
uomo, che pone al centro del suo lavoro una relazione interumana.
Grotowski si pone inoltre in opposizione complementare rispetto alle tendenze
dominanti nel campo di arti e cultura, secondo un'idea di "cultura multipla":
mentre negli anni 60 la controcultura giovanile celebra all'aperto i suoi riti di
massa, il Teatro-Laboratorio lavora al chiuso e in piccolo, come una comunità
ristressa; quando negli anni 70, si affermerà il ritorno al privato, Grotowski
sentirà invece il bisogno di aprire il laboratorio.
Tuttavia, in anni di infatuazione collettiva per marxismo e materialismo storico,
parlare di miti e archetipi e ricercare la verità dell'uomo nel sacro significava
subire obiezioni pregiudiziali e contestazioni dei presupposti teorici di un lavoro in
realtà essenzialmente pratico, di cui non vennero mai davvero considerati gli
aspetti tecnici relativi all'elevata qualità artistica.
Grotowski definiva la sua attività un tentativo di restituire i valori arcaici del
teatro, una "retroguardia" ispirata al dramma romantico polacco dell'800, che
presentava caratteristiche mitopoietiche ma anche una tensione al cambiamento,
rappresentata attraverso opposizioni nette esasperate (es.: mitezza/crudezza,
sulime/ridicolo, ecc.).
Un'altra consistente eredità culturale è rappresentata da Reduta, istituzione
teatrale con carattere di associazione, nata nel ventennio tra le due guerre e
basata su una disciplina quasi monastica, su una ricerca più etica che tecnico-
professionale e su esperienze di pedagogia teatrale comunitaria.
Grotowski non rifiutava, tuttavia, il testo drammatico, bensì il suo uso in termini
di fedele traduzione, il suo definirsi come un qualcosa già virtualmente teatrale,
la cui messa in scena non rappresenta una pratica creativa autonoma. Quello fra
gruppo teatrale e testo viene qui invece inteso come incontro e confronto, al pari
di quanto avviene fra attore e regista, attore e parte, spettacolo e spettatore.
Occorre porsi davanti all'opera drammatica come davanti a un'entità materiale e
spirituale dotata di oggettività e vita proprie (ma non di significati univoci), da cu
tratte l'impulso per avviare un processo creativo indipendente.
L'opera viene descritta in termini di bisturi (che ci permette di aprirci e scoprire
cosa è celato in noi) e trampolino (da cui prendere lo slancio verso il pubblico).
L'attore deve quindi evitare la trappola dell'immedesimazione naturalistica,
rappresentando drammi classici i cui contenuti sono radicati nella psiche della
società tramite immagini profonde e rappresentazioni collettive, ossia miti capaci
di costituire un terreno comune preesistente per attore e pubblico. Il teatro deve
aggredire i complessi collettivi della società, l'essenza del subconscio collettivo
ereditato: per avere valore, il testo deve permettere di reperire situazioni
archetipiche.
La perdurante presenza di una dimensione mitico-magica nell'immaginario
contemporaneo deve essere superata non più attraverso la sua rimozione, ma
tramite una piena e laica autochiarificazione. In maniera contrappuntistica,
tramite un processo di accettazione e rifiuto, celebrazione e profanazione,
rispetto e trasgressione, occorre operare un confronto (e non
un'immedesimazione) con il mito.
Il rifiuto dell'opportunistica subalternità e il servilismo ipocrita dell'attore
occidentale, esibizionista e teso a piacere e suscitare consenso ed elogio, viene
definito da Grotowski "pubblicotropismo". L'attore non dovrebbe, al contrario,
recitare per il pubblico, ma alla sua presenza.
L'attore del Teatro Povero cerca quindi il suo spettatore, che sceglie e da cui
viene scelto: da ciò la decisione di esibirsi per pochi spettatori a serata, che
nutrono autentiche esigenze spirituali e desiderano realmente autoanalizzarsi.
La non accettazione del pubblico teatrale generico impone di formare lo
spettatore, di fare di esso un elemento specifico dello spettacolo, integrato nel
luogo teatrale in qualità di discnedente, paziente, ospite. Nasce il pubblico come
oggetto di regia, malgrado il carattere costrittivo e a volte violento della
predeterminazione del ruolo causi presto una partecipazione inautentica dovuta a
un metodo oppressivo, che si traduce in imbarazzo e inibizione.
Superando il falso assioma che identifica la partecipazione attiva del pubblico col
suo coinvolgimento fisico, lo spettatore diventa un testimone lontano dagli attori,
che resta in disparte e non si intromette ma desidera essere cosciente, guardare
e ricordare ciò che avviene (da qui l'associazione col verbo latino "respicio", che
indica il rispetto per le cose).
Una volta conclusasi la fase degli spettacoli, Grotowski ripenserà la
partecipazione diretta del pubblico in termini di "cultura attiva", ossia della
stimolazione di dinamiche comunicative e di gruppo.
L'impossibilità di dirigere lo spettatore e le accuse di elitarismo aristocratico
spingono quindi il regista a concentrarsi sull'attore, che deve essere in grado di
concepire e vivere il lavoro meglio della concorrenza squallida sfruttatrice del
corpo. La miseria dell'attore può quindi essere trasformata in una forma di
santità: se l'attore, con una profanazione eccessiva, getta la maschera per
scoprire sé stesso, permette allo spettatore di intraprendere un processo di
autopenetrazione. L'attore non esibisce il suo corpo, ma lo annulla, lo libera dalla
resistenza agli impulsi psichici, lo offre in sacrificio.
Molti gruppi teatrali daranno vita a spettacoli basati su improvvisazione collettiva
caotica, mancanza di controllo, imprecisione dilettantistica, isterismo e violenza.
Grotowski ha sempre tuttavia messo in guardia contro lo spontaneismo
indisciplinato e l'anarchia, attraverso cui non ci si può esprimere. La tensione
dell'attore verso la sincerità deve quindi essere sottoposta al freno della forma
artificiale, espressa attraverso segni articolati e una partitura gestuale e vocale
leggibile e comunicabile. L'atto creativo è quindi il risultato della dialettica tra
precisione e spontaneità, della necessità di costruire una struttura, una forma
antinaturalistica, con cui imbrigliare e modellare il flusso degli impulsi viventi e
uccidere lo pseduorealismo del quotidiano.
Quando, però, l'artificalità sarà sentita da Grotowski come una gabbia, emergerà
l'idea di nuova spontaneità, che presuppone la rinuncia a recitare.
Il teatro giovanile degli anni 70 (detto Teatro di Gruppo o Terzo Teatro) era quindi
realizzato da attori che sfoggiavano grande esuberanza fisica, frutto di
allenamento costante. Grotowski cercherà tuttavia di spezzare il circuito perverso
prove-spettacolo, che imprigiona l'attore, spegnendone le aspirazioni creative
nella routine soffocante della "professione".
Sganciando il teatro dagli spettacoli, il regista crea uno spazio pedagogico, un
luogo di educazione permanente per l'attore, in cui allenarsi all'artificialità e
all'elaborazione formale ponendo tuttavia l'accento sul corpo e solo poi sulla
parola, sentita spesso come uno strumento che nasconde. Gli esercizi
attingevano alle tecniche corporee più disparate (fisici, per la maschera facciale,
vocali, per la respirazione, la voce, la dizione, la pronuncia, ecc.).
Il rischio del perfezionismo esteriore e del virtuosismo fine a sé stesso veniva
evitato sforzandosi di ricomporre la totalità vocalico-corporea e fisico-psicologica
dell'uomo attraverso esercizi individuali motivati psicologicamente, che
producevano una reazione fisica autentica, che inizia nel corpo e si conclude col
gesto visibile generato. Corpo e vita si sovrappongono nell'attore, la cui
interpretazione appare ispirata, fonte di una luce psichica che l'attore emana
dall'interno, in uno stato di grazia.
Parte terza. La consacrazione del nuovo teatro (1964-68)
9. Living Theatre: l'avventura europea
Il Living Theatre esiliatosi in Europa nel 64 incarna l'immagine canonica degli
eventi di quel periodo: capelli lunghi, cortei, occupazioni, scontri con la polizia,
sit-in e spettacoli di strada.
La creazione collettiva, l'improvvisazione totale del free theatre e il
coinvolgimento del pubblico come partecipante attivo dello spettacolo furono gli
elementi caratteristici di una compagnia che si proponeva come una comunità di
vita e lavoro legata da ideali anarco-pacifisti di liberazione sessuale,
indipendenza, collettivizzazione di funzioni e compiti, rifiuto di profitto, violenza e
potere.
Il Living promuoveva tali valori praticandoli, cercando di eliminare ogni
distinzione di ruolo tra regista e attori: persisteva, tuttavia, una tendenza degli
attori all'abnegazione, dovuta alla natura antiindividualista del loro
comunitarismo, che degenrava in un trascendimento-dissolvimento del singolo
nella dimensione collettiva.
Lo spettacolo, da fine, diventa, negli anni 70, un mezzo non più da perfezionare e
innovare, ma da utilizzare nel suo valore d'uso. Il Living esce dall'involucro
teatrale, comincia a disfarsi del tea