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Il teatro è tuttavia anche un dispositivo dipendente dalle tecnologie a
disposizione, che ne spiegano i caratteri formali e i modi con cui si
esprime. Foucault descrive infatti il teatro come uno dei luoghi reali in
cui le utopie si realizzano, essendo esso delineato sia nell'istituzione
della società che nella sua istituzione immaginaria.
L'utopia nel teatro novecentesco: rivoluzione, politica, comunità
L'arte opera in una società realizzando processi comunicativi con i
partecipanti, che in essa trovano l'occasione per agire riflessivamente
in termini di proiezione, identificazione o distacco.
Il teatro, frutto dell'evoluzione della scrittura, si sgancia dal rituale già
nell'antica Grecia, per diventare il dispositivo dello sguardo grazie a una
rappresentazione svincolata dal vissuto e quindi utile all'elaborazione
mentale dei significati. Tale processo si radicalizza nel teatro
rinascimentale ed elisabettiano, in cui la distinzione scena/sala si
consolida a rappresentare la distanza fra realtà della vita e della
rappresentazione, tramite una finzione autonomizzata.
Il meccanismo di fruizione si mostra quindi adatto all'elaborazione
cognitiva e all'autonomia dello spettatore.
Il teatro borghese e naturalista si pone infatti come strumento realista
e riflessivo, che cerca di eliminare la spettacolarità per concentrarsi
sulla verosimiglianza di quei conflitti quotidiani micro-relazionali che
nascondono vizi e valori della società borghese.
Foucault considera le utopie spazi irreali, privi di luogo, in un rapporto
di analogia diretta o rovesciata con la realtà: si tratta della società
perfezionata o del suo contrario, in contrapposizione alle visioni
totalitarie e al monoteismo dei valori funzionale al mantenimento della
stabilità che aggiusta "tecnicamente" i conflitti sociali attraverso
l'organizzazione.
In un secolo politicamente travagliato da guerre e rivoluzioni, ma
percorso da importanti correnti ideologiche e utopiche, le arti si
ispirano al carattere di rivolta, manifestando una forte volontà di
sperimentazione.
La rottura delle convenzioni porta il teatro a focalizzarsi sul processo
della fruizione e sullo spettatore. Da ciò nasce l'esigenza di un teatro
popolare e il concetto di inutilità del teatro a teatro.
L'Esposizione Universale di Parigi del 1900 rappresenterà quindi una
fonte di grande ispirazione, diffondendo l'idea sociale del teatro che si
impone come alternativa politica nata dal popolo.
Elemento cardine diventa quindi la regia, che cerca un mondo migliore,
non illudendo ma rappresentando.
La diffusione di piccoli teatri e teatri d'arte rappresenterà, inoltre, la
reazione al predominio di Broadway.
Le scuole andranno a costituirsi come microsocietà diverse dalle
società, di cui il teatro fa da strumento. Parallelamente all'espansione
del teatro celebrativo di massa, intorno agli anni 20 il teatro politico e
sociale trova il suo senso nel suo uso in chiave di trasformazione. Si
diffonde in Germania il teatro dell'agitprop (agitazione-propaganda),
fatto di forme semplici, tendenzialmente satiriche, rappresentate in
strade e piazze. Esso diventa strumento della lotta di classe, senza
prime e grandi registi, ma frutto dell'attività di dilettanti mossi dall'idea
di cambiare il mondo prima ancora che gli stili.
A fare da contraltare sarà il teatro politico tedesco di Piscator (che
esalta il lavoro collettivo e trasforma ogni dramma in una lezione
estetica e politica che muta la cosicenza dello spettatore) e Brecht, che
formula il suo teatro epico basandosi sul passaggio da illusione a
dimostrazione.
Il teatro della crudeltà di Artaud, non epidermico e di superficie,
cercherà invece di esprimere le ragioni profonde dell'uomo come bios,
attraverso la centralità del corpo e della sua potenza simbolica.
Fra 35 e 36, l'uso del teatro da parte dei regimi garantirà sovvenzioni
statali a favore dell'impresariato.
I modi dell'utopia non trovano sepsso unanime applicazione, ma
degenerano in conseguenze estreme.
Il Living Theatre e gli happening degli anni 60 partecipano attivamente
ai movimenti del 68 con gesti rivoluzionari disobbedienti e occupazioni,
considerando lo spettacolo e il gruppo una cellula comunitaria e
anarchica.
Dopo il teatro povero di Grotowski e il terzo teatro di Barba diventa
tuttavia evidente l'inadeguatezza del teatro rispetto all'esacerbarsi del
conflitto sociale e politico.
Gli anni successivi al 68 conosceranno un recupero della cultura
popolare, col gruppo a rappresentare l'alternativa praticabile rispetto
alla famiglia tradizionale e all'ambiente sociale inaccettabile.
La Mutoid Waste Company, il collettivo di performer e artisti inglesi che
ha fondato il villaggio di Mutonia a Santarcangelo di Romagna, ad
esempio, attualizza l'ideale utopico anticonsumistico attraverso il
riciclaggio creativo dei rifiuti industriali.
Negli anni 90, il disincanto sembra spegnere la spinta utopica, col
teatro percepito in termini ora più individuali.
L'utopia diventa quindi capace di demistificare la supposta datità del
reale, per considerare i soggetti come costellazioni di possibilità e
aspettative.
L'utopia nel teatro novecentesco: la scena rinnovata e la sintesi delle
arti
La riforma della scena moderna raggiunge il suo apice con Wagner, che
considera il teatro superiore poiché frutto della fusione di tutte le arti
nell'opera d'arte totale, che assimila, quindi, anche i linguaggi mediali
emersi da rivoluzione industriale, progresso tecnologico e civiltà delle
macchine.
Ermerge il concetto dell'arte come vita da opporre al mondo industriale