Estratto del documento

Prendendo spunto da questo “vedere come” (papero o coniglio) di W., Gombrich aveva

sostenuto che “non è possibile tener presenti contemporaneamente le due

interpretazioni opposte” e che “l’illusione è difficile da descrivere o analizzare perché,

anche se siamo intellettualmente consapevoli del fatto che ogni data esperienza deve

essere un’illusione, non posiamo a rigore osservarci nell’atto di cedere a un’illusione”.

Wollheim contesta che il modello del vedere come sia adeguato a dar conto di ciò che

accade quando guardiamo e comprendiamo un dipinto: in questo caso, sarebbe

necessaria una simultanea consapevolezza visiva sia della superficie dipinta sia dei

suoi aspetti rappresentazionali: “duplicità” (twofoldness), unica esperienza simultanea

(per Wollheim) dotata dell’aspetto “configurazionale e “riconoscitivo”. Duplicità che

dipende dalla modalità del “vedere-in”, speciale capacità percettiva prioritaria alla

rappresentazione (sia logicamente che storicamente). Il vedere-in può dar conto della

rappresentazione di oggetti e di eventi particolari, ma anche di particolari tipi di

oggetti e tipi di eventi. W. ritiene inoltre che la percezione sia largamente permeabile

al pensiero e non, come molti, ampiamente “modulare” (per Danto è modulare, ma

comunque ritiene importante i concetti per l’interpretazione di un’opera). Il vedere-in

permette di vedere oggetti, eventi e loro proprietà che non sono direttamente causati

dalla superficie marcata. Ritiene poi che l’intenzione dell’autore abbia un ruolo

In

necessario nella corretta percezione della rappresentazione pittorica. un dipinto, si

può vedere una molteplicità di cose; tuttavia, un’ esperienza appropriata di vedere-in

corrisponde all’intenzione riuscita dell’autore alla percezione effettiva di un

osservatore competente. Una delle tesi più discusse è l’adeguatezza della twofoldness

nel caso del tromp-l’oeil. Quest’utlim, infatti, mira a eliminare dalla percezione del

dipinto l’aspetto “configurazionale” a vantaggio esclusivo di quello “riconoscitivo”.

Wollheim tende a escludere il tromp-l’oeil dal novero delle rappresentazioni pittoriche

(scelta convincente per il tipo decorativo, ma meno per pitture più elaborate). 2.4.

Rappresentare e percepire: il punto della situazione. a) supponiamo che non tutte le

rappresentazioni siano percettive e che abbiano caratteristiche diverse da quelle

visuali. Alcuni autori (Danto) parlano di “rappresentazioni” in tutti i casi (verbali e non

verbali), altri (Goodman) distinguono tra “rappresentazioni” (non verbali) e

“descrizioni” (verbali), altri ancora (Walton) usano depiction (rappresentazione visiva)

come una categoria trasversale, che può riferirsi a media diversi. b) le

rappresentazioni percettivi riguardano il nostro rapporto con il mondo reale. Quando

parliamo di arti visive ci riferiamo all’insieme vago delle “arti visive” c) dire come

percepiamo una rappresentazione visiva non significa necessariamente aver detto

qualcosa su un’esperienza estetica o un’esperienza artistica. Mentre è chiaro che non

ogni esperienza estetica riguarda un’opera d’arte, alcuni autori (Danto) pensano che si

diano opere d’arte al di fuori di ogni esperienza estetica, altri (Goodman) non

distinguono esplicitamente tra estetico e artistico. d) per alcuni filosofi dell’arte

analitici (Goodman, Danto, Dickie, Wollheim) dire “estetico” o “artistico” non significa

dare un giudizio di valore, ma classificare certi fenomeni in un certo modo. e) secondo

Velotti, non ogni esperienza estetica è percettiva, né ogni esperienza percettiva è

estetica, così che “percettivo” non equivale a estetico. Partiamo da qui: Goodman,

anziché proporre una teoria della rappresentazione come un modo particolare di

vedere, propone una teoria delle rappresentazioni come simboli che rappresentano in

modo particolare, che offrono una loro “versione di mondo” come altri sistemi

simbolici. Lui ritiene che “un quadro, per rappresentare un oggetto deve essere un

simbolo di esso, stare per esso, riferirsi ad esso e denotarlo. La denotazione è il

nocciolo della rappresentazione ed è indipendente dalla somiglianza”. La prima

domanda è ovviamente come una figura di un essere immaginario denoterebbe

qualcosa: Goodman risolve sostenendo che in questi casi la denotazione è nulla. Ma

allora, non tutte le rappresentazioni con denotazione nulla sono uguali. Goodman

propone, per distinguere, di dire che una figura che rappresenta un unicorno non è

altro che è un modo di classificarla come figura-che-rappresenta-un-unicorno. E’ un

predicato a un posto indivisibile che non rimanda ad alcuna assunzione di esistenza

riguardo a unicorni. Altra difficoltà: dipinti in cui qualcosa/qualcuno è rappresentato-

come (Churchill adulto rappresentato-come bambino): la soluzione di Goodman è data

dalla congiunzione delle due modalità denotative precedenti, cioè da una denotazione

che sia al contempo una figura-di-x tre casi: 1) una figura che rappresenta un uomo

lo denota (ciò che denota) 2) una figura che rappresenta un uomo immaginario o

generico è una figura-di-uomo (che genere di figura sia) 3) una figura che rappresenta

un uomo come un uomo è una figura-di-uomo o bambino che lo denota (denotazione e

classificazione). Per Goodman l’esemplificazione è possesso più riferimento

(“proprietà” denota il quadro, ma è anche posseduto e vi si riferisce); l’espressione è

esemplificazione metaforica. Per Goodman un simbolo rappresentazionale pittorico si

riferisce a un sistema analogico: tra due simboli pittorici qualsiasi ce ne è sempre un

terzo, caratterizzato 1) da una densità sintattica (ogni minima variazione costituisce

una differenza simbolica) 2) da una densità semantica (si producono simboli per cose

distinte) 3) da una saturazione relativa (che indica la pertinenza relativa di un tratto di

un simbolo) 4) dall’esemplificazione (dove un simbolo simboleggia, servendo come un

campione di proprietà che esso possiede letteralmente o metaforicamente) 5) dal

riferimento multiplo e complesso (dove un simbolo realizza svariate funzioni

referenziali integrate e interagenti, alcune dirette e altre mediate). Questi sono

“sintomi (non condizioni necessarie o sufficienti dell’estetico-artistico) dell’estetico”.

La sua proposta viene classificata tra le teorie “semiotiche” della rappresentazione,

tuttavia vediamo che Goodman ha in mente principalmente delle opere d’arte visive.

Da un lato i “sintomi estetici” si riducono notevolmente per quanto concerne le arti

verbali, dall’altro “il fatto estetico” non è interamente ridotto al percettivo, né il

percettivo è ma isolato da elementi non percettivi. Ci parla di sottili differenze

percettive. Qui inizia la polemica di Danto: che dire se due oggetti sono per ipotesi

indiscernibili, ma uno è un’opera d’arte e l’altro non lo è? Per lui, da quando con

Duchamp si è dimostrato che un’opera d’arte può essere percettivamente

indistinguibile da una sua controparte reale non artistica, è diventato evidente che la

percezione non ha alcun ruolo nel decidere “l’artisticità” o meno di un artefatto. Che

qualcosa sia arte o meno non dipende da proprietà percettive, bensì da proprietà

relazionali osservabili. Esclusa la percezione, restava ancora il problema tradizionale

del “gusto” o di un “senso estetico”. In un primo tempo ritiene che assomigli a una

sorta di “sense of humor” o “senso erotico” : il primo dipende da fattori culturali,

concettuali e sociali (non ogni cosa fa ridere in ogni tempo e in ogni luogo); il secondo

può essere altrettanto permeato di elementi non puramente sensoriali, perché abitato

da “fantasie” etc. Nella sua opera La trasfigurazione del banale, pensa a un senso

estetico come complesso e concettualmente permeabile. Si rende conto di non essere

riuscito a mettere a punto gli strumenti concettuali per distinguere due

rappresentazioni (diagramma e opera d’arte), reintroduce allora come decisive nozioni

estetiche, come gusto, giudizio, stile). Secondo Danto le interpretazioni di un’opera

d’arte devono corrispondere il più possibile alle intenzioni dell’artista (intenzioni che si

realizzano nell’opera, non starebbero nella testa di un autore). Lo stile è qualcosa di

spontaneo, che esprime ciò che l’uomo è: “per costituire il suo stile, tali qualità devono

essere espresse immediatamente e spontaneamente”. Tuttavia, immediatezza e

spontaneità non sono intenzionabili dunque, ciò che “fa la differenza” tra un’opera

d’arte e la sua controparte reale risiede in ultima analisi in ciò che viene espresso in

un’opera non intenzionalmente: allora, però, un’estetica “dei significati” non

riuscirebbe a cogliere proprio l’essenziale dell’opera d’arte. La riuscita di quest’ultima

non dipende certo solo dalle intenzioni dell’autore o dal loro riconoscimento. Entra in

gioco qualcosa di “spontaneo”, un “dono”. “Grazie a una rappresentazione

magicamente incorporata nell’opera che l’opera riesce come opera d’arte”.

Successivamente decide di salvare l’immediatezza della “preferenza estetica”,

riducendola a qualcosa però di semplicemente sensoriale-percettivo, deprivandola

delle analogie con il “sense of humor” o il “senso erotico”, spostandola dallo “spazio

delle ragioni” in quello delle cause naturali. Avviato il discorso su questo binario

sensoriale a) a un “senso estetico”, se esiste, p simile ai nostri sensi esterni e riguarda

le nostre preferenze sensoriali come in tutti gli altri animali b) rientrando nell’ambito

della percezione, è del tutto ininfluente ai fini della “artisticità” di un oggetto c)

l’estetica non è altro che lo studio dei meccanismi percettivi e dunque non ha nulla da

dire sull’arte. Su questo punto, Danto si incontra con percorsi teorici anche molto

diversi, come quello di Ferraris. Nella sua prospettiva l’estetica è genericamente

animale, la percezione non è permeabili a condizionamenti culturali, concettuali,

sentimentali. Ferraris sostiene che l&rsqu

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Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/04 Estetica

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