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Il brutto rientra nella dinamica della produzione del bello, come suo momento. Le possibilità di ricondurre il
brutto alla positività estetica sono affidate al comico: in esso, e in particolare nella conciliazione finale,
nasce una nuova bellezza.
Lotze
Allievo di Weisse, Lotze espone brevemente la posizione di Vischer, che pure al brutto dedicò attenzione. Il
problema del brutto ha a che fare con un’arte che si misura con la desolante realtà umana e naturale del
presente (ad esempio la bestialità dell’uomo, che traspare anche dalla sua fisionomia, o la realtà del mondo
industriale). L’accettabilità del brutto sul piano estetico-artistico resta comunque legata alla sua possibilità
di riscattarsi sul piano del sublime, o di smorzare i propri effetti sul piano del comico.
Karl Rosenkranz. Il movimento dialettico del brutto
Nella sua “Estetica del brutto”, l’hegeliano Rosenkranz mette in risalto la consapevolezza che bello e arte
non coincidono necessariamente, e che il brutto può assurgere a categoria estetica autonoma. Egli afferma
che il brutto risiede nella natura stessa dell’idea che. Il brutto, poi, deve sempre riflettersi nel bello, nel
quale trova la condizione della sua esistenza. Scopo dell’arte è il bello, un “assoluto”, di contro al brutto che
è solo un “relativo”.
Rosenkranz distingue il brutto dal negativo, che nella sua astrazione non ha forma sensibile; al contrario il
brutto, proprio perché negazione del bello, ne condivide l’elemento sensibile.
Esiste un possibile riscatto del brutto: la caricatura, forma d’arte popolare che può ristabilire armonia. La
caricatura consiste nella manifestazione suprema del brutto, che si scontra da una parte con il bello e
dall’altra con il comico. Anche Rosenkranz, quindi, pone al vertice della produzione artistica lo humour. Il
comico infatti ha la capacità di esprimere la libertà e, attraverso la serenità del riso, anche il male e il
brutto.
D’altra parte, il brutto può anche essere redento. È Adorno, con una prospettiva che ribalta quella di
Rosenkranz, a sostenere la necessità di un salvataggio estetico del brutto. Per Adorno il brutto, che appare
dissacratore, risulta molto superiore al bello, che si riduce a mera convenzionalità.
Victor Hugo. Il grottesco e il mostruoso come essenza del reale
Lo strumento che Hugo impiega per indagare l’arte e la natura è il grottesco. Esso, poiché ingloba il
mostruoso, il deforme, l’eccessivo, il caricaturale e il ridicolo, si innalza a vera e propria categoria estetica.
Egli scorge nel grottesco la manifestazione del moderno, lo strumento che rende possibile la
rappresentazione della globalità, intesa come poetica della totalità. Il grottesco è il contrapposto del
sublime, è la sintesi inconciliata dei contrasti del reale, di cui il mostro è la manifestazione. Il grottesco è un
genere di rottura, d’innovazione.
Hugo, nella Prefazione al Cromwell, identifica tre età:
o Età primitiva: l’infanzia del genere umano è dominata da una poesia che è fantasticheria e sogno;
la realtà è sogno stesso.
o Età antica: vi si giunge a causa dei movimenti socio-politici (nascono le nazioni e i re). La poesia da
lirica diventa epica con Omero.
o Età moderna: il passaggio all’età moderna è segnato dal cristianesimo, che rivela all’uomo la verità:
gli mostra che è duplice e quindi mostruoso, come duplice e mostruoso è il suo destino. Mentre il
classicismo, ingannatore, nascondeva la figura umana sotto false semplificazioni, il cristianesimo
mette in luce la frattura e la complessità dell’uomo.
L’homo duplex scopre quindi la sua doppia identità nel moderno. In tal modo Hugo espone l’estetica dei
contrasti. Per i classici, l’umanità si pone tra i due estremi del sublime e del grottesco. Per Hugo, invece,
l’umanità non si colloca tra i due estremi, bensì li incarna tali estremi, prima di trasformarsi o in angelo o in
bestia. L’uomo è interiormente lacerato nella duplice dimensione angelica e bestiale. L’esempio migliore è
Quasimodo, corpo deforme che racchiude un’anima sublime. 11
L’importanza del grottesco è sottolineata da Hugo a partire dal cristianesimo, per espandersi nel Medioevo,
giungendo a piena maturazione nel Rinascimento con i suoi tre Omeri Buffoneschi: Ariosto, Cervantes e
Rabelais. Il grottesco si fonde così con il buffo e con il “corpo caricaturale”.
Mostro sublime e sublime mostruoso.
Hugo vede in Shakespeare, “mostro sublime”, il genio antitetico per eccellenza, colui che riassume nella sua
essenza prettamente umana il massimo quantitativo di assoluto concesso all’uomo. Egli ridona all’arte
l’essenza della natura. E se il genio coglie l’essenza bipolare della natura, significa che egli possiede in sé il
principio costitutivo della natura stessa.
Il genio shakespeariano, come Dio, può creare; in lui si incarna il mito romantico del genio, che trae dalla
natura un mondo nuovo e nello stesso tempo, usando il grottesco, inventa forme espressive in continuo
rinnovamento. Shakespeare è il genio grottesco, il genio del contrasto, e, come Dio che si esprime nella
realtà, è il luogo dell’antitesi.
La maschera.
La maschera è ciò che si manifesta, l’interiorità che diventa esteriorità. La maschera dei personaggi
drammatici, al contempo sublime e grottesca, rappresenta la verità del moi. La maschera è il segreto
disvelato della personalità dei protagonisti del dramma. Non vi è nessuno sguardo introspettivo che non
venga mostrato, tutto è alla luce del sole: è tale apparenza che turba, perché mostra che, al di là di se
stessa, non è pensabile l’esistenza di nessun’altra realtà. Infatti, quando il personaggio e i suoi segreti
vengono messi a nudo, egli non può fare altro che chiedere di venire riconosciuto per quello che
manifestamente è.
L’ostentazione della deformità della maschera mette a nudo e distrugge l’anima. Il personaggio hughiano,
scisso in polarità inconciliabili, si rivela mostruosamente doppio. E la mostruosità non è mai camuffata, ma
ostentata.
Come nel melodramma, anche in Hugo il gioco del contrasto è spinto all’eccesso. Tuttavia, se il
melodramma mette in luce i termini del conflitto offrendo anche la chiave per risolverli, nel dramma di
Hugo l’ostentazione del contrasti non conduce ad una riconciliazione che implichi la prevaricazione di una
polarità sull’altra. La visione hughiana, tuttavia, trasforma l’antitesi in una forza unificatrice: l’opposizione
dei contrasti, infatti, non è un principio di disgregazione, ma un elemento di armoniosa relazionalità.
Il grottesco in Hugo è rappresentato dagli stessi protagonisti, dai paesaggi, dalle trame. Un esempio è
“Notre-Dame de Paris”, dove il deforme è il criterio determinante in tutta la narrazione. Lo spettacolo
dell’elezione del “Papa dei pazzi” vede tutte le forme dell’umana bruttezza, dove la deformità è sinonimo di
burla. Il grottesco coinvolge tutto, e plasma i corpi come le architetture. Quasimodo è un tutt’uno con la
cattedrale, a sua volta unione di grottesco e sublime. La sua natura è ibrida, e da ciò risulta una creatura
mostruosa.
Mentre in “Notre-Dame de Paris” il grottesco modella le forme umane, le strutture architettoniche e i
sentimenti dei personaggi, in altre opere teatrali il grottesco si manifesta non solo nel moi mostruoso (cioè
nel doppio ruolo del protagonista), ma in tutto l’impianto narrativo.
Amare il mostro.
Nella creazione artistica, i contrasti convivono e si sviluppano, perché l’arte rende sublimi le antitesi. Così,
come l’arte è il luogo delle antitesi e il dramma è la loro rappresentazione, i personaggi di Hugo rivelano,
nel loro moi, la convivenza dei contrasti. Ciò che li determina come personaggi è proprio la loro essenza
mostruosa e duplice. La grande lotta dei personaggi di Hugo risiede nel tentativo di essere riconosciuti,
accettati e persino amati per quello che sono, cioè mostri.
Complessa è la figura di Gwynplaine, amato da due donne: Josiane e Dea. Josiane coglie nella mostruosità
di Gwynplaine qualcosa di primordiale, di mostruosamente grande e sublime. Amare il mostro, per lei,
significa possedere carnalmente il mistero della creazione. Gwynplaine non è ancora il moi, cioè l’unione
dell’anima al corpo deforme, ma è mostruosità allo stato puro.
Tuttavia è dal caos, cioè dalla mostruosità pura e primordiale, che deve emergere il cosmos; è questo il
principio del grottesco. Armonizzare i contrasti non significa riappacificarli, ma farli convivere in un perenne
contrasto, che tuttavia non è mai contraddittorio. 12
Dopo un faticoso viaggio interiore, Gwynplaine giunge ad una sorta di teratologia (=studio della
mostruosità) cosmica, nella quale vede immersi l’uomo e la natura. Essa suscita nostalgia, sveglia il
desiderio di Gwynplaine di ricongiungersi a ciò che ha perduto: l’amore di Dea.
Il demonio Josiane è necessario tanto quanto l’angelo Dea. Il sublime, infatti, deve nascere dal mostruoso,
come il cosmos dal caos. Non a caso Dea ha le qualità della vergine e della sacerdotessa, di colei che ignora
l’uomo ma conosce Dio; privata della vista, ma dotata della chiaroveggenza, prescinde totalmente
dall’aspetto esteriore per cogliere la bellezza dell’anima del suo amato.
Tetralogia compositiva.
Per conoscere e dominare il caos è necessario riconoscere e amare il mostro. L’arte, sublimando il
mostruoso, lo accetta nella sua dimensione più pura, in tutto il suo mistero. Il mostro non è più dunque
l’eccezione, ma diventa principio di regolarità, armonizzante e antinomico.
Secondo Hugo, il mistero della creazione non si ricompone semplicemente, ma si complica in infinite
contraddizioni, si riempie di mostri e giunge al sublime. Hugo identifica l’universo come una perenne
creazione, in continuo rinnovo nell’antinomia, che è lo strumento del quale Dio si serve per ordinare il caos
in cosmos. L’universo di Hugo non è semplice e coerente, ma è un mostro che, al contempo, nasconde e
rivela la presenza infinita di Dio. L’infinito è contemporaneamente fuori e dentro l’uomo, che ne è il
rispecchiamento. L’analogia dell’antinomia, mostruosa, lega il mondo all&r