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LA FILOSOFIA COME MANIERA DI VIVERE
“Tutti coloro che si esercitano nella saggezza, astenendosi volontariamente dal commettere
ingiustizia, evitano le relazioni con la gente intrigante e condannano i luoghi che frequentano
questi individui. Questi aspirano a una vita di pace e serenità.”
Questa è una frase tratta da un testo di Filone di Alessandria, De specialòbus legibus, ispirato allo
stoicismo, in questo testo appare uno degli aspetti fondamentali della filosofia dell’epoca ellenistica
e romana: è una maniera di vivere. La parola philo-sophia bastava per esprimere questa
concezione della filosofia agli antichi. Così la filosofia appariva come un esercizio del pensiero.,
era un metodo di progresso spirituale. La saggezza era un modo di vita che apportava la
tranquillità dell’anima o atarassia, la libertà interiore o autarchia. La filosofia si presentava come
una terapia destinata a guarire l’angoscia. Per spiegare meglio come la filosofia fosse un modo di
vivere, forse è necessario ricorrere alla distinzione che proponevano gli stoici fra il discorso sulla
filosofia e la filosofia stessa. Per gli stoici le parti della filosofia, ovvero la fisica, l’etica e la logica,
non erano parti della filosofia stessa, ma parti del discorso filosofico. Infatti quando si trattava di
insegnare la filosofia, si doveva proporre una teoria logica, fisica ed etica. La filosofia stessa non è
è più una teoria divisa in parti, ma un atto unico che consiste nel vivere la logica, la fisica e l’etica.
La vita filosofica consiste dunque solo nell’applicare ogni istante teoremi che si possiedono, per
risolvere i problemi della vita? Quando si riflette su ciò che implica la vita filosofica, si avverte come
ci sia un abisso fra la teoria filosofica e il filosofare come azione vivente. Nello stoicismo, come
nell’epicureismo, filosofare è un atto continuo, si può definire come un orientamento dell’attenzione
(nello stoicismo l’attenzione è orientata verso la purezza del’intenzione, nell’epicureismo
l’attenzione è orientata verso il piacere, che infine è il piacere di essere). Nell’epoca ellenistica e
romana la filosofia si presenta dunque come un modo di vivere. Gli storici della filosofia prestano
un’attenzione abbastanza scarsa al fatto che la filosofia antica sia anzitutto una maniera di vivere.
Considerando la filosofia soprattutto come un discorso filosofico, ma come si giunge a questo
pregiudizio? Hadot crede che sia legato all’evoluzione della stessa filosofia nel corso del medioevo
e dell’età moderna.
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Parentesi sul cristianesimo:
il cristianesimo ha un ruolo notevole in questo fenomeno; a partire dal II secolo d.C., il
cristianesimo si era presentato come una filosofia, ossia come un modo cristiano di vivere. E se il
cristianesimo poté presentarsi come una filosofia , è confermato he la filosofia fosse concepita
come maniera di vivere, nell’antichità. Per presentarsi come filosofia, il cristianesimo si è dovuto
incorporare elementi tratti dalla filosofia antica, ha dovuto fare coincidere il Logos del vangelo di
Giovanni con la Ragione cosmica stoica, poi con l’Intelletto aristotelico o platonico.
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Dalla fine del XVIII secolo, la filosofia fa il suo ingresso nell’università con Wolff, Kant, Fichte,
Schelling e Hegel, e d’ora in poi la filosofia, tranne alcune eccezioni con Schopenhauer e
Nietzsche, è legata indissolubilmente all’università, come mostrano gli esempi di Bergson,
Heidegger e Husserl. Nell’università moderna la filosofia cambia accezione: da maniera di vivere, il
suo luogo vitale è l’istituzione scolastica dello Stato. Nel XX secolo, la filosofia di Bergson e la
fenomenologia di Husserl si presentano meno come sistemi che come metodi per trasformare la
nostra percezione del mondo.
Ciò che differenzia la filosofia antica da quella moderna è che quella antica propone all’uomo
un’arte della vita, mentre al contrario la filosofia moderna si presenta come la costruzione di un
linguaggio tecnico riservato a specialisti.
La filosofia comporta normalmente un impegno comunitario, probabilmente è il più difficile da
realizzarsi, poiché si tratta di mantenersi sul piano della ragione, a non lasciarsi accecare dalle
passioni politiche, dalle ire, dai rancori, dai pregiudizi. E’ vero che c’è un equilibrio quasi
irrealizzabile fra la pace interiore che procura la saggezza da un lato e dall’altro le passioni che
non può mancare di suscitare la vista delle ingiustizie. Ma la saggezza consiste precisamente di
questo equilibrio, la pace interiore è indispensabile per agire con efficacia.
RIFLESSIONI SULLA NOZIONE DI CULTURA DI SE’
Foucault ha fatto riferimento all’articolo di Hadot, esercizi spirituali. Hadot sostiene che l’attenzione
di Foucault sia stata destata dalla descrizione della filosofia antica come arte del vivere, del
tentativo compiuto in quel contesto di spiegare perché la filosofia moderna avesse dimenticato
questa tradizione e fosse diventata quasi esclusivamente un discorso teorico. Hadot presenta di
seguito alcune considerazioni volte a precisare differenze di interpretazione che esistevano tra noi
e che avrebbero potuto alimentare un dialogo che, sfortunatamente, la morte prematura di
Foucault ha troppo presto interrotto.
Foucault descrive con precisione ciò che egli chiama le “pratiche di sé” raccomandate dei filosofi
storici dell’antichità: la cura di se stessi, l’attenzione al corpo e all’anima che questa cura richiede,
gli esercizi di astinenza, l’esame di coscienza. Egli considera queste pratiche arte di esistenza.
Tuttavia per Hadot la descrizione che Foucault propone di ciò che io avevo chiamato “esercizi
spirituali” e che invece preferisce chiamare “tecniche di sé” sia troppo incentrata sul sé. Foucault
presenta l’etica del mondo greco-romano come un’etica del piacere che si gode in se stessi. Egli
cita la Lettera a Lucilio XXIII di Seneca, il cui tema è la gioia che si trova in se stessi. Ma questa
presentazione risulta piuttosto inesatta. Infatti, Seneca contrappone esplicitamente voluptas e
guadium, piacere gioia, un dato che impedisce di descrivere la gioia, come invece fa Foucault,
come un’altra forma di piacere. Non si tratta solo di un problema di vocabolario: il fatto che gli stoici
pongano l’accento sul termine gaudium, gioia, significa proprio che essi rifiutano di introdurre il
principio di piacere nella vita morale. La felicità per loro consiste nella virtù in se stessa. Lo stoico
non trova la propria gioia nel suo io, ma, dice Seneca, “nella miglior parte di sé”, in una coscienza
rivolta verso il bene.
La miglior parte di sé è quindi, in definitiva, un se è trascendente. Seneca trova la propria gioia
andando al di là di Seneca, scoprendo di avere in sé una ragione. L’esercizio stoico infatti ha lo
scopo di superare il sé. Tre esercizi descritti da Marco Aurelio sulla scia di Epitteto, sono molto
significativi a questo proposito. Foucault ha trascurato questo aspetto. La sua descrizione delle
pratiche di sé non è soltanto uno studio storico, ma si propone implicitamente di offrire all’uomo
contemporaneo modello di vita. Per il momento bisogna dunque dire sembra difficile ammettere
che la pratica filosofica degli stoici e dei platonici fosse soltanto un rapporto con se stessi. Il
contenuto psichico di questi esercizi sembra ad Hadot radicalmente diverso. Il loro nucleo
essenziale risiede, per Hadot, nel senso di appartenenza una Totalità. Seneca riassume questo
concetto con quattro parole “Toti se inserens mundo.”
Foucault parla ben poco degli epicurei. Questo è un dato che appare ancora più inatteso, se si
considera che l’etica epicurea è un’etica senza norme. La ragione di questo silenzio risiede forse
nel fatto che è piuttosto difficile far rientrare l’edonismo epicureo nello schema generale dell’uso
dei piaceri proposto da Foucault. L’epicureo non ha paura di ammettere di aver bisogno di altro,
oltre a se stesso, per soddisfare i propri desideri e provare piacere che gli è proprio. È necessario
frequentare gli altri membri della scuola epicurea per trovare la felicità nell’affetto reciproco. Gli
occorre la contemplazione dell’infinità degli universi nel vuoto infinito per provare ciò che Lucrezia
chiama “divina voluptas et horror”. Si assiste, nell’epicureismo, a uno straordinario ribaltamento di
prospettiva: l’esistenza appare all’epicureo come un puro caso e considera l’esistenza come una
festa meravigliosa. Foucault ha scritto un interessante articolo dal titolo la “scrittura di sé”, che del
resto prende le mosse da un testo importante sul valore terapeutico della scrittura che Hadot
aveva esaminato nei suoi esercizi spirituali. “Che la scrittura stia dunque al posto dell’occhio altrui”,
diceva Antonio. Questo aneddoto conduce Foucault a riflettere sulle forme che ciò che egli chiama
“la scrittura di sé” aveva assunto nell’antichità. Foucault ne definisce in questo modo lo scopo: si
tratta di conquistare il già detto, di riunire quello che si è potuto ascoltare a leggere, e questo
niente meno che per la costituzione del sé. Egli si domanda allora “com’è essere messi in
presenza di se stessi dal soccorso di discorsi senza età e raccolti un po’ dappertutto?” Ecco la sua
risposta: “questo esercizio permetterebbe di fare ritorno al passato.” Negli storici negli epicurei
attribuivano valore positivo al passato: fondamentale consiste nel vivere il presente, nel possedere
il presente, non è passato. Ma, se gli ύποµνήµατα concernono il già detto, non si tratta di un già
detto qualsiasi; il fatto è piuttosto che in questo già detto si riconosce ciò che la ragione stessa dice
nel presente, si riconosce, in questi dogmi di Epicuro o di Crisippo, un valore sempre presente,
precisamente perché essi stessi sono espressione della ragione. In altre parole, scrivendo e
notando non ci si appropria di un pensiero altrui ma si utilizzano formule giudicate appropriate per
attualizzare, per rendere vivo ciò che è già presente all’interno della ragione di colui che scrive.
Foucault ritiene che quest’esercizio sia volontariamente eclettico e implichi pertanto una scelta
personale. Ma,