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NELLO SGUARDO DELLE VITTIME (cap.3)
Dare tempo nel soffrire
Tra le baracche di un campo profughi è presente una rete di gesti concreti
legati principalmente ai bisogni e alle necessità. Qui i ragazzi e le giovani
donne a volte parlano del partire e dell’andare lontano, ma pochissimi parlano
del ritorno.
È qui che gli educatori e i servizi intervengono per cercare di allontanare tutti
violenza,
questi uomini e donne dal legame che hanno con la cercando così di
restituire loro una speranza che li porti verso il vivere un altro tempo.
Nel tempo che questi educatori donano all’altro si svolge l’esperienza della
ricapitolazione = esperienza del riprendere i tempi e passaggi della vita,
prendendone cos’ distanza per poi ritesserne i fili. Solo se questa
ricapitolazione avviene si può andare avanti nel futuro; essa avviene grazie ad
fiducia cura
atti di e di .
Tuttavia riunificare i tempi e il passato è doloroso per chi ha vissuto la frattura e
subito violenza; infatti la memoria appare molto dolorosa e il futuro non
rappresenta un luogo di speranza e fiducia poiché il presente è ricco di
solitudine e di amarezza → l’obiettivo principale in queste situazioni sarebbe
quello di tornare ad accogliere la parte di sé stessi non ancora scoperta.
La cura (fatta dagli educatori o da coloro che collaborano nel campo) si rivela
essere il dare ancora tempo alla formazione dell’uomo, alla trascendenza; è
necessario far capire all’uomo ferito che il male e il negativo non è un atto
primo e le ferite possono fungere da esperienze conoscitive e di
approfondimento del proprio sentire.
Accade anche che chi si sente consumato e finito, chi ormai porta con sé la
cristallizzazione di un Io interiore chiuso, decide di non voler più sentire → a
volte gli educatori e i volontari si rendono conto infatti che quello che si mette
in atto, nei confronti degli altri portatori di storie di fragilità e dolore,
rappresenta una sorta di invasione e che le vittime possono provare solo
dolore in questo (poiché sviluppano una grande resistenza che non consente di
accettare il dolore o che qualcuno, come un educatore, voglia appropriarsene al
posto suo). Il volontario, l’infermiere o lo psicologo non potranno mai essere al
posto di chi soffre; al massimo essi si possono mostrare vicini, senza obbligare
alla relazione. L’educatore deve accettare che a volte la relazione può non
instaurarsi.
Scendere nelle viscere
vulnerabilità
La di chi è ferito nel corpo, di chi è scosso nei sentimenti e nelle
relazioni; ma anche di chi è portatore di grandi saperi, tecniche e capacità
richiama una grande sobrietà del fare, del conoscere e del sentire. In questa
sobrietà è contenuto il significato del sentire l’altro.
Questo sentire può essere anche il senso di colpa che si prova anche quando
non esistono colpe imputabili o responsabilità.
Curare essere curati
è sempre fare un po’ male ed è mettersi nelle mani degli
altri; ciò rappresenta una via di iniziazione → in questa iniziazione si ritrova
l’umiltà, l’incompiutezza e l’impotenza di uomini e donne capaci e ancora
vulnerabili. Tutti i saperi, le tecniche, le terapie, le didattiche e le cure si
trovano a doversi declinare come cammini di vicinanza e prossimità perché si
possa dare un nuovo inizio (a relazioni o speranze).
Provare a restare nell’incontro con l’altro dopo la ferita o dopo un tradimento
sentire
comporta sempre sofferenza e chiede di tornare a → in questi anni ci si
interroga sul destino del sentire, tanto che risultano evidenti segni di una
atrofia del sentire, si un’incapacità di provare affetti che alimentino legami tra
uomini e donne = atrofia che conduce all’insignificanza (Castoriadis).
Coltivare un sentire attento rappresenta un certo senso di responsabilità.
Occorre pertanto ritirarsi per dare spazio al rispetto, alla realtà e agli altri. Solo
da questo ritirarsi può nascere la conoscenza (come dice Romano Guardini).
La conoscenza non è solo riconoscere il valore di qualcosa, ma bensì
rappresenta il sentire l’altro.
Uno sguardo che chiede tutto
Lo sguardo della vittima chiede tutto, poiché gli è stato tolto tutto; ovvero la
fiducia nella fragilità e nella vulnerabilità della cura/tutela/giustizia. Essi sono
lato oscuro della vulnerabilità
stati esposti alla violenza che ha mostrato il fatto
di forza e disprezzo. Gli sguardi delle vittime appaiono lontani, bisognosi e
invasi dall’ombra della violenza che li ha portati lontani dall’incontro con l’altro.
La vulnerabilità legata alla fragilità espone verso la possibilità di una ferita che
curata
chiede di essere → per questa ragione, oggi, la grande sfida è proprio
quella di costruire una convivenza tra uomini a partire dalla vulnerabilità, che
porti ad un riconoscimento e una dipendenza reciproca.
Tuttavia può accadere anche che un uomo o una donna feriti e vulnerabili
possano restare in balia del potere dell’altro e del male.
Lo sguardo della vittima ripiega la conoscenza e l’intenzionalità
dell’operatore/volontario/medico, che cerca di progettare e di riparare
applicando trattamenti e terapie; fa questo per avvicinare queste figure alla
vittima usando l’ascolto e mostrando fraternità, al posto che conoscenza.
ansioso
Lo sguardo diviene anche , come quello di un padre, che prova ansia
nel dare alla luce un figlio nel tempo dell’incertezza e della durezza → nel fare
ciò sente su di sé un grande senso di colpa e di inadeguatezza e si preoccupa
di amare esso ed educarlo nonostante tutte le guerre tecnologiche, il
terrorismo o la morte per fame che incombono nel mondo odierno.
Infatti il tempo d’oggi è anche un tempo in cui ci si preoccupa per una nuova
vita che nasce nell’abbandono, per le vittime e per gli uomini feriti e forse è
proprio questa preoccupazione che salverà l’uomo dall’indifferenza del dolore e
della violenza.
Fraternità come possibilità
La fraternità si ritrova nella vicinanza/alleanza tra uomini “stranieri”
accomunati dalla violenza e dalla ferita; essi scelgono di unirsi tra vulnerabili
per non lasciare nessuno nella solitudine. Questa vicinanza/alleanza tra uomini
vulnerabili e capaci si basa sull’obbligazione e sul riconoscimento reciproco →
fanno ciò per cercare di contrapporsi alla violenza, denunciandola e curandola.
Questi uomini, nella loro alleanza, però non si vedono uguali → è indispensabile
disuguaglianza
vedere e mantenere la diversità e la di ognuno.
Alla base di tutte queste violenze vi è l’offesa → tra l’offensore e l’offeso si
instaura un rapporto ineguale e tanto più grande sarà il potere dell’offensore
nei confronti dell’offeso, tanto più quest’ultimo avrà difficoltà ad esprimere la
sua sofferenza, che si radicherà nel profondo della vittima. Rivivere e ritrovare
questa offesa risulta un passaggio fondamentale per provare dentro di sé la
rimessa del proprio debito e scacciare questa offesa. Se nella vittima ciò non
accade, l’offesa verrà vista come una colpa che impedirà di provare amore per
sé stesso e per gli altri.
L’intelligenza della pietà
Le vittime si allontanano dal sentire sé stessi e, più in generale, dal sentire.
Fanno ciò perché si sentono minacciate e ferite e per questo, per loro, essere
viste impotenti dallo sguardo degli altri diviene una cosa insostenibile (gli occhi
delle vittime di violenza e di dolore risultano svuotati e incapaci di vedere).
vedere senza essere visti
Si sostiene che il potere derivi dal fato di ;
sottratti dallo sguardo altrui si può godere di un esercizio del proprio sguardo
che scruta e vede senza che l’altro lo sappia e possa di conseguenza sottrarsi a
ciò → questo è lo sguardo di un potere impudico, ovvero uno sguardo cieco
che non è capace di contemplare, riconoscere e rispettare.
Lo sguardo impudico è caratteristico di donne e uomini vittime che vogliono
evitare di essere visti nella propria debolezza (essi non vogliono e non riescono
più a sentire).
Rimane tuttavia che l’incontro tra uomini e donne mostra l’intimità e
l’invocazione alla cura amorosa; infatti non risulta possibile per l’uomo patire in
solitudine il peso della violenza → si prova così a ricostruire una relazione con la
vittima, non guardando la sua vulnerabilità estrema, ma mostrando la propria
vicinanza col fine di ricostruirne la dignità e la libertà.
Tornino i volti: l’esilio e l’infanzia
Secondo Emmanuel Lévinas il volto dell’altro rappresenta originalità, unicità;
ma anche mistero. È il volto dell’altro che mi chiama nella due dimensioni:
elegge
1. Mi unico
ordina
2. Mi di rispettarlo e di non ferirlo
Il volto chiede infatti di essere riconosciuto e non lasciato soffocare nella
nell’incontro con l’altro
sofferenza. È pertanto (che richiama capacità e
responsabilità da parte dell’altro) che si può ridisegnare il rapporto col tempo/il
ritmo nuovo interiore. tempo
Solo curando, ascoltando ed educando si dà il → la vittima non può
essere riportata ad un tempo normale e guarito; esso ha bisogno di un tempo
nuovo su cui ridisegnare il proprio cammino.
Solo con “l’intelligenza della pietà” ci si può avvicinare alle vittime che si
sentono abbandonate.
pratica della pietà
La può far ritrovare un pensiero capace di non lasciare gli
uomini e le donne vittime, soli ed incapaci di trattare e incontrare le proprie
ferite. Un sapere che tiene conto dell’intelligenza della pietà sa operare vicino
alla vittima e al colpevole → l’uomo ha bisogno dell’altro anche per la propria
libertà.
L’INCONTRO NELLA CURA (cap.4)
L’esperienza umana della cura
Nella realtà della medicina d’emergenza, ma anche nei servizi di riabilitazione
la cronicità, la terminalità, i paradigmi della biomedicina, i suoi protocolli
terapeutici e le sue spiegazioni subiscono una torsione → essi devono stare di
fronte alla morte, in tutta la sua durezza.
fiducia
Il patto di cura è basato sulla , che si negozia e si alimenta nella
relazione che si deve protrarre nel tempo. I ge