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Lo stesso Tribunale ha poi respinto il ricorso di youtube. Siamo nel 2010.
• Mediaset vs google: nel 2011 il Tribunale di Roma stabiliva che i provider non sono
responsabili per i contenuti caricati dai loro utenti. Quindi in merito al ricorso di
mediaset contro google perché un portale avrebbe effettuato lo streaming di patite
di calcio del campionato di serie A trasmesse dai canali mediaset. In seguito a notifica
a google il contenuto violato era stato rimosso ma non esisteva violazione del diritto
d’autore da parte della piattaforma web.
• Google news: si è sostenuto che le modalità con cui si da visibilità ai contenuti
giornalistici nel portare google news amplifica le capacità di un editore online di
attrarre utenti ma prevede anche un abuso di posizione dominante di google (sulla
scelta degli articoli da mostrare) con effetti distorsivi sul mercato
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dell’intermediazione pubblicitaria online. Un editore che avesse deciso di non
rendere i propri contenuti disponibili su google news, essi sarebbero stati esclusi
anche dal motore di ricerca google web research (e quindi avrebbero dovuto
rinunciare agli introiti pubblicitari che la consultazione produce). Google web
research è determinate per la capacità di un sito web di attrarre visitatori. Si è
contestato a google la forza di leadership detenuta nella fornitura di servizi di ricerca
online. Google non è stata dichiarata scorretta ma ha preso comunque impegni
dando agli editori maggior potere nel decidere se far pubblicare o meno gli articoli su
google news e rendere note le quote di ripartizione dei ricavi del sistema pubblicità
online.
• Break e Kewego: il Tribunale di Roma ha condannato la piattaforma digitale
americana break e quella francese kewego a risarcimento danni a favore di mediaset
per l’abusiva diffusione di video estratti dai programmi mediaset. Si è stabilita inoltre
responsabilità civile di chi pubblica contenuti caricati dagli utenti e tratti dai
programmi televisivi. Non ci si può avvalere dell’esenzione di responsabilità di cui
godono gli hosting provider perchè queste piattaforme sono aggregatori che utilizza i
contenuti messi a disposizione del pubblico per alimentare il propio business ha ruolo
attivo (ruolo passivo dell’intermediari tecnico non attribuibile). Le attività di
ottimizzazione e promozione di dati e informazioni degli utenti di internet fanno
perdere al provider il requisito di neutralità, non ci si può avvalere dell’esenzione di
responsabilità (come stabilito anche dalla direttiva 2003/31/CE in cui l’hosting attivo
deve rispondere dell’attività illecita dell’utente tutte le volte in cui opportunamente
informato delle violazioni dei diritti dal titolare di essi omette di attivarsi per
impedire il protrarsi dell’attività illecita).
[nel 2016 in Italia, Google e la Federazione italiana editori giornali hanno siglato un accordo
strategico triennale di collaborazione volto a promuovere un approccio innovativo per la
stampa italiana nell’era digitale. Google si impegna a riconoscere il valore economico dei
contenuti che viaggiano in rete e mette a disposizione le sue piattaforme per favorire la
diffusione delle notizie nell’interesse di giornalisti, editori e utenti. Il tutto con condivisione
di ricavi tra Google e gli editori che aderiranno all’intesa. La tecnologia monitorerà le
violazioni di copyright e permetterà a Google di rimuovere automaticamente i contenuti
diffusi illecitamente]
CAPITOLO SETTIMO: diritto all’oblio, cancellazione e contestualizzazione delle notizie in
rete
1. Oblio, cancellazione e contestualizzazione: concetti dinamici. I dati personali sono
diventati una risorsa strategica per molte imprese che sviluppano il proprio business sulla
raccolta, aggregazione e analisi dei dati dei propri clienti, attuali e potenziali. Le
informazioni in rete su ciascuno di noi rappresentano ormai la valuta dell’attuale mercato
digitale e c’è chi le ha già ribattezzate il petrolio dell’economia digitale. Google e gli altri
motori di ricerca setacciano il web e aggregano contenuti prodotti da altri, indicizzandoli
secondo criteri algoritmici. Anche quando i siti-sorgente sono messi offline, c’è sempre
una versione in cache e quindi i dati in essi contenuti sono in qualche modo recuperabili.
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Sulla permanenza in rete di informazioni che ci riguardano si gioca il nostro spazio di
libertà, tutela dell’identità digitale e autodeterminazione informatica. Oggi la tecnologia
consente di raccogliere una quantità sterminata di dati, il che aumenta i rischi per i diritti
degli individui e per il nostro io elettronico. Il diritto all’oblio è una delle frontiere mobili
della tutela di quei diritti e si sta affermando progressivamente in Europa pur con
difficoltà applicative -> diritto ad essere dimenticati, diritto alla riservatezza, diritto
all’identità personale (diritto a vedersi rappresentati in modo da riflettere la propria
attuale dimensione personale e sociale, e di conseguenza a non essere rappresentati in
maniera non più corrispondete a quella. Il concetto di diritto all’oblio rivoluziona l’uso
della memoria collettiva -> l’informazione immessa nella rete è resa accessibile dai
motori di ricerca così: immediatamente, universalmente, per sempre, inesorabilmente.
La proiezione dell’identità dell’individuo nell’infosfera e nel cyberspazio sfugge al suo
potere di autodeterminazione. Il profilo è ricostruito con l’aggregazione della molteplicità
dei dati personali disseminati in rete.
2. Capisaldi giursprudenziali europei per motori di ricerca e siti-sorgente: la Convenzione
europea del 1950 garantisce la libertà d’espressione e riveste gli archivi web dei giornali
di valore storico e centrale per la società democratica -> rimuovere qualsiasi articolo
dell’archivio di un sito web equivale a censura. Tale imposizione è stata completamente
ribaltata dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 del 2014
che ha riconosciuto il diritto all’oblio. Si è attribuito a Google e ai gestori dei motori di
ricerca la qualifica di responsabili del trattamento dei dati personali, con il conseguente
obbligo di indicizzare i link contenuti nella relativa pagina web, a richiesta del titolare di
quei dati. L’attività dei colossi del web ha dunque una sua rilevanza autonoma:
localizzare le informazioni pubblicate o messe online da terzi, indicizzarle in maniera
automatica, memorizzarle temporaneamente e metterle a disposizione degli utenti di
internet secondo un determinato ordine di preferenze sono operazioni che costituiscono
un trattamento di dati personali. I giudici europei hanno valutato decisivo il fatto che
l’accessibilità per gli utenti alle informazioni in rete avvenga sulla base di dati trattati
secondo i protocolli decisi dal motore di ricerca. La critica a questo fatto sorge nel
momento in cui si considera il potere discrezionale dei motori di ricerca e di chi li
controlla a tracciare la linea di confine tra diritto all’informazione e diritto alla privacy.
Sarebbe decisamente più rassicurante per le tutele dei cittadini se la valutazione dei
singoli casi spettasse all’Autorità giudiziaria o alle Autorità di controllo. Nella sentenza si
stabilisce che il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco dei
risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona,
dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa
persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o
simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche
quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sè lecita -> la rimozione del link
dal motore di ricerca non comporta alcun obbligo per i siti-sorgente ai quali i link
rimandano, e che posso decidere come gestire i dati personali in loro possesso senza il
consenso del titolare. La relativa pagina può dunque essere mantenuta visibile sui singoli
siti di informazione, ove conservi la sua attualità, l’interesse del motore di ricerca di
perseguire il suo business e l’interesse dei terzi ad essere informati. Gli interessati
possono eventualmente agire in parallelo per ottenere anche dagli editori di quei siti web
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la cancellazione delle informazioni che li riguardano. L’accoglimento della richiesta
formulata al motore di ricerca
comporta solo il delinking o delisting (cancellazione del link contenuto nella striscia che
compare come riposta all’interrogazione e che rinvia al sito-fonte dove la notizia o
informazione è concretamente accessibile). Si pone dunque una dialettica interessante
tra il diritto dell’informazione e la deindicizazzione -> l’indicizzazione di una notizia con il
passare del tempo può divenire non più pertinente alle finalità che ne hanno giustificato
l’indicizzazione, pertanto ogni suo ulteriore trattamento diventa illegittimo. Subito dopo
la sentenza del 2014 Google è stata subissata di richieste di rimozione di link: sta
gradualmente ottemperando a quest’obbligo sulla base di valutazioni specifiche caso per
caso. Google comunica ai siti-fonte l’avvenuta deindicizzazione limitatamente alle
richieste accolte, ciò però simile i siti-fonte a tornare ad occuparsi di quell’argomento e
quindi a riattualizzare il link facendo in modo che sorgano delle finalità per reindicizzare il
link. Un meccanismo perverso. Chiariamo i punti cruciali di tale svolta giurisprudenziale:
• Il riconoscimento del diritto all’oblio si traduce nel diritto alla rimozione dei link
catalogati dai motori di ricerca e non delle informazioni di base contenute nei siti
sorgente. L’azione di Google è unilaterale: i siti-sorgente che subiscono l’oblio non
possono obiettare e la discrezionalità del motore di ricerca nel valutare le richieste di
cancellazione dei link è totale.
• La domanda di rimozione dei link va inoltrata al motore di ricerca compilando il
modulo online di Google dando prova dell’autorizzazione legale. Non è una
procedura simile a quella della “notifica e rimozione” che sussiste nei casi di
violazione dei diritti d’autore, quindi non c’è nessun fondamento normativo e
nessuna forma di difesa in capo al soggetto che ha pubblicato il contenuto
“incriminato”.
• Il diritto all’oblio vale solo per i contenuti inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti o
eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati pu