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L’Albo era comporto di 3 elenchi: quello dei praticanti (i cui iscritti esercitavano
l’attività giornalistica da meno di 18 mesi o non avevano ancora compiuto 21
anni), quello dei professionisti (nel quale potevano essere iscritti i maggiorenni
che avessero esercitato il periodo di pratica di 18 mesi) e quello dei pubblicisti
(maggiorenni che esercitavano l’attività giornalistica non in via esclusiva).
L’iscrizione all’Albo era, tuttavia, vietata per coloro che avessero svolto una
“pubblica attività contraria agli interessi della Nazione”.
Il deposito e la gestione degli Albi doveva avvenire presso la cancelleria
dell’Ordine dei giornalisti, ma, non essendosi esso mai effettivamente istituito,
le sue funzioni furono esercitate dal Sindacato nazionale fascista dei giornalisti.
Inoltre, con l’approvazione del nuovo codice penale del 1930 (altrimenti detto
“codice Rocco”), la responsabilità civile del direttore del periodico subisce,
nell’articolo 57, un’estensione sul piano penale: si parla ora di responsabilità
oggettiva per fatto altrui, per la quale il direttore viene punito insieme all’autore
dello scritto “con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non
eccedente un terzo”.
La disciplina si arricchisce, inoltre, di fattispecie criminose (per le quali prevede
pene più gravi) che consentono la repressione di ogni forma di dissenso politico,
come:
• i reati di vilipendio (della Nazione, dei culti ammessi, della Corona, del
Governo, del Gran Consiglio del Fascismo, del Parlamento, delle Forze
Armate e dell’ordine giudiziario),
• l’apologia di reato,
• l’istigazione dei militari alla disobbedienza alle leggi
• o la pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose, destinate a
turbare l’ordine pubblico.
Molti dei reati introdotti in questo periodo hanno rallentato l’attuazione del
dettato costituzionale, essendo incompatibili con i principi del nuovo
ordinamento, che, sebbene sembri consentire la repressione del dissenso
politico grazie ad un imponente apparato sanzionatorio, circoscrive in realtà
l’area dei comportamenti punibili. Condanne frequenti si registrano infatti solo
nei casi di hate speech, ossia quelli connessi alla discriminazione razziale ed
etnica, che assume carattere penalmente rilevante se le affermazioni sono
diffuse in un contesto che le renda pericolose poiché in grado di favorire la
rinascita della dittatura o sollevare moti razzisti.
La riforma della legislazione di pubblica sicurezza, invece, si compì in 2 fasi:
• con il testo unico del 1926, vengono recuperate
o la licenza di polizia per l’esercizio dell’arte tipografica (estesa ad ogni altro
mezzo di diffusione del pensiero),
o e quella per l’affissione o distribuzione di stampati e manoscritti (a cui non
vengono sottoposti quelli delle autorità pubbliche o ecclesiastiche);
• con il testo unico del 1931, invece, si istituiscono le licenze per l’uso di mezzi
di diffusione del suono e per l’affissione di manifesti cinematografici.
Inoltre, il sequestro degli stampati, da strumento repressivo azionabile dal
giudice, diventa strumento amministrativo di intervento preventivo, da
sottoporsi solo successivamente ad accertamento giudiziale. Infatti,
• il testo unico del 1926 prevede il potere di intervento dell’autorità di pubblica
sicurezza nei confronti di scritti o stampati contrari agli interessi nazionali.
• Il testo unico del 1931, successivamente, autorizzerà l’autorità di pubblica
sicurezza ad intervenire in presenza di scritti che, a suo giudizio, siano
contrari agli ordinamenti politici, sociali o economici.
Durante il regime fascista, nella prima metà degli anni ’30, il Ministero delle
Corporazioni introdusse la prima forma istituzionalizzata di sostegno economico
alla stampa, attraverso l’Ente nazionale cellulosa e carta, nato nel 1933, ossia
con un’azione protezionistica a sostegno delle imprese editrici, realizzata grazie
all’integrazione del prezzo della carta a copertura della differenza tra il prezzo
interno e quello delle case produttrici estere.
I controlli sul contenuto dell’informazione stampata avvenivano, invece, ad
opera della Presidenza del Consiglio, presso la quale, nel 1923, venne istituito
l’Ufficio stampa, che forniva le “istruzioni alla stampa”, ossia le informazioni
politiche ufficiali che allineavano la stampa agli indirizzi del regime, anche grazie
all’agenzia Stefani, l’unica autorizzata dal Governo a fornire agli organi di
stampa la cosiddetta “informazione primaria”. L’Ufficio stampa sarà sostituito,
nel 1934, dal Sottosegretariato alla stampa e alla propaganda, che diventerà,
nel 1935, il Ministero per la Stampa e la propaganda, rinominato, nel 1937 il
Ministero della Cultura popolare, o “Min.cul.pop.” (non più finalizzato al controllo
della sola stampa).
Dopo la caduta del fascismo, l’Italia vive la cosiddetta “sovranità limitata” dalla
presenza di potenze alleate, come testimoniato,
• nel 1944, dalla reintroduzione dell’autorizzazione prefettizia, subordinata
all’approvazione delle autorità alleate, per la prosecuzione della pubblicazione
di quotidiani e periodici.
• Un decreto luogotenenziale del 1946 (il 561, approvato in vista delle elezioni
dell’Assemblea costituente), invece, consentirà il sequestro dello stampato
solo a seguito di una sentenza di condanna, ma stabilirà (data l’influenza di
papa Pio XII) l’eccezionalità di stampati osceni, offensivi della pubblica
decenza, o che divulghino mezzi idonei a favorire l’aborto ed impedire la
procreazione.
Per quanto concerne, invece, la redistribuzione delle competenze amministrative
in materia, con la soppressione del Min.cul.pop., esse vennero trasferite al
“Sottosegretariato per la stampa, lo spettacolo e il turismo”, alle dipendenze
della Presidenza del Consiglio.
Così come allo Statuto Albertino aveva subito fatto seguito l’Editto sulla stampa,
in vista dell’elezione della prima Camera dei deputati, una disposizione
transitoria della Costituzione prevedeva la convocazione dell’Assemblea
costituente entro il 31 gennaio 1948, per riformare le normative sulla legge sulla
stampa non in linea con i principi costituzionali, prima dell’elezione del
Parlamento repubblicano.
La legge 47 del 1948 riprende l’articolo 528 del codice penale sulle pubblicazioni
oscene, stabilendone l’estensione (con pene aggravate)
• nell’articolo 14, a quelle “destinate ai fanciulli ed agli adolescenti, quando,
per la sensibilità e impressionabilità ad essi proprie, siano comunque idonee a
offendere il loro sentimento morale od a costituire per essi incitamento alla
corruzione, al delitto o al suicidio”.
• Nell’articolo 15, invece, esse sono applicate “anche nel caso di stampati i
quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti,
avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da
poter turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare, o da
poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”.
Tra gli obblighi istituiti dalla “Legge stampa” troviamo, inoltre,
• quello sancito dall’articolo 5, ossia la registrazione dei periodici presso la
cancelleria del Tribunale competente per territorio, presso il quale vengono
depositati i documenti in cui viene indicato il titolo della testata, l’editore e il
proprietario, oltre all’attestazione dell’iscrizione all’Albo dei giornalisti del
direttore responsabile (con eccezione delle riviste tecniche).
• Infine, l’articolo 8 disciplinava anche l’obbligo di rettifica, che, in caso di
mancato adempimento, consente all’interessato di richiedere al giudice
l’ordine di pubblicazione della rettifica (di non più di 30 righe, prive di
espressioni che costituiscano reato), la cui trasgressione dà luogo alla
condanna del direttore responsabile, con conseguente pubblicazione
obbligatoria della sentenza sul quotidiano o periodico.
Per quanto concerne, invece, la diffamazione,
• l’articolo 12 stabilisce che, se diffusa a mezzo stampa, essa comporta una
“pena privata”, giustificata dalla volontà di “rendere più sensibili le
conseguenze per l’offensore”: pertanto, il giudice, in caso di condanna, dovrà
irrogare una sanzione pecuniaria, il cui importo va commisurato alla
diffusione dello stampato, ma soprattutto alla gravità dell’offesa (ossia
dell’attribuzione di condotte che implicano atti illeciti o comportamenti
socialmente sconvenienti).
• L’articolo 13, invece, prevede un’ulteriore aggravante in caso di diffusione a
mezzo stampa di un fatto determinato, in quanto precisione e concretezza
conferiscono credibilità al messaggio. La sanzione, in questo caso, non è più
alternativa, ma cumulativa: da 1 a 6 anni di reclusione e una multa non
inferiore a 500.000 lire.
La legislazione di pubblica sicurezza contenuta nel testo unico del 1931 uscì
largamente indenne dall’esame di conformità al dettato costituzionale, ma, negli
anni successivi, fu spesso oggetto di interventi della Corte costituzionale:
• il sequestro amministrativo dell’autorità di pubblica sicurezza in caso di
propaganda di mezzi anticoncezionali, ad esempio, decadde in seguito alla
dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 553 del codice penale,
avvenuta con la sentenza n. 49 del 1971.
• Con la sentenza 1 del 1956, invece, furono eliminate le licenze di polizia per
l’affissione degli stampati, fatto salvo l’obbligo di rispettare l’indicazione degli
spazi per l’affissione indicati dall’autorità competente.
• L’istituto della licenza per l’esercizio dell’arte tipografica, invece, venne
abolito nel 1998.
• Scomparse le norme fasciste, nel 1958, la modifica dell’articolo 57 del codice
penale puniva la violazione da parte del direttore responsabile di una norma
a contenuto precauzionale, che abbia permesso la commissione del delitto
presupposto. Egli diventa, quindi, responsabile “per omesso controllo” degli
articoli affidati ai suoi redattori, di contributi di terzi, “brevi”, dispacci delle
agenzie, missive dei lettori, annunci, fotografie, titoli, refusi, impaginazione e
locandine, sia per l’edizione nazionale del giornale, sia per quelle locali.
Inoltre, nel 2009, la Cassazione ha stabilito che “il controllo unita