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Ogni attività connessa alla tenuta dell’Albo era affidata non più al Ministero di
Grazia e Giustizia, bensì all’Ordine, di cui fa parte
• il consiglio nazionale, composto da 2 giornalisti professionisti e da un
pubblicista per ogni consiglio regionale (con carica triennale), sebbene oggi le
regioni più grandi abbiano più rappresentanti, a seconda degli iscritti.
• La restante parte dell’Ordine è composta dai consigli degli Ordini regionali
(composti da 6 giornalisti professionisti e 3 pubblicisti, votati dagli
appartenenti alle rispettive categorie e in carica per 3 anni) chiamati a
gestire iscrizioni, cancellazioni e sanzioni, che vanno
o dal semplice avvertimento a cambiare condotta da parte del Presidente
dell’Ordine (con redazione di un verbale),
o alla censura (con biasimo formale del Presidente),
o alla sospensione dall’esercizio della professione (dovuta alla
compromissione della dignità professionale),
o fino alla radiazione dall’Albo (per i “colpevoli di fatti non conformi al decoro
e alla dignità professionali, o di fatti che compromettano la propria
reputazione o la dignità dell’ordine”), al quale l’interessato ha diritto di
essere nuovamente iscritto dopo 5 anni.
L’interessato, può, tuttavia fare ricorso, entro 30 giorni, al consiglio nazionale
dell’Ordine, e, in caso di esito negativo, alla magistratura ordinaria.
Nell’ordinamento esistono norme che ammettono un comportamento vietato, a
determinate condizioni, in base ad un bilanciamento di interessi che giustifica un
fatto non lecito. L’articolo 51 del codice penale, infatti, esclude la punibilità se
l’affermazione di un messaggio lesivo della reputazione è commesso
nell’esercizio dei diritti riconosciuti dalla Cassazione con la sentenza 5259 del
1984, altrimenti detta “sentenza decalogo”.
I diritti del giornalista consistono, infatti, nell’insopprimibilità della libertà
d’informazione e di critica “limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate
a tutela della personalità altrui”, ossia limitata dalla disciplina del reato di
diffamazione. Tuttavia, considerando che la discrezionalità dell’offeso nella
valutazione del danno subito consente richieste di risarcimento esorbitanti,
potenti armi di pressione se si teme una condanna in sede penale e quindi
potenziale ostacolo all’esercizio del diritto di cronaca, sono stati inseriti dei
presupposti che ne escludono la punibilità.
• Requisito più importante è la verità sostanziale del fatto, che pone il
giornalista nell’obbligo di verificare l’attendibilità delle fonti e di limitarsi a
riportarle. Tuttavia, i giornalisti che siano incorsi in un errore, ritenendo
corretto un dato poi rivelatosi falso, possono venire prosciolti, purché
dimostrino di aver compiuto i dovuti controlli con esito positivo. Si parla, in
questo caso, di “verità putativa”, che permette di assolvere il giornalista in
presenza di una verosimiglianza del fatto.
o A livello giuridico, sono considerate notizie abbastanza sicure quelle
apprese dagli organi inquirenti, soprattutto in contesti pubblici: vi sono
infatti, fonti privilegiate, che rendono superflui ulteriori controlli, ma tra
esse non rientrano le agenzie di stampa, le cui notizie dovrebbero essere
verificate prima che riprese.
o Per quanto riguarda le interviste, invece, il Supremo Collegio, nel 2001, ha
stabilito che il giornalista può riportare le dichiarazioni dell’interlocutore
senza vagliarne l’esattezza, se le dichiarazioni costituiscono una notizia, o
se il tenore delle dichiarazioni è rilevante per la collettività, al di là della
loro verità.
o Inoltre, la Cassazione ha stabilito che la verità dei fatti non è rispettata
quando “siano, dolosamente o anche solo colposamente, taciuti altri fatti,
tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il
significato”, così che “la verità incompleta deve essere, pertanto, in tutto
equiparata alla notizia falsa”.
• L’utilità dell’informazione, ossia l’interesse sociale per la sua conoscenza, è
invece un criterio che lascia al giudice ampi margini di discrezionalità.
• Infine, per quanto concerne la correttezza dell’esposizione,
o si rende necessaria “la forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro
valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire,
improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il
preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di
quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle
persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più
umani sentimenti”, come precisato da una sentenza della Cassazione del
1984. La continenza è, tuttavia, legata al contesto: se la materia forma la
pubblica opinione, espressioni forti, che non ricadano nella mera
contumelia, sono tollerate, purché “il giornalista, al fine di sottrarsi alla
responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche”, non
ricorra a “subdoli espedienti”.
o Anche per la satira, benché ne manchi una definizione normativa, è
prevista una maggiore libertà nell’utilizzo di iperbole e paradosso, di una
forma ironica e sarcastica e di un registro grottesco che deformi il reale,
purché le vicende interessate siano poste all’attenzione generale e non
trasmettano messaggi falsi. Un giudice del Tribunale di Latina, nel 2006,
ha infatti sentenziato che la satira è un genere letterario, una forma libera
del teatro, attraverso la quale si fornisce una chiave di lettura diversa della
realtà. Tale arma di denuncia sociale, nonché di formazione della
collettività, anche grazie allo stile non aulico, può “scompaginare le regole
del sentire comune che alimenta e stabilizza il Potere”.
Il diritto di critica, invece, consiste nell’espressione di un giudizio, di una
personale convinzione di chi la sottoscrive, che viene ritenuta lecita, sebbene
offensiva, purché abbia ad oggetto un argomento di interesse pubblico e sia
priva di insulti gratuiti: ad esempio, il biasimo nei confronti di un pubblico
ministero come esempio dell’incapacità della magistratura di formare
professionisti all’altezza può ledere la reputazione del soggetto, ma se il CSM e
la Procura lo hanno sottoposto a procedimento disciplinare e penale,
l’argomento diventa di pubblico interesse.
Inoltre, l’orientamento giurisprudenziale del giornalismo d’inchiesta (i cui
giornalisti, nel 2010, sono stati definiti dalla Cassazione l’”espressione più alta e
nobile dell’attività d’informazione”) impone l’obbligo inderogabile di rispettare il
segreto professionale sulla fonte delle notizie, ma se la veridicità di notizie
indispensabili ai fini della prova del reato può essere accertata solo identificando
la fonte, il giudice può ordinare al giornalista di indicarla. Anche la
giurisprudenza di Strasburgo ha ribadito il diritto dei giornalisti a non rivelare le
loro fonti d’informazione e a non testimoniare davanti al tribunale per non
compromettere la confidenzialità della fonte o dissuadere l’informatore
dall’aiutare i media, proibendo anche la perquisizione del domicilio e del luogo di
lavoro, nonché il sequestro degli effetti personali di tutti coloro che sono
coinvolti nella redazione di un giornale. Tuttavia, i ricorsi individuali per ottenere
la protezione dell’articolo 10 della Convenzione, negli ultimi 10 anni, sono
aumentati al punto che la Corte europea dei diritti è diventata una sorta di 4°
grado di giurisdizione, nonché un “giudice amico” della stampa, tanto che l’Italia
stessa è stata sanzionata per violazione dell’articolo 6 della CEDU, che
garantisce ai cittadini il diritto d’accesso a un giudice.
A ciò si aggiunge la Carta di Treviso del 1995, che tutela i minori (tramite
l’obbligo di non pubblicare il nome, oscurare il viso, renderlo oggetto della
notizia solo se strettamente necessario).
La disciplina delle attività di raccolta e trattamento dei dati personali”, altrimenti
detta “legge sulla privacy”, è contenuta nel decreto legislativo numero 196 del
2003, “Codice in materia di protezione dei dati personali”.
Secondo tale decreto, il Garante per la protezione dei dati personali (istituito
dalla legge 675 del 1996), è composto da 4 membri di nomina parlamentare ed
è tenuto a far cessare comportamenti contrari alla legge, in particolare in
relazione alla disciplina riguardante i “dati sensibili”, che rilevano, cioè, l’origine
razziale ed etnica delle persone, le convinzioni religiose e filosofiche, l’adesione
a partiti e sindacati, le condizioni di salute e soprattutto le abitudini sessuali (al
fine di evitare la spettacolarizzazione o la strumentalizzazione di scelte
personali).
Il Garante, con un provvedimento del 2004, ha riconosciuto al giornalista
l’autonomia nell’acquisizione (purché avvenga con correttezza), nella selezione e
nella scelta dei dati (anche sensibili) da diffondere, senza obbligo di consenso,
ma tenendo conto dei limiti del diritto di cronaca.
Possono, inoltre, essere trattati i fatti resi noti dagli interessati direttamente o
attraverso comportamenti in pubblico, nonché i dati che gli obblighi di
trasparenza della pubblica amministrazione rendono facilmente acquisibili.
I dati diffondibili comprendono anche foto, riprese o registrazioni: nel 2009,
infatti, la Camera ha approvato il disegno di legge in materia di intercettazioni
telefoniche, telematiche ed ambientali, che prevede il divieto di pubblicazione
degli atti di indagine preliminare, del fascicolo del pubblico ministero o delle
investigazioni difensive, anche quando viene meno il “segreto istruttorio” e fino
alla conclusione delle indagini preliminari, o fino all’udienza preliminare. Viene,
inoltre, introdotto il divieto di pubblicazione di atti e contenuti relativi a
conversazioni e comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata
ordinata la distruzione.
è la difficoltà di ricavare dalle regole delle linee di comportamento, a limitare la
libertà del giornalista, la cui condotta viene valutata con criteri spesso vaghi. Per
far fronte a tale problema, ci si affida al “codice di deontologia” del 1998
(applicabile a tutti coloro che si