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Nella frequentazione della lingua si precisa la presenza scenica: ogni lingua ha un ritmo che si
trasferisce al corpo e al gesto.
Altra difficoltà nel concertato e nell’amalgama del suono che deve contenere il testo senza
confonderlo. Spesso si producevano confusione e tensione al silenzio.
Intuizione: un piccolo non capisce le parole della madre, ma ne coglie il tono, l’intenzione e il
significato al di là delle parole 2 livelli di costruzione del testo:
Testo: racconto, storia, dialoghi
- Sottotesto: denso di umori, echi ambienti, è l’aura che circonda i personaggi. Il rumore del
- mondo, il respiro delle cose. In assenza della cosa, indurla a immaginarla, percepirla
sensualmente attraverso un processo analogico, immergendolo in un viluppo di sonorità che
sono lo spesso dell’aria attorno ai personaggi, ma anche le tracce della vita dell’attore sotto a
quella del personaggio. Il sottotesto è il segno che resta visibile del continuo sforzo creativo
dell’attore. Nel sottotesto quotidiano ed extraquotidiano, vita dell’attore e vita del
personaggio non sono sempre distinguibili, né vogliono esserlo. La natura di questa
relazione è qualcosa di simile alla traduzione dell’esperienza in poesia.
Scrittura: ogni improvvisazione il cui tema è stabilito dall’esterno a seconda del punto della vicenda
viene trascritta subito a più mani; poi ne vengono fissate le coordinate più utili. A freddo la sera o il
giorno dopo vengono inseriti i brani di testo creati a tavolino per i quali è stato necessario rileggere
parti del romanzo o cercare altre fonti.
Scena delle canne: canne lunghe formate dall’incastro a telescopio di tre giochi diversi. Il tema
della giornata di prove momento in cui la serva del Capitano irritata dall’ignavia delle altre, le
sollecita a lavorare insegnando loro a usare nuovi strumenti. Nello stesso dialogo bisognava
mostrare il nascente scambio delle passioni fra i padroni e mostrare come un analogo rapporto di
comprensione stesse formandosi tra le serve. Prove scena di un’ora: c’erano riflessioni sulla
possibilità di contare l’universo. Con le cane allineate abaco; da qui si tentò la strada dei proverbi e
iniziato una sequenza di botta e risposta a suon di modi di dire, passandoci le cane come si fa col
testimone nei giochi a staffetta. Uno scatto di disappunto fece cadere le canne disfano il mucchio
con cura come se stessero giocando a Shangai. A ogni mossa un sentimento, seguendo il
procedimento del libro IL sogno della camera rossa. Se cercavamo un filo infinite diramazioni.
Vacis li mando fuori dalla sala sperando che il freddo schiarisse loro la mente. Avvenne: nel copione
definitivo è la scena in cui il progetto appare legato alle vicende umane. Esse occupando il tempo e
lo spazio influenzano il progetto e a volte lo stravolgono.
Ristorante Zaghini: lì spesso mangiavano. Cameriere anziano, gentile, allegro e malinconico
(Angelo) alla fine dello spettacolo resta in scena solo un anziano giardiniere a innaffiare le piante e
parlando sottovoce, chiamando le piante per nome, ma Rita c’era sempre: al debutto era Angelo, che
entrava tranquillo in scena e ne era entusiasta. Su ogni piazza si cercò un anziano signore del posto
che avrebbe recitato con loro; ognuna delle persone che ha partecipato alla creazione potrebbe
raccontare fasi preziose del lavoto. Lo spettacolo non è mai finito, ci sono continue soluzioni nuove
(= entrata in scena del giardiniere). Ma debutto, così come ora debutta il testo.
Il copione è stato riveduto nelle repliche in base alle variazioni del contatto col pubblico. La ripresa
con nuovi attori ha messo in atto relazioni e conflitti tra memorie generando ulteriori occasioni di
ricerca e nuove opportunità culturali.
IL PELLEGRINAGGIO CONTINUA – Conversazione con Marco Martinellii (Guccini)
«Stare seduti bene, questo è l’importante, a teatro come nella vita». Ha iniziato nel ’77, intreccio di
arte con la vita (sposa Ermanna Montanari e pochi gg dopo sono in scena col loro primo lavoro).
Intreccio con Ermanna fisico, psichico, artistico. Martinelli di Reggio Emilia (1956), immigrato a
Ravenna. Emiliani e Romagnoli sono diversi. Ravenna lo ha adottato dal punto di vista linguistico.
Non è “bilingue”, gli manca il dialetto. Con Ermanna incontra il dialetto romagnolo. Una lingua è
una visione del mondo diceva Humbolt: non diciamo la stessa cosa con due parole diverse, ma
piuttosto diciamo due cose diverse perché diciamo due modi diversi di concepire e pensare la cosa.
Avere due lingue è avere due visioni del mondo. I suoi testi sono pieni di dialetti, intarsi dove
l’espressione dialettale è come la madreperla innestata sulla superficie lignea dell’italiano.
Per te è importante poter adottare lingue forti e più aderenti alle cose, ma quando queste adozioni
hanno cominciato ad agire nel tuo teatro?
Non da subito, all’inizio non sapevamo cosa fosse il teatro. Ho iniziato nel ’72 al liceo a Ravenna
quando vidi il “Re Lear” di Strehler. Capii che quello volevo fare nella vita (mai andato a teatro
prima, mai informato sul teatro). Il fatto che si possa rendere con un niente il senso della morte, il
rapporto padre e figlio, mi sembrava affascinante.
Io e Ermanna ci siamo sposati, volevamo vivere di teatro. La mia formazione cattolica fortemente
sentita aveva in Francesco d’Assisi il santo prediletto: vivere di teatro e vivere di povertà. Fin
dall’inizio teatro e vita erano inscindibili. Si recitava nei teatrini parrocchiali. Crisi di fede a 24
anni. I primi lavori furono Aspettando Godot e Finale di Partita di Beckett e Il compleanno di
Pinter, lavori che trasmettevano il vuoto di un mondo che non ha più divinità (e li proponevamo in
parrocchie). Veniva poca gente ma ci consolavano pensando che così facendo avremo imparato che
cos’è il teatro. Auto pedagogia senza maestri se non il nostro desiderio. Vivevamo davvero in
povertà a volte rubavamo al supermercato vicino casa perché non avevamo proprio nulla. Ci
chiamavamo “Teatro dell’arte Maranathà” che l’ultima espressione della Bibbia e vuol dire “vieni
signore” ovvero arriveranno tempi nuovi. In questo modo siamo andati avanti fino all’81. In quegli
anni abbiamo cominciato a leggere Grotowski, Barba, Brook e realizzammo provocatorie azioni di
teatro in strada e una via crucis che faceva scappare i fedeli: l’imprinting dato da quella serata
strehleriana era forte e all’epoca il teatro significava per me soprattutto l’allestimento di un testo.
Un’altra verità mi aveva colpito quella sera: avevo percepito che le parole dell’attore-re erano il
mistero della scrittura che diventa oralità, le parole che tu ascolti non pensi neanche che siano state
scritte prima sembrano nasce in quell’istante sono vere li. Una sera mancava totalmente il pubblico
e quindi decidemmo di andarcela prendere. Cominciamo a suonare i campanelli e a invitare la
gente. Dopo cinquanta campanelli tirammo su solo due spettatori. C’era la voglia di lavorare sul
mistero del teatro ma senza spettatori con chi lo fa il teatro?
In questa serie di spettacoli c’era già il dialetto?
No. Il dialetto lo ascoltavo solo dai genitori e dai nonni di Ermanna, all’inizio era difficile capirlo.
Tu scrivi già i testi?
No erano solo anni di regie. Dall’81 all’83 la compagnia si legò ad altri gruppi ravennati e nacque
Linea Maginot che era un centro brulicante di artisti linguaggi differenti, non solo di teatro. Lino
hanno fatto regie mi sono reinventato come organizzatore teatrale. Furono anni difficili anche per le
relazioni e perdevamo un sacco di tempo. Ho incontrato Dadina e Nonni, ci staccammo dalla
Maginot perché volevamo fare teatro, ma la Maginot fu importante come il segno di qualcosa da cui
scappare, da cui imparare negativo: è necessario confrontarsi ma anche saper distinguere le cose
importanti su cui farlo. Nel 1983 nacque il Teatro delle Albe.
La tua era una follia personale che non rientrava nella follia organizzata di tendenza. Dopo un
periodo di grande vicinanza all’interno di festival puri, con una teatralità di tendenza, tu per due
anni lasci la regie file organizzatore. C’è qualche relazione tra questi due eventi?
In quegli anni le tendenze teatrali forti erano Terzo Teatro e la post-avanguardia, molto diversi tra
loro. Ero attratto dal senso di rigore che dava il Terzo Teatro ma andando a vedere gli spettacoli non
ci convincevano. Quello che ci colpiva della post-avanguardia era il confronto con la modernità,
sentire il teatro in relazione all’oggi. Non ci piaceva il dilettantismo e il cedere alle mode, la
mancanza di rigore nel lavoro d’attore. Il teatro deve essere qualcosa di più. Gli anni della Maginot
sono stati anni in cui ci cercavamo pur avendo avuto un imprinting tradizionale andavamo a vedere
spettacoli tradizionali ma ci accorgevamo che quello era solo un rituale vuoto che non diceva più
niente a nessuno. Fare l’organizzatore era forse per me è un modo di osservare la scena da un’altra
angolazione, provare a vederci chiaro senza l’urgenza del fare.
Imprinting e poi ricerca di un proprio teatro…
Nel 1983 nasce il Teatro delle Albe e io comincio a scrivere: dopo quattro anni di regie e due di
organizzazione il primo lavoro delle Albe è anche un lavoro di drammaturgia. I primi passi li faccio
sull’autore Dick uno scrittore di fantascienza. La sua scrittura bruciava di un’urgenza religiosa
senza far riferimento a una confessione particolare. Io ero già senza Dio. Dick sapeva anche
raccontarsi dell’oggi o meglio del domani che era già oggi (Dolly la pecora clonata). Dick
intrecciava psiche mondo. Iniziammo il percorso con il “cantiere Dick” non solo uno spettacolo ma
un cantiere di lavoro a partire dall’immaginario dei suoi romanzi. Nacque una trilogia: Mondi
paralleli, Effetti Rushmore e rumore di acque.
Rumore di acque è un’antica etimologia del vero nome della città di Ravenna. È una voce fenicia
che significa rumore di acque perché Ravenna nei tempi antichi era una città dell’acqua.
In collaborazione con il Comune di Bagnacavallo prendeva in mano la direzione artistica del teatro
Goldoni il comunale. Alla fine della trilogia comincia a emergere il dialetto. In Rumore di acque si
racconta di una Ravenna del 2017 dopo una guerra atomica. Il protagonista sogna di possedere un
elefante vero perché di animali veri non ce ne sono più. Spinto da questo desiderio arriverà la
morte. La Ravenna del 2017 parla molte lingue e tra queste anche frammenti di dialetto romagnolo.
Il nostro bisogno di contemporaneità comincia a diventar