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CAP. 3 – DALLE QUESTIONI DI SUPERFICIE AI NODI ETICI FONDAMENTALI
La riflessione cattolica si attesta sulla posizione dell’antropologia della “differenza naturale” del maschile e del
femminile, senza con questa affermazione semplicemente limitarsi a “sacralizzare” il dato biologico, ma
comprendendola come uguaglianza dinamica nella reciprocità relazionale dei sessi. Si attribuisce all’ideologia
“post-moderna” e “post-umana” del gender la perdita di una fondamentale distinzione che identifica la
soggettività umana.
Senza misconoscere l’importanza della critica a precise strategie sociali, condotte anche in opposizione alla Chiesa
cattolica, tese a giustificare l’ideologia del gender nel nome del politically correct o dei presupposti della moderna
società liberale, resta l’impressione che riflessioni puramente “difensivistiche” si precludano una lettura integrale
della problematica e soprattutto non riescano a operare una disamina più profonda della sua evoluzione
culturale. La prima apparizione del lemma genere, secondo la sua comprensione connessa alle problematiche
dell’identità sessuata, fu proposta in un documento ufficiale della Chiesa cattolica predisposto in occasione della
IV Conferenza internazionale dell’ONU sulla donna tenutosi a Pechino nel 1995. Durante i lavori preparatori della
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delimitazione concettuale del gender è oggetto di ampie e contrastanti riflessioni, a partire dalla definizione
proposta da Dale O’Leary: “Il genere si riferisce ai rapporti tra donne e uomini basati sui ruoli definiti socialmente
che vengono assegnati all’uno o all’altro sesso” e che dunque sarebbero modificabili, a differenza del sesso, che
indicherebbe piuttosto la semplice differenza biologica che distingue gli esseri umani in maschi e femmine. La
Santa Sede, pur non rigettando integralmente l’impiego della parola genere, intendeva escluderne la sua
interpretazione in termini rigidamente afferenti alla pura costruzione culturale dell’identità personale. Nel
magistero pastorale di Giovanni Paolo II, con “Lettera alle donne”, il Pontefice invitava a lavorare per la
liberazione integrale della donna da tutte quelle espressioni culturali che ne offuscano la dignità e il suo
progresso, ma anche sottolineava “per la donna, anche una certa diversità di ruoli, nella misura in cui tale
diversità non è frutto di arbitraria imposizione, ma sgorga dalle peculiarità dell’essere maschile femminile”.
Nel 1995 si approfondisce in ambito Vaticano una comprensione tendenzialmente negativa del gender, ritenuto
supporto giustificativo di rivendicazioni sociali in nome di un processo culturalmente avanzato di superamento del
valore della differenza sessuale. Di questo tenore sono alcune indicazioni sulla gender-theory condensate nel
documento del Pontificio Consiglio per la famiglia “Famiglia, matrimonio e unioni di fatto” del novembre del
2000. Il fulcro dottrinale e pastorale del testo si propone di difendere la forma specifica, nel suo valore naturale,
del matrimonio eterosessuale, prendendo le distanze dal movimento socio-politico di accreditamento pubblico
delle unioni di fatto, etero e omosessuali. Il processo di riconoscimento legale per altre forme di unione
comporterebbe un’erosione di quegli elementi che sostengono concettualmente la figura giuridico istituzionale
del matrimonio, con la sua equiparazione ad altre forme di convivenza. Accanto alle motivazioni individuali per
l’accreditamento delle “unioni di fatto”, il documento riconduce il fenomeno a un più vasto movimento
ideologico, che porterebbe a una “graduale e destrutturazione culturale e umana dell’istituzione matrimoniale”.
Tale processo è ricondotto a una “certa ideologia di gender”, per cui l’essere uomo e donna trova una sua
determinazione fondamentale nella cultura più che nel dato della differenza sessuale. Pur non rigettando
completamente la pertinenza e concettuale del gender, nella scia di quanto sostenuto dalla Santa Sede in
occasione della Conferenza di Pechino, il testo del dicastero vaticano si premura di mantenerlo all’interno di una
correlazione con il dato della differenza sessuale, in una prospettiva di armonica costruzione delle personalità: “la
categoria di identità sessuale di genere (“gender”) è pertanto d’ordine psico-sociale e culturale. Essa corrisponde
armonicamente all’identità sessuale d’ordine psicobiologico, quando l’integrazione della personalità si
accompagna al riconoscimento della pienezza della verità interiore della persona, unità d’anima e corpo”.
L’ideologia gender è colta in continuità con i processi di democratizzazione delle forme espressive della sessualità
portate avanti dalla “rivoluzione sessuale”, accostando, tutta via senza uno sforzo di comprensione di sfumature
di significato indubbiamente riconducibili a una categoria univoca, l’anarchia sessuale.
La “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel
mondo”, siglata nel maggio 2004 dalla Congregazione della dottrina della fede dall’allora prefetto cardinale
Joseph Ratzinger, accosta alla problematica del genere nell’ottica complessiva di un documento globalmente
positivo propositivo teso a riprendere in modo ampio, anche con accenni originali, la visione emergente dalle
scritture ebraiche-cristiane in merito alla reciprocità dell’uomo e della donna, espressa dalla coniugalità, per
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derivarne implicazioni significative sul presente, soprattutto in ordine “all’attualità dei valori femminili nella
società” e nella “vita della Chiesa”. “La donna, per essere se stessa, si costituisce quale antagonista dell’uomo. [...]
Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come
semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata
sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al
massimo è ritenuta primaria”. La Lettera sembra accreditare presupposti di pensiero che sono apparsi
problematici all’interno della recente riflessione sulla legge naturale. In particolare sulla possibilità di annettere al
concetto di natura umana il dinamismo delle leggi biologiche (in questo caso quelle procreatiche), estremizzando
nel gender la figura di un creazionismo di valori modellato sull’insuperabile soggettività individuale e dunque,
nella sua declinazione relativista, potenzialmente destabilizzante la possibilità stessa di un approccio al senso
dell’uomo nel rispetto dei suoi elementi strutturali a partire dal quale configurare la regola del suo agire. Questa
osservazione risulta corroborata dal modesto, ma significativo, riferimento alla gender-theory, contenuto nel
recente documento della Commissione Teologica Internazionale. La teorizzazione del genere è assunta come
paradigma di un approccio distorto, attraversato da una rinnovata espressione della “dualismo antropologico”,
che oppone lo spirito (e la sua dinamica di libertà) al dato corporeo e che “si manifesta nel rifiuto di riconoscere
qualunque significato umano ed etico alle inclinazioni naturali che precedono le scelte della ragione individuale”.
In questo senso il gender esprime un approccio riduttivo alla corporeità, compreso nello logica di un “avere” un
corpo disponibile a qualunque tipo di significazione da parte di ciascun soggetto, senza prestare ascolto ai
significati già iscritti in esso e al dato della dualità dei sessi.
Il processo inventivo della verità personale della qualità morale dei propri atti non si risolve solo a partire dalla
verità oggettiva, ma assume il senso di una verificazione soggettiva, esponendosi pertanto a una critica di
relativismo etico, oggetto di presa di distanza da parte del documento vaticano secondo cui, in tale visione: “la
bontà morale non è più una qualità della volontà sceglie in armonia con la verità dell’essere, ma viene ridotta a un
prodotto delle intenzioni soggettive” e dunque nei conseguirebbe “una moralità fondata su una sorta di fede
cieca nella spontaneità umana”.
Nella riflessione di Angelo Scola, “il binomio identità-differenza è lentamente caduto in disuso ed è stato
rimpiazzato dal più “manipolabile” uguaglianza-diversità. Ci si illude, in tal modo, di “addomesticare” l’irriducibile
differenza sessuale assimilandola a diversità di altra natura, di cui ogni uomo fa normalmente esperienza. Ma
differenza non è diversità. Quest’ultima, infatti, come dice il suo significativo etimo di-vertere (volgere in altra
direzione) indica il dischiudersi di un ventaglio di possibilità. La nozione di diversità ha a che fare, per sua natura,
con la molteplicità e col cambiamento di qualcosa che chiama in causa “l’esterno”, senza riferirsi all’essenza
intima dell’individuo. […] Invece, la radice della parola differenza deriva dal verbo dif-ferre e suggerisce l’idea di
un portare altrove la stessa cosa, cambiandovi collocazione. Non indica perciò il rapportarsi tra due cose, ma il
portare la stessa cosa in un’altra parte. Mentre la diversità indica un dato inter-personale, la differenza è intra-
personale. Anche la nozione di uguaglianza, oggi impiegata come sinonimo di identità, in realtà significa qualcosa
di ben diverso. Di per sé infatti il termine stabilisce una somiglianza puramente formale tra realtà diverse. Si lega
all’idea di serie di oggetti intercambiabili e può sfociare nell’uniformità. L’identità invece si riferisce alla fisonomia
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costitutiva e singolare dell’io”. L’affermazione coglie un aspetto interessante per la sua pregnante sinteticità. Se è
possibile reinterpretare il testo di Scola, si potrebbe dire che il rilievo conferito nel discorso culturale del gender
sulla “diversità” suggerisce una maggiore plasmabilità di sé, in un ventaglio potenzialmente variegato di
possibilità. La diversità, in quanto rispettabile forma individuale di vita, domanda di essere tutelata
semplicemente a motivo di se stessa.
Nell’annullamento della differenza fondamentale della dualità dei sessi, pure ancorata al dato biologico, può
prodursi un possibile depotenziamento della struttura elementare della società, a partire dalla quale prende
forma la p