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INTRODUZIONE ALLA RIFORMA GENTILE

La seconda grande riforma della scuola italiana fu varata nel 1923 da Giovanni Gentile, uno dei più

importanti filosofi idealisti, chiamato al dicastero della Pubblica istruzione nel primo governo

Mussolini. La riforma consisteva in una serie di regi decreti che ridefinivano con coerenza e rigore

l’intero assetto dell’istruzione in tutti i suoi aspetti, secondo una visione fortemente centralistica,

gerarchica e autoritaria.

Il nuovo ordinamento portava l’obbligo scolastico a 14 anni, misura che trovò però scarsa

applicazione, prevedeva una scuola elementare di cinque anni e istituiva anche un grado

preparatorio (scuola materna), non obbligatorio, di tre anni con carattere ricreativo e teso a

«disciplinare le prime manifestazioni dell’intelligenza e del carattere del bambino».

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Al termine della scuola elementare si poteva scegliere (previo uno specifico esame di ammissione)

il ginnasio (inferiore di tre anni e superiore di due) – che dava poi accesso ai licei classico (questa

denominazione fu assunta in seguito, nella riforma era semplicemente il liceo), scientifico e

femminile (quest’ultimo si rivelerà un fallimento) – o l’istituto tecnico o, infine, l’istituto

magistrale.

La scuola complementare, di durata triennale e senza esame di ammissione, era invece lo

sbocco per tutti coloro che non potevano proseguire gli studi (unico canale ulteriore, dopo il

superamento di un esame, era il neo- costituito liceo artistico a numero chiuso). Anche per le scuole

d’arte, a cui ci si poteva sempre iscrivere dopo le elementari e che davano accesso al liceo artistico,

non era previsto l’esame di ammissione.

La riforma prevedeva inoltre scuole di metodo per la formazione degli insegnanti del grado

preparatorio.

Il liceo scientifico e l’istituto magistrale rappresentavano, insieme alla scuola complementare e al

riordino dell’istruzione artistica, le novità più significative della stessa riforma.

L’università non subiva grandi cambiamenti rispetto alla legge Casati: l’accesso era riservato agli

studenti provenienti dal liceo classico e per le facoltà di Scienze e di Medicina e chirurgia anche a

quelli in possesso di maturità scientifica.

La riforma, nel ridisegnare l’assetto scolastico, si poneva, per molti versi, in una linea di continuità

con la precedente legge Casati, nell’assegnare il primato all’istruzione classica e alle discipline

filosofico-umanistiche, nel porre in posizione subalterna la cultura scientifica e nel relegare a

un gradino ancora inferiore l’istruzione tecnica e professionale (l’istruzione industriale

rimaneva affidata al ministero dell’Agricoltura, industria e commercio, poi dell’Economia

nazionale).

La riforma veniva, inoltre, incontro a esigenze molto sentite della Chiesa cattolica: prevedeva infatti

l'insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole elementari (definita come

«fondamento e coronamento dell’istruzione elementare») e introduceva l’esame di Stato, altra

novità particolarmente significativa e duratura, al termine di ogni ciclo scolastico, una misura che

consentiva di mettere sullo stesso piano scuole pubbliche e private.

Pur nel mantenimento della sua fisionomia complessiva, l’assetto definito dal nuovo ordinamento fu

sottoposto ad una serie di aggiustamenti che ne compromisero sostanzialmente l’organicità. La

politica dei continui «ritocchi», favorita dalle dimissioni dello stesso Gentile (giugno 1924), fu

considerata necessaria, inizialmente, per ridurre il profilo estremamente selettivo della scuola e, in

seguito, per rispondere alle esigenze poste dal processo di fascistizzazione integrale promosso dal

regime a partire dalla fine degli anni Venti.

LEGGE CASATI

La legge Casati – così viene comunemente chiamato, dal nome dell’allora ministro dell’Istruzione

pubblica Gabrio Casati, il Regio decreto legislativo n° 3725 – fu varata il 13 novembre 1859 nel

Regno di Sardegna. Recepita integralmente nel 1861 dal neo-nato Stato italiano, rimase in vigore

fino alla riforma Gentile del 1923, ma era destinata a connotare ben più a lungo la scuola italiana.

Con i suoi 380 articoli, la legge conferiva un assetto organico all’intero sistema scolastico

definendone cicli, curricula, materie di insegnamento, programmi, personale, apparato

amministrativo. La scuola elementare era divisa in due cicli biennali, di cui il primo obbligatorio e

gratuito. 35

Il percorso separato di ginnasio e istruzione tecnica. Dopo le elementari il percorso formativo si

biforcava, con una scelta senza alternative, tra un ginnasio quinquennale che trovava il suo naturale

compimento in un liceo di tre anni e un’istruzione tecnica. Questa prevedeva una scuola tecnica di

tre anni, affidata ai comuni, e un istituto tecnico, anch’esso di tre anni, di competenza statale,

articolato in diverse sezioni e dipendente dal Ministero dell’Agricoltura che si vedeva attribuite le

deleghe del Commercio e dell’Industria (1861).

Le scuole “normali” per la formazione dei maestri. La legge istituiva anche le scuole normali

della durata di tre anni per la preparazione dei maestri che si collocavano in una sorta di limbo di

incerta definizione non essendo considerate a pieno titolo una scuola secondaria: vi si accedeva a 15

anni per le ragazze e a 16 per i ragazzi e per lo più fornivano una preparazione precettistica e di

facile ‘spendibilità”. Cresce il numero delle facoltà universitarie. Per quanto riguarda

l’Università, alle tre facoltà tradizionali – la teologica, abolita poi nel 1873, la giuridica e la

medica – si aggiungevano la facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali, con annessa scuola

di applicazione di ingegneria, e la facoltà di filosofia e lettere. L’accesso all’università era di fatto

riservato agli studenti che provenivano dal liceo con la sola eccezione della facoltà di scienze

fisiche, matematiche e naturali che poteva accogliere anche i diplomati dell’indirizzo fisico-

matematico dell’istituto tecnico.

La riforma riconosceva allo Stato il diritto/dovere di intervenire in campo educativo, un campo fin

ad allora in larga parte appannaggio della Chiesa e, nel prevedere come obbligatorio e gratuito il

primo biennio di scuola elementare, si iscriveva, pur con molti e sostanziali limiti, in quel processo

di sviluppo, razionalizzazione e laicizzazione, che le politiche dell’istruzione andavano attuando in

tutti i Paesi europei a partire dalla fine del Settecento con l’obiettivo di porre la scuola al servizio

della nazione e attribuirle, almeno in teoria, un valore di emancipazione e di rinnovamento sociale.

Una riforma per “fare gli italiani”.La riforma voleva rispondere in primo luogo alla necessità, per

dirla con Massimo d’Azeglio, di “fare gli italiani” ovvero di favorire quel processo di

italianizzazione che consentisse di superare il mosaico di sistemi scolastici e di tradizioni educative

ereditate dal nuovo Stato e permettesse la formazione di un ceto medio “quella gran classe che

rimane tra il popolo e coloro che stanno alla testa del paese” in grado di dare stabilità sociale a

paese. La scuola rappresentava lo strumento fondamentale di quest’opera di nazionalizzazione e

l’educazione linguistica si poneva, non a caso, come una costante preoccupazione del legislatore. Se

si guarda alla riforma nel suo insieme appare però chiaro che, seppur in questa prospettiva,

l’educazione primaria e il processo di alfabetizzazione non erano i suoi obiettivi principali: fulcro

della legge era la scuola secondaria liceale e il suo fine principale la formazione della classe

dirigente di una società elitaria che aspirava a rimanere tale.

Una scarsa attenzione all’educazione primaria. Per quanto istituisse l’obbligo, la legge infatti

non prevedeva sanzioni che ne garantissero il rispetto (introdotte solo con la legge Coppino nel

1877) mentre, pur in un disegno di rigida centralizzazione, lasciava l’istruzione primaria ai comuni

che si rivelarono molto spesso incapaci di far fronte alle spese necessarie per garantire lo

svolgimento delle lezioni. Va ricordato che il tasso di analfabetismo era nel 1861 del 74,7% con

punte superiori all’85% nel Mezzogiorno. Anche lo scarso interesse per la formazione dei maestri e

l’esiguità dei loro stipendi testimoniano ancora il sostanziale disinteresse che, al di là delle buone

intenzioni, il nuovo Stato riservava l’educazione primaria.

L’affermazione del modello umanistico-filosofico.

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L’istruzione secondaria classica rappresentava dunque il cuore della legge e costituì il suo tratto più

duraturo, al di là di tutte le successive riforme e i successivi aggiustamenti, sancendo la superiorità

del modello culturale umanistico-filosofico a scapito di quello tecnico-scientifico. La cultura

classica e letteraria veniva considerata la cultura della piena cittadinanza, assoluta ed

autosufficiente, e veniva separata dal sapere tecnico-pratico il quale, inglobando anche la cultura

scientifica, peraltro incredibilmente ridotta alle sue specificità applicative, assumeva una valenza

subordinata e strumentale. Esemplarmente l’articolo 286 recitava: che “Queste scuole [tecniche] e

questi istituti [tecnici] dovranno mantenersi separati dai ginnasi e dai licei. In ogni caso la direzione

immediata degli stabilimenti tecnici istituiti da questa legge non potrà mai essere affidata alla stessa

persona cui è affidata quella de’ precisati istituti di istruzione secondaria”.

La netta distinzione tra istruzione umanistica e tecnica.

La scuola italiana, come scuola dell’Italia nazione, nasceva dunque con un vizio di origine, che ne

costituiva una connotazione assolutamente originale: la netta distinzione tra scuola-educazione e

scuola-istruzione, tra l’esigenza di preparare le nuove generazioni ad assumere responsabilità o ad

eseguire compiti. All’art. 188 riguardante l’istruzione classica si diceva “l’istruzione secondaria ha

per fine di ammaestrare i giovani in quegli studi mediante i quali si acquista cultura letteraria e

filosofica che apre l’adito agli studi speciali che menano al conseguimento dei gradi accademici

nelle Università dello Stato” mentre all’art. 272 sull’istruzione tecnica recitava “L’istruzione tecnica

ha per fine di dare ai giovani che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio,

delle industrie, dai commerci alla condotta delle cose agrarie, la conveniente cultura generale e

speciale”. La distinzione tra istruzione umanistica e istruzione tecnica sottintendeva una altrettanto

netta divisione s

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A.A. 2015-2016
77 pagine
30 download
SSD Scienze giuridiche IUS/10 Diritto amministrativo

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher jessica1806 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto amministrativo e legislazione scolastica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di L'Aquila o del prof Giani Loredana.