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La domenica e il giovedì mangiavano maccheroni al ragù ed una frittura o arrosto. Era frequente per
le monache preparare anche conserve, marmellate, dolci che in particolari circostanze venivano
regalati ai personaggi che ruotavano attorno al monastero. Le attività lavorative erano il ricamo, la
filatura e la tessitura ed inoltre le monache confezionavano anche manufatti (lana e merletti) per
abbellire gli altari, corredi sacri. Il loro lavoro aveva a volte anche committenti esterni. Musica e
canto, inoltre, erano importanti (celebrazioni liturgiche solenni).
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Cap 5 La donna e la dote
Nonostante il Concilio di Trento avesse esplicitamente sancito il principio della libera scelta da parte
degli sposi, per tutta l’età moderna il matrimonio continuò a costituire un “affare” di famiglia: non
solo un atto privato che sanciva l’unione fra due persone, ma uno “scambio” negoziato e concluso fra
due famiglie. La dote costituiva in molti casi un apporto fondamentale per il patrimonio familiare e
per le attività del marito che l’amministrava. Sia nel caso dei patrimoni aristocratici che per contadini
ed artigiani, i beni dotali erano importanti per risollevare la situazione economica (ipoteche, garantire
crediti nel caso delle classi alte) o per avviare l’attività dopo il matrimonio (artigiani). In campagna,
la dote poteva confluire nell’azienda contadina della famiglia dello sposo o garantire un minimo di
sicurezza nella fase iniziale del ciclo di vita del nuovo aggregato domestico (dopo prevaleva la
struttura nucleare della famiglia e il lavoro bracciantile). Lo studio dei sistemi dotali, delle modalità
di versamento delle doti, del ruolo assegnato a ciascuno dei due sposi, può fornire utili indicazioni
sull’organizzazione familiare e sui meccanismi che regolavano la trasmissione dei beni all’interno
delle famiglie.
A seguito di un’analisi dei contratti dotali del ‘600 relativi ad un piccolo centro ligure, Fontanabuona,
si può notare come in queste zone prevalevano le doti in denaro, piuttosto che la concessione di beni
fiduciari, adottata solo nel caso in cui mancasse denaro liquido, per conservare la proprietà all’interno
del circuito parentale. Infatti, anche quando nella dote era presente la terra, veniva data come garanzia
di un futuro pagamento in denaro, rinviato nel momento in cui si fossero presentate migliori
condizioni economiche. Le doti in moneta non veniva versate tutte insieme, ma se ne dava all’inizio
solo una parte, insieme al corredo, e poi veniva versata completamente a rate annuali, per un massimo
di 15 anni (si protraevano anche per 25-30 anni o divenivano ereditarie, tramandando il pagamento
della dote dal capofamiglia ai figli). Il matrimonio e la dote, rafforzavano i rapporti economici e
politici tra i gruppi parentali e diventavano momenti di coesione e pacificazione, anche se i rapporti
di debito dotale potevano scaturire tensioni e conflitti. A Santena (TO), la donna era esclusa
dall’eredità paterna (beni fondiari) ed era frequente la pratica degli “aumenti dotali” da parte della
famiglia dello sposo, pari ad un quarto del complessivo della dote, insieme ad altri doni di nozze.
Nella Firenze di fine ‘500, la dote consisteva in somme di denaro oppure in titoli di credito, facilmente
convertibili in contante. L’amministrazione e la proprietà della dote era del marito, che poteva
investirla, ipotecarla o convertirla in qualsiasi altro tipi di proprietà, ma avrebbe dovuto restituirla nel
caso non avesse rispettato gli obblighi matrimoniali. Nel caso in cui la moglie fosse deceduta prima
del marito, senza figli, egli aveva il diritto di riceverla tutta o una parte di essa, a seconda dei comuni.
Le donne fiorentine, oltre la dote, potevano portale anche donazioni, lasciti o eredità, considerati beni
non dotali, la cui amministrazione spettava alle donne stesse; spesso furono costrette a dotarsi di
strumenti legali che indicassero con precisione l’entità e la composizione dei beni non dotali, poiché
i mariti esercitavano il pieno controllo, con o senza consenso, anche dei beni non dotali. Nel
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Mezzogiorno, attraverso il matrimonio, la donna portava l’insieme dei beni dotali all’interno del
nuovo nucleo senza che questo, però, cancellasse gli obblighi che continuavano a tenere uniti tali beni
al patrimonio della famiglia paterna. Nel caso della morte del marito, la dote veniva restituita alla
donna, mentre nel caso contrario, se senza figli, veniva restituita alla sua famiglia. I contratti
rappresentavano per l’uomo l’emancipazione della paterna potestà, mentre per conto
matrimoniali
delle donne, il contratto veniva concluso dal padre o, in assenza, dalla madre oppure dai fratelli o
dalla madre con i fratelli. A volte, la stessa futura sposa concludeva il contratto (spesso vedove che
dovevano risposarsi), ma in presenza di un congiunto maschio o di un garante che poteva essere lo
stesso notaio. La costituzione della dote per le figlie aveva la precedenza sulla preservazione del
patrimonio ereditario e non era raro che i figli maschi si ritrovassero privati di tutto dopo che le sorelle
avevano ricevuto la loro dote. All’interno dell’area meridionale esistevano differenze circa la
del ‘500, la maggior
composizione e le modalità di concessione della dote. A partire dagli anni 60-70
parte delle famiglie nobili faceva sposare solo il primogenito, mentre gli altri erano destinati alla
carriera ecclesiastica o militare. Esistevano regole molto rigide nell’aristocrazie nell’ambito dei
matrimoni: se una donna nobile avesse sposato un privato gentiluomo, il suo status sarebbe decaduto.
Per i nobili napoletani, i matrimoni servivano a consolidare lo status, piuttosto che compiere scalate
nel primo ‘500 la dote era
sociali. I tempi e le modalità di pagamento della dote subirono modifiche:
versato in denaro contante e la metà, o almeno un terzo di essa, consegnata al momento del
matrimonio; a fine secolo, invece, furono sempre meno le doti pagati in contanti, ma attraverso entrate
annue in arredamenti o crediti. La famiglia della sposa aveva una serie di garanzie: la parte di dote
versata era protetta ipotecando i beni feudali dello sposo e di suo padre; inoltre qualsiasi acquisto
effettuato con la dote, doveva essere approvato dal padre della sposa e anche dai sui fratelli (in caso
di collaborazione alla formazione della dote). La dote rappresentava il “compenso” concesso alle
figlie in cambio della loro rinuncia all’eredità. C’era molto divario tra i figli maschi e le figlie
femmine riguardo le quote ereditarie, soprattutto nelle famiglie ricche. La monacazione infatti, veniva
scelta dai padri, coscienti dell’onere che un matrimonio socialmente adeguato comportava. La dote,
quindi, non era un diritto acquisito per tutte le figlie e non tutte le figlie avevano diritto alla stessa
L’esclusione delle figlie dall’eredità,
dote. sebbene fosse la consuetudine più diffusa, non era sempre
definitiva, anche se il loro controllo sulle risorse patrimoniali era assai limitato (per esempio,
dovevano avere un tutore per ogni atto legale).
l’antefato erano assegni maritali di “sopravvivenza” in quanto
Contratto matrimoniale: e il donativo
la donna, alla morte del marito, riceveva una somma di denaro calcolata in proporzione alla sua dote
e non più, come accadeva precedentemente, in relazione ai beni del coniuge defunto. La donna vedova
che si risposava poteva usufruire di un antefato pari alla metà di quello di cui avrebbe goduto se fosse
stato al suo primo matrimonio. Il cuore dell’atto è costituito dall’elenco del corredo, delle suppellettili
padre, per ciascuno dei quali è indicato il “valore
e degli arredi che la donna riceve in dote dal
commerciale”. Compito della famiglia della donna era provvedere al letto ed all’arredo focolare. Il
una situazione economica agiata e l’appartenenza ad un rango sociale
numero di gioielli indica
elevato.
Strategie familiari e mestieri: in assenza di fratelli, una figlia di un ramaro sposava un altro ramaro.
In questo caso la figlia femmina diventava uno strumento indiretto per garantire la continuità del
lavoro, del patrimonio economico e della bottega ai discendenti. Anche in presenza di figli maschi,
ereditari del mestiere paterno, la scelta del genero cadeva su giovani che facessero lo stesso mestiere
del padre della sposa, rafforzando i rapporti sociali ed economici all’interno di uno stesso gruppo in
linea orizzontale. Le figlie dei ramari erano più fortunate delle figlie di altri artigiani, poiché
disponevano di solide basi economiche per la costruzione della nuova famiglia. Nelle doti degli
artigiani quali falegnami, calzolai e sarti, la donazione della casa non era mai presente ed il corredo
era essenziale, privo di gioielli, abiti di tessuti pregiati, somme di denaro e beni mobili ed immobili.
Le strategie familiari, dunque, ruotavano sulla bottega e la donna, nella posizione di figlia. 13
Doti di carità: i fondi o monti dotali erano frutto di lasciti privati o donazioni testamentarie: faceva
parte della pietas cristiana lasciare, alla propria morte, beni che potessero favorire il matrimonio di
fanciulle povere. I criteri di erogazione, gestione e finalità variavano a seconda delle comunità e dei
contesti cronologici considerati. I requisiti di accesso erano rigidi nel caso delle doti di carità
fiorentine: si escludevano vedove, serve e fanciulle i cui genitori non risiedevano da almeno 7 anni
nel territorio; condizioni indispensabili erano onestà e legittimità della fanciulla e della sua famiglia,
età tra i 18 e 25 anni e la scadenza dell’assegnazione di dote dopo tre anni in caso di mancato
matrimonio o monacazione. Criteri meno restrittivi erano quelli del Sacro Monte della Misericordia
di Matera (venivano sorteggiate 2 vergini per una dote di 5 once, durante la messa di S. Giovanni e
S. Giuseppe).
I maritaggi delle “figlie della Madonna” di Napoli e il gioco del Lotto: la direzione del Lotto erogava
maritaggi a favore di ragazze povere, orfane o esposte. Nel 1816, un decreto emanato da Ferdinando
IV di Borbone, disciplinò la partecipazione della Santa Casa dell’Annunziata ai maritaggi del lotto;
stabilì che i 90 numeri estratti fossero ripartiti fra diversi istituti napoletani. Ai numeri erano abbinati
i nomi delle ragazze. Dopo il sorteggio, il maritaggio veniva consegnato alla fanciulla estratta solo
quando quest’ultima poteva dimostrare l’avvenuto matrimonio e il proprio stato di povertà. Erano
frequenti i nomi inseriti più volte nelle liste, scoperti perché estratti due volte. La cerimonia di
estrazione era suggestiva, il popolo partecipava e l’estrazione di 5 biglietti veniva eseguita da un
bambino