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CONTRO LE MOSTRE
Fare a meno delle mostre potrebbe aiutarci ad aprire gli occhi sul contesto vivo in cui l'arte acquista il suo vero senso: un contesto che per noi si chiama Italia.
La storia dell'arte non può rinchiudersi dentro rigidi specialismi filosofici. Esige di non sottostare a furbi compromessi o ad astute collusioni. E chiede di aprirsi, di farsi più dinamica, di radicarsi davvero nella contemporaneità, confrontandosi con altri saperi ed esprimendosi attraverso diversi strumenti e media.
CAP 1: Business Art
La Business Art è il gradino subito dopo l'arte. - Andy Warhol
Sin dall'inizio degli anni '90, il nostro paese è la patria indiscussa del fenomeno del "mostrismo". Le prestigiose istituzioni museali degli altri paesi europei tendono ad affidarsi a programmazioni di lunga durata gestite da autorevoli comitati scientifici e prevedono anche partnership e itineranze. In Italia, no. - Marco Goldin, storico dell'arte
impresario, produttore e manager, inventa un format fortunato che popolerà nel nord Italia: mostre non elitarie, rivolte alle famiglie, dedicate ad alcune tra le stardell'arte moderna e a movimenti iperpop (impressionisti in primis). Tematiche facili (acqua, oro, azzurro, neve), opere non di eccelso livello. L'"effetto Goldin", dal 2000, ha investito Milano. Mostre preparate in fretta, temi spiccioli, opere non eccelse. Unico obiettivo: superare le 200000 presenze.
Il grande moltiplicarsi delle mostre ritengo sia un frutto del nostro tempo, il risultato di quella democratizzazione dei gusti e delle mode che caratterizza il nostro glorioso periodo.
Henry James, 1877
Parole tuttavia attualissime.
MOSTRE DI CASSETTA, MOSTRE BLOCKBUSTER, MOSTRE ALL INCLUSIVE
Maestri universalmente più noti e mediaticamente efficaci sono protagonisti: Caravaggio, Van Gogh, Picasso, Dalì, impressionisti, Warhol alla nausea. Il "trofeo" conosciuto da tutti
viene trasformato in un vuoto idolo, in icona-simbolo. Format molto usato anche "da...a": da Raffaello a Schiele, da Kandinskij a Pollock, da Giotto a Morandi, da Duchamp a Cattelan... Base commerciale e promozionale per soddisfare i bisogni di "masse acculturate". Le opere, un tempo capolavori evocativi, si riducono a mera soddisfazione spicciola e visiva, a puro intrattenimento pseudocolto. Le esposizioni non sono più pensate come un medium privilegiato per aiutare a conoscere in maniera approfondita e critica l'itinerario di un artista, né sono l'esito di un lungo e libero processo di ricerca. Non sono più strumento, ma un fine. Se ne sta eliminando programmaticamente ogni necessità scientifica e conoscitiva. Equivoco educativo-pedagogico. Proposte non elitarie. Si punta al visitatore nuovo, tuttavia non si dota neanche di apparati didattico-esplicativi ben curati: informazioni generiche e devianti. Si insegueIl successo di facciata e il guadagno facile. Si asseconda il gusto di visitatori mordi-e-fuggi, del visitatore frettoloso, distratto e pigro. Una filosofia quasi televisiva: i visitatori si trasformano in consumatori o in clienti; si punta allo share. Ci si sottomette al potere delle celebrities, assecondando quella che Rosalind Krauss, critica statunitense, ha definito "l'estetica del nome proprio". Un'estetica autobiografica, monumento eretto sulla tomba della forma. È in atto la dissoluzione di un genere nato nel Seicento come fenomeno di costume e occasione di celebrazione sociale. Assistiamo all'indebolimento della missione civile delle mostre, decisiva nelle strategie di promozione dello sviluppo della cultura indicate nell'articolo 9 della Costituzione italiana. Si tratta di un ambito in cui il legislatore, negli anni '90, è tornato ad occuparsi seguendo due strade:
Considerate come uno strumento indispensabile per la valorizzazione dell'arte. Si tratta di scelte che, spesso in maniera ambigua, hanno inciso sulla concezione (esclusivamente italiana) delle esposizioni. Sono puri prodotti di entertainment.
I colpevoli? Innanzitutto, coloro che rivestono ruoli di responsabilità pubblica e amministrativa, e che sovente tendono ad assecondare iniziative estemporanee, affidando a società for profit i servizi aggiuntivi (promozione e gestione di biglietteria, di bookshop, di caffè), ma anche funzioni strettamente scientifiche. Evidenti interessi speculativi.
Organizzano eventi effimeri, occasionali, di modesta qualità: senza nessun rigore, con poca attenzione nei confronti degli aspetti conservativi e museografici. Spesso promuovono mostre interamente importate. Preferiscono non "sprecare" energie finanziarie e intellettuali nel reperimento di opere. Meglio evitare anche la fatica delle campagne prestiti di opere.
disseminatenel mondo o presso collezionisti non sempre disposti a prestare opere. Più facile attingere dalmagazzino di raccolte già fatte, che bisogna solo spostare da un Paese all’altro. Destinano ingentirisorse soprattutto al merchandising, alle campagne di comunicazione e alla pubblicità. Perasservirsi alle spietate regole del marketing. E “gonfiare” i contenuti di mostre inesistenti.Altri responsabili: alcuni storici dell’arte, critici e curatori, spesso complici di iniziative dal dubbiovalore culturale. Musei e fondazioni internazionali: istituzioni pubbliche e private che, per soldi,accettano di praticare un sistematico e spietato “espianto” di opere.Richiestissime le retrospettive di Picasso, ormai diventato un brand, uno dei più efficaci del nostrotempo, alla stregua della Disney e di Nike. Un prodotto. Tra i maggiori responsabili di questa deriva:gli stessi eredi del maestro spagnolo. Il figlio Claude in primis,
Dal 1989 alla guida della PicassoAdministration, la cui missione è quella di curare l'eredità e l'immagine dell'inventore del cubismo, ma, al contempo, gestisce la riproduzione dei quadri e delle sculture su libri, giornali, poster e cartoline. Nel 1999 la Picasso Administration stipula con la Citroen un contratto per la nuova Xara "Picasso", appunto. Un modo per trasformare irrimediabilmente un artista in un bene di consumo.
Famoso come un divo del cinema o una popstar, Picasso è un long seller, celebrato da 7 musei monografici. Solo nel 2012 gli sono state dedicate 69 mostre e 40 libri. Provare a salvaguardarne l'identità dalle strumentalizzazioni possibili è un'attività ardua.
Un analogo trattamento è toccato ad altri protagonisti del Novecento: da Dalì a Warhol, da Haring a Basquiat. La loro memoria è custodita da fondazioni che dichiarano di volerne difendere la grandezza e poi si
Affidano a una logica di tipo aziendale. Il loro principale obiettivo: arricchirsi. Spesso speculano sul noleggio delle opere, incuranti della loro conservazione. Trattano l'arte non come un bene attinente alla collettività planetaria, oltre che a quella nazionale e locale, ma come una merce che può essere alienata e scambiata e, talvolta, addirittura venduta.
Quello che si sta affermando in Italia non è la cultura (ormai ridotta a insegna ufficiale del turismo, dei divertimenti, dello shopping), ma il culturale, inteso come trionfo della quantità sulla qualità. Si trasformano le mostre in momenti dello showbusiness, in episodi di natura consumistica. Il museo diventa una fabbrica di divertimenti che l'attualità propone, rivolta solo ad assecondare, nel pubblico, una pervasiva accidia, una negligenza, una prostrazione dello spirito.
Sembra che nella nostra epoca si stia realizzando una profezia di Nietzsche, il quale, nel 1872, in
<p>Una conferenza tenuta presso la Società Accademica di Basilea, aveva delineato il quadro di un sistema educativo guidato dall'immediato profitto materiale e dalla necessità di apprendere rapidamente. Redditività ed efficacia: ecco gli imperativi a cui ci si sta sottomettendo. Valéry, nel 1937, parlava di un'età futura, in cui si sarebbe verificata "una depressione dei valori intellettuali, un abbassamento, una decadenza paragonabili a quelli registrati alla fine dell'antichità". Nel 1959 Longhi aveva elogiato le piccole rassegne di carattere monografico, mentre aveva pronunciato giudizi severi sulle esposizioni ammalianti, scenografiche, male organizzate. In Italia regna l'entertainment. Le mostre sono pensate come carrellate di immagini imperiose, immediate, senza consistenza, prive di rimandi, che devono giungere a noi come fulminazioni, sottraendoci al dovere di riflettere su di esse e alla "lenta penetrazione".</p>delle parole”.1967 Guy Debord aveva descritto la modernità come un immenso accumulo di eventi. Le nostre esistenze si donano come illusorie apparenze: pure messe in scena. Lo spettacolo non è esclusivamente “decorazione sovrapposta”, ma è parte della nostra quotidianità e, insieme, approdo della quotidianità stessa. Un sofisticato gioco tra verità e falsità che custodisce il cuore dell’irrealismo della società, perché la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale.
Le mostre non devono far riflettere, educare, insegnare qualcosa. Devono essere spettacolo, distrarre, far divertire come un qualsiasi reality. In una società che tende a livellare tutto e a eliminare ogni gerarchia, le opere d’arte sono ridotte a semplici strumenti di comunicazione di massa (come la moda, i film, i programmi televisivi).
Non so quando finirà questa orgia di eventi spettacolari, con cui
si cerca invano di far amare la pittura a un pubblico che non la ama. - Pietro Citati
Adorno, in alcune pagine della Dialettica dell'illuminismo, indaga l'industria culturale come strumento per degradare l'arte e la cultura. Che vengono integrate nella trama delle attività di consumo e di intrattenimento: le opere sono solo merci abilmente confezionate. La Kultuindustrie defrauda ininterrottamente i suoi consumatori di ciò che ininterrottamente promette; erige a principio "ingredienti" come l'amusement, che indica bisogno di dimenticare la sofferenza e desiderio di fuga dalla cattiva realtà. Arrivando così a confondere cultura e svago. Una confusione che determina instupidimento progressivo, depravazione della cultura e intellettualizzazione coatta dello svago.
Le MOSTRE BLOCKBUSTER si basano su sontuosi allestimenti; devono sedurre subito e massaggiare freddamente i sensi. Si assegna assoluta centralità a valori come
esteriorità e superficialità. Spettacolarizzazione declinata su vari registri:
- Un solo "clamoroso capolavoro". La filosofia degli organizzatori