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Capitolo 8 - L'ideologia dell'efficienza
La complessità crescente dei contesti sociali, con la moltiplicazione degli attori a livello mondo, la frammentazione degli spazi di interesse tutelati localmente e la perdita di potere delle singole nazioni in un mercato la cui dimensione finanziaria ha assorbito progressivamente anche il peso della stessa struttura economica, ha finito per trasferire a livello di sistema la ricerca di una chiave interpretativa che riducesse le ambiguità, lavorasse sui tempi corti e fosse misurabile su risultati quantitativamente evidenti. L'efficienza è diventata così un must. Se pensiamo che il management oggi è valutato prevalentemente sulla sua capacità di dare risultati pratici, di fare efficienza, eliminando varietà costose e riducendo lo spettro delle opzioni meno operative, è bene riflettere non solo su quello che probabilmente si perde, ma anche sulla effettiva capacità che questa ideologia ha di migliorare la situazione attuale.impostazione ha di rispondere alle condizioni più generali in cui devono navigare oggi le imprese, con l'incertezza crescente che erode buone pratiche e confini difensivi, posizioni di fatto e prospettive di crescita. Dalla perdita delle ideologie storiche, il risultato ultimo è 'impoverimento drammatico del pensiero: si è persa la ricchezza della lingua, con le sue sfumature; la precisione non reca traccia della sua oggettiva vicinanza alle terre del "pressappoco"; nessun sussulto di ironia sulle pretese di verità del metodo, e dei suoi poteri salvifici, intacca il mondo delle certezze codificate in schemi, tabelle, report, ecc. Se dalla crisi non si esce per via quantitativa, la responsabilità del manager è quella di recuperare altre dimensioni nel valutare le situazioni in cui operano, i comportamenti da adottare, l'immaginario stesso da alimentare per offrire punti di presa ai collaboratori, costruendo un mondo che abbiadignità per essere vissuto con soddisfazione e orientato a recuperare ragioni vere, al fine di non arrendersi alla povertà di senso del quotidiano. L'efficienza nel perseguire il metodo, riducendo varianze e risorse, può forse rassicurare nel breve, ma certamente è controproducente rispetto a un contesto ormai largamente destrutturato che richiede plasticità, anticipazione e uso flessibile degli strumenti di governo. Se di una ideologia c'è bisogno, va cercata nel recupero della dignità di pensare, nel rischio di produrre idee anche divergenti; nella voglia di "provarci" comunque a rovesciare i limiti del noto per liberare risorse e cultura, verso un avvenire reso possibile dall'impegno di oggi. Efficienti sì, ma non arresi all'incubo che tutto sia gestione, pratica amministrativa e trionfo del controllo.
Capitolo 9 - Il potere, il comando, l'obbedienza
regole certe e di principi dichiarati, come è quasi sempre prassi generalizzata nelle strutture organizzative, assume l'andamento di una guerra di posizione: ogni gradino conquistato diventa facilmente una trincea, consentendo di mettere a punto strumenti sempre più sofisticati di difesa del territorio, mentre lo spazio di relativa autonomia che si pare predispone da subito a "immaginare il seguito", capitalizzando relazioni, furbizie inevitabili e gusto del primo potere. L'abitudine che si acquisisce nell'esercitarlo è figlia anche delle voglie che guidano nel perseguirlo, ma non sempre le qualità necessarie per arrivare in posizione di leadership sono le stesse che servono poi per governare. Fare i conti con la propria predisposizione al potere, alla sua difesa, è uno dei punti chiave per qualificare non solo lo stile manageriale, ma anche le anomalie che questo si tira dietro, e la propensione a farne uno strumento che spessoserve il suolo e la funzione esercitatameno di quanto non tuteli la persona che lo detiene e, in ogni caso, quello che losubiscono. Il potere, in sé, è una risorsa, una funzione ordinatrice che permette aqualcuno di decidere e di agire per fare accadere delle cose. In una visione statica ilpotere può essere considerato "posizionale", legato cioè al posto che uno occupa eche abilita a decidere e a comandare su altri; ma, in realtà, le cose sono molto piùcomplesse, mano a mano che le strutture si degerarchizzano e le periferie, con lamoltiplicazione di confini mobili che attraversano organizzazioni e persone, mettonocollaboratori e dipendenti nelle condizioni di dover essi stessi prendere decisioni,governare legami e snodi collaborativi, farsi carico di emergenze, confrontarsi con altriall'esterno del proprio territorio di riferimento. In definitiva, e contro ogni aspirazionepersonale all'unicità, si assiste oggi auna diffusione quasi molecolare di questa disponibilità a poter disporre di altri che compongono un universo variegato, in cui si moltiplicano i centri di riferimento e dispone di potere, più o meno limitato, chiunque sia in grado di controllare una fonte, sorgente di incertezza, all'interno di situazioni di relazione e di scambio. Tra gerarchia e autorità, da un lato, e ambiguità carismatiche, dall'altro, si colloca la difficile mediazione di chi, in posizioni che legittimano l'uso del comando, ricerca un equilibrio che riceva consenso e, allo stesso tempo, abiliti a chiedere obbedienza. Spesso il potere promana dalla posizione che si occupa definendo questa uno status e fissando un rango, mentre l'autorità è semplicemente il modo con cui viene esercitata la funzione legata al ruolo. Il potere si conquista e si perde; 'autorità si ha. Considerando anche che la vera autorità è quella che fa "crescere".
che "sviluppa", che si preoccupa di legittimarsi anche indipendentemente dalla responsabilità connessa a una funzione, fino a trasformarsi in autorevolezza. Il potere ha l'obiettivo di far funzionare le cose utilizzando le persone che da lui dipendono.Capitolo 10 - Ripulire i fantasmi e bonificare gli spaziNella realtà tutto si intreccia ai modi con cui imprese, associazioni, istituzioni e simili si organizzano al loro interno e definiscono i confini di interfaccia con la pluralità degli interlocutori esterni. Le persone, con tutto il loro carico di risorse personali, sentimenti e idiosincrasie comprese, navigano in questo ambito, sufficientemente asettico in partenza da richiedere schemi razionalmente collaudati, tali da neutralizzare al massimo le aspirazioni singole e consentire procedure di articolazione, coordinamento e comando, sufficientemente elementari da valere per tutti. Nei fatti, poi, ogni schema tende a corrompersi molto presto, a dispetto.della standardizzazione dei processi adottati. Conservare la ricchezza degli stimoli, che si generano necessariamente nel contesto sociale che finisce con l'essere una organizzazione, e ripulire le scorie o le deviazioni negative che pure prendono vita per via che tutto, nel movimento, spurga il buono e il meno buono, è un impegno che il manager si troverà ad affrontare sempre in bilico tra l'equilibrio temporaneo e la revocabilità continua dei patti raggiunti. Mentre infatti chi partecipa all'inner circle dei vertici tenderà a rafforzare le difese della posizione anche a scapito delle solidarietà organizzative, i marginali finiranno per autoassolversi nel loro disimpegno, svalorizzando anche nella comunicazione implicita dei comportamenti gli sforzi di chi tenta di dare direzione e ritmo ai percorsi di strategia aziendale. Con un di più, sovente, di chiacchiere disturbanti se non esplicitamente malevole. Ripulire incrostazioni e
fenomeni che frazionano, depotenziando la spinta operativa, lo spazio degli impegni diventa così un compito che assorbe inevitabilmente molto del tempo di chi sta a capo nei diversi settori dell'organizzazione. E richiede abilità specifiche. Innanzitutto rendersi conto che nessuno degli strumenti di gestione più perfetti e rodati riuscirà a produrre risultati proporzionali agli sforzi in un ambiente saturo di sentimenti imperfetti e di volontà contrapposte. E poi imparare a nuotare in acque che, a dispetto delle voglie e della preparazione, non saranno mai tranquille se non si impara ad affrontare quei fantasmi che, generati a volte in proprio, a volte per scadimento delle ragioni di solidarietà interna, a volte per imprecisa valutazione dei bisogni delle persone da parte dei capi, inquinano il campo e depotenziano i risultati. Prima o poi c'è sempre il momento in cui il capo deve chiedersi quanto gli convenga "pestare" sui
tasti dell'autorità e del ruolo, e quanto invece sia in grado di guadagnare assumendo la realtà come dato, raccordando gli strumenti con i bisogni espressi e tentando di reimpostare a norma flessibile le divagazioni di una truppa riluttante.
Capitolo 11 - I paradossi della durata
Dove vanno a morire gli elefanti? Nell'immaginario di chi comanda "il potere non ha eredi" e dunque l'idea di dover lasciare la posizione, fosse solo per occuparne un'altra che magari non piace, fa scattare la reazione più elementare: l'arroccamento. Così la connotazione più completa e profonda del potere, in cui si radica il sentimento scontato di ogni capo verso il proprio ruolo, è l'aspirazione alla sopravvivenza. Di qui due conseguenze quasi inevitabili per la sua psicologia:
- Chi si trova in posizione di comando vuole sfuggire alla sua fine e, dunque, l'attenzione prevalente è volta al fatto che non debba
esserci nessuno in giro ingrado di minacciarlo;
- La modalità più abituale e fruttuosa per allontanare il pericolo di venire insidiati nella propria posizione è quella di allontanare gli altri, di crearsi il vuoto intorno.
- La garanzia della continuità nel ruolo è così affiata anche alla scelta di selezionare, lungo il percorso che porta alla crescita della carriera, collaboratori sufficientemente inadeguati rispetto a compiti di rilievo e di responsabilità, ma ampiamente maneggiabili in funzione difensiva, a propria tutela e come massa di manovra contro competitori potenziali.
- Un buon manager sa quando è arrivato il momento di farsi da parte. Forse potrebbe pensare di avere ancora frecce al suo arco, e cose da dire o da dare, ma l'inciampo inevitabile che questo protrarsi delle responsabilità determinerebbe nelle aspettative degli altri, una volta pronti alla successione, graverebbe sull'efficienza di tutto il.
Il testo parla del sistema e sull'ordinata modulazione delle alternanze e delle carriere. È "l'oltremisura" che squilibra gli as