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Essi però decidono liberamente e volontariamente di affidarsi ai Visconti, i quali possono
così rigettare l'accusa di tirannide e al tempo stesso di legittimare una trasmissione
ereditaria del potere che non solo sottrae al popolus la facoltà di scegliere il signore ma
sottrae anche alle potestà universali, quali papato e impero, l'autorità di investirlo.
Questo almeno fino al 1341, quando i due fratelli prestano giuramento di fedeltà a
Benedetto XII e quest'ultimo concede loro il vicariato pontificio; così facendo i Visconti
ottengono ora una legittimazione spirituale che si affianca a quella naturale.
Galvano Fiamma, sostenitore da sempre che il potere temporale deriva da quello
spirituale, gioisce di tale evento, cercando così di subordinare il potere naturale al potere
spirituale. Meno entusiasti sono però i due fratelli che vedono questa nomina come una
mera concessione del pontefice che dunque subordina in qualche modo la loro posizione
a quella della chiesa.
La famiglia milanese in effetti, da Azzone in poi, sperimenta sempre nuove forme di
legittimazione che li rendano il più possibile autonomi da qualsiasi altro attore politico. Un
esempio è l'autorità divinamente conferita negli statuti piacentini.
Anche nelle città soggette di fa sempre più largo l'idea di questo dominio naturale
trasmesso per via ereditaria. Tale principio nel tempo si formalizza in favore di tutti i
discendenti maschi di Matteo visconti. In questo modo Giovanni riavvicina al potere i suoi
tre nipoti: Bernabò, Matteo II e Galeazzo.
Di questi tre fu il primo, Bernabò, a cercare con maggiore forza una legittimazione del
proprio dominio naturale arrivando addirittura a non curarsi molto del titolo vicariale che gli
viene ripetutamente revocato dell'imperatore. Bernabò si sente signore naturale e vicario
di Dio in terra, per questo motivo non percepisce il bisogno di un riconoscimento formale
da parte di terzi. A questo proposito non risultano completamente infondate le dure parole
rivolte alla chiesa e al pontefice, anche se è difficile che egli si sia spinto tanfo oltre da
arrivare a negare la sua subordinazione a Dio.
Su queste accuse, l'abile Gian Galeazzo, nipote di Bernabò, riuscì a delegittimare il
governo delle zio e a gettare dall'ombra anche sui suoi figli, riuscendo in questo modo a
giustificare l'interruzione della naturale linea di successione e a trasferire il dominio
naturale dello stato nelle proprie mani. Formalmente questo passaggio di potere, in al une
città come Cremona, deriva dal volontario atto del popolus che dunque torna ad esercitare
un ruolo politico attivo.
2.5 – La proditio come rottura dell'ordine naturale
Colui che tradisce la fedeltà del signore è reo di un atto contrario all'ordine naturale.
Ledere lo status del signore significa i fatti ledere, prima ancora che il corpo della civitas,
l'ordina naturale di cui la civitas è espressione.
Il crimine proditorio è dunque un reato contro il dominus generalis inteso non nella sua
persona fisica ma bensì nel ruolo sovracittadino che ricopre.
È infatti possibile che le patenti viscontee pubblicate seppur in tempi diversi in tutto il
dominio siano frutto di una riflessione maturata in occasione della tentata congiura del
1340 per opera della famiglia Pusterla che covava un profondo risentimento verso i signori
di Milano, Luchino in particolare, per averli estromessi dall’ago e polito della città.
Scoperto il tradimento quattro Pusterla vengono così condannati al bando dalla città e dai
domini viscontei. I giudici milanesi, nel formulare la condanna, mostrano tutta la
consapevolezza di come una lesione allo status del signore si proietterebbe anche al di
fuori delle singole città coinvolgendo una realtà politica ben più ampi.
Il reato di eversione d'ora in avanti non è più assimilato ad un reato contro il comune e il
suo singolo popolo ma ad un reato contro il dominus, signore di molte città.
3) Il dominus, rettore della patria e non tiranno
3.1 - L'ambizione regia
Intenzioni di Luchino e Giovanni Visconti era la creazione di uno stato che superasse la
dimensione cittadina del dominio attuale.
Seppur contrastati nei vari statuti cittadini, quello dei Visconti è un regime regale a tutti gli
effetti al quale manca solo il titolo regio. Tuttavia a questo regime regale vanno posti dei
limiti e delle cautele; esso costituisce uno stravolgimento costituzionale difficilmente
imponibile si cives italiani, per natura poco servili. Questa resistenza dei cittadini a divenire
sudditi depotenzia e non poco l'intento regale dei fratelli Visconti.
3.2 – Non iam capitanei, sed reges.
Secondo il frate domenicano Galvano Fiamma sono dodici le condizioni necessarie per
ottenere la qualifica di re, così come dodici sono le virtù morali indicate da Aristotele.
Se ai Visconti non mancassero cinque delle dodici condizioni potrebbero essere chiamati
re e non più capitani.
Pur mancando tale qualifica personale, il dominio dei Visconti è a tutti gli effetti un regimen
regale. È della stessa opinione lo stesso Francesco Petrarca, il quale si rivolge
direttamente a Luchino Visconti invocando la necessità di costruire un dominio monarchico
per stabilizzare tutta la penisola italiana.
Nelle lettere del Petrarca dunque, si può facilmente notare come il poeta si unisce al
Morigia nell'allontanare dal Visconti ogni accusa di tirannia.
3.3 - Popolus meus hic
Lo stesso Petrarca, che d'ora in poi diviene sostenitore della casata milanese, viene
utilizzato a più riprese dai Visconti come promotore della loro politica.
Una prima volta alla morte di Giovanni e alla sua conseguente successione dei tre nipoti,
Matteo II, Galeazzo II e Bernabò. In questa occasione l’aretino ha il compito di esprimere a
parole la naturale ed ininterrotta continuità del dominio; Petrarca assegna all'ufficio del
dominus la stessa perpetuità assegnata dal diritto romano all'ufficio dell'imperatore: esso
non può mai avere fine.
Una seconda volta si fa portavoce di Galeazzo II nel 1358, quando il principe rientra da
dominus a Novara, città in cui deve far risuonare il chiaro messaggio del Visconti: popolus
meus hic.
Particolarmente duro deve essere sembrato questo proclama ai cittadini novaresi che per
un paio d'anni avevano sperimentato l'illusione di un ritorno alla passata sovranità
cittadina.
In popolus meus hic, meus indica possessione, proprietà. Ciò è un diritto naturale di
Galeazzo e non positivo, esso deriva dal primo patto stipulato con Matteo Visconti e a cui
tutti i successori che hanno stipulato tale patto sono legati.
La lesa maestà dell'impero e di dio
1) Il legislatore vicario
Se non deriva dai cives, da chi Galeazzo II e successori derivano la potestà legislativa?
Deriva dell'imperatore, il quale l'ha ricevuta a sua volta dal popolo Romano attraverso la
Lex de imperio? Oppure da Dio stesso, prima fonte di fondi autorità temporale, secondo la
lunga tradizione che sottolinea la sacralità del ruolo regio?
La risposta muta negli anni a secondo del contesto politico – culturale a cui si va incontro.
1.1 – Il legislatore vicario dell'impero
Nel 1362 e poi ancora tra il 1371-72, a seguito delle discese dell'imperatore in Italia,
Galeazzo II richiama con insistenza al proprio ruolo di vicario imperiale sospendendo di
voler imitare la grandezza imperiale.
L'insistenza di questo richiamo, più che da un timore verso Carlo IV, deriva da una decisa
volontà di ottenere quella legittimazione che metterebbe a tacere ogni voce circa l'origine
giuridica del dominio dei Visconti e di scrollarsi di dosso l'appellativo di tiranni di Milano. Il
tiranno sarebbe passibile di accusa di lesa maestà e quindi facilmente soggetto ad essere
deposto o, peggio ancora, ucciso.
Se Bernabò poco si cura di tale questione, Galeazzo II e ancora di più il figlio Gian
Galeazzo sentono l'urgenza di legittimare il proprio dominio anche in termini di diritto
positivo e non solo naturale. A questo scopo nello Studium generale di Pavia grande
importanza assumono le lezioni di dritto.
Così facendo il dominus diviene vicario dell'imperatore, almeno secondo la tesi di
Signorolo degli Omodei, il quale afferma che la potestà legislativa del signore non deriva
più dal popolus ma bensì dell'imperatore e la legge così prodotta, poiché legge
dell'impero, ha valenza generale e non più solo particolare.
1.2 – un vicariato effimero
Agli inizi del 1372, nei decreti emanati da Galeazzo II i richiami ad obbedire alla sua figura
sembrano cessare completamente. Non si tratta chiaramente di una pura casualità, ma
bensì alla concorrenza di due eventi funesti: la morte di Signorolo degli Omodei e la
revoca del vicariato da parte dell'imperatore.
La revoca della carica imperiale fu preceduta da una serie di richiami perpetuati al signore
di Milano riguardo alla sua precedente invasione delle terre pontificie. Poiché Galeazzo
rifiutò ogni convocazione l'imperatore gli revocò la carica e lo dichiarò nemico del sacro
romano impero condannandolo per lesa maestà. Inoltre Carlo IV attribuì la carica di vicario
generale dell'Italia alla casa Savoia.
La revoca di tale onorificenza non sembrerebbe durare a lungo visto che già nel 1375, a
seguito di una tregua tra il papa e i due fratelli Visconti, a quest'ultimi veniva riconosciuto il
titolo di vicari dell'impero; tuttavia la situazione precedente produsse degli strascichi, infatti
nei diplomi dei Visconti non compariva più la stretta simbiosi con l'impero.
Tutto questo si inseriva molto probabilmente anche nella contesta che era esplosa in
Francia e i cui echi erano arrivati anche in Italia. Nel regno francese Nicola di Oresme
affermava che la legge del principe poteva non essere in simbiosi con la legge imperiale
ma non per questo perdeva la sua legittimità poiché ogni principe possiede le sue leggi
scritte e i suoi diritti.
1.3 – Il legislatore e lo ius
Non è da escludere che le idee di Galeazzo II abbiano anche risentito delle idee del
consigliere del re di Francia, approdate in Italia attraverso un manoscritto francese.
Secondo Andrea Gamberini, Galeazzo II ha sempre scelto una giustizia di stampo
lealistico, a differenza di quella di Bernabò, più incentrata sulla figura del dominus e sulla
facoltà di derogare alla procedura e al diritto.
La giustizia di Galeazzo non è più al di sopra della legge ma è l'attribuzione ai singoli dei
di