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In capo fiscale i Visconti intervennero quasi sempre senza l'autorizzazione papale e in
piena autonomia, consideravano i beni ecclesiastici risorse preziose il cui sfruttamento
andava tutelato.
L'elezioni di vescovi graditi al principe aveva aiutato questo processo eliminando quasi
completamente le ultime sacche di resistenza. Questo fenomeno continuò imperterrito
anche sotto Gian Galeazzo senza però che esso assumesse un vero e proprio spoglio dei
beni ecclesiastici. Solo in alcuni casi, e in zone di importanza strategica, la condotta del
signore fu più energica e tese alla sottomissione totale di quell'area e dei castelli in essa
presenti.
Le signorie episcopali presenti all'interno dello stato, grandi e piccole che fossero, non
rappresentano per il Visconti una vera minaccia. Esse non avevano affatto mire
egemoniche, al contrario cercano l'approvazione del dominus di modo da continuare a
sopravvivere. Facile per il principe esercitare il proprio ascendente su forze politiche docili
al suo volere e intrinsicamente deboli perché limitate territoriali.
Tuttavia la capacità di intervento del principe non era illimitata come si sarebbe potuto
credere. Il regime giuridico di quegli stessi beni ne limitava un possibile uso solo in senso
clientelare.
La grande diffusione della forma del feudo come strumento di allocazione dei beni
ecclesiastici ostacolava l'accesso del principe su molti dei diritti episcopali e riduceva così i
margini di intervento del Visconti.
Scalfire queste consolidate trame vassallatiche poteva essere un ostacolo quasi
insormontabile per il principe che rischiava di generare un forte scontento nella comunità
ove sarebbe intervenuto e quindi attriti verso la propria casata. Esistevano certamente
escamotage praticabili a cui i Visconti fecero ricorso in più occasioni, come minacce ed
esilii, ma un intervento troppo largo e profondo poteva mutare i delicati equilibri sociali
esistenti. Il mantenimento dello status quo poteva facilitare il principe nell esercitare forme
di patronato politico.
Grazie al controllo sul vescovo per il principe si aprivano anche altri canali, come quello
dell'inquisizione del tribunale vescovile, dei quali esso si servì per colpire ecclesiastici
infedeli in aree politicamente instabili.
Altro obbiettivo di primaria importanza per il conte di Virtù fu la disciplina del culto. La
religiosità del principe si esprimeva attraverso processioni propiziatorie o di ringraziamento
a cui prelati e cittadini erano chiamati a partecipare.
2.7 – Il principe, i vescovi e l'inquisizione
Alla luce del forte controllo sull episcopato esercitato da Gian Galeazzo è possibile leggere
anche il decreto emanato per contenere i potere dell'inquisizione.
Agli inquisitori fu proibito di occuparsi di magia e sortilegi, crimini di cui si riafferma la
competenza vescovile. Altra proibizione per gli inquisitori fu quella di procedere contro i
vescovi e i suoi superiori.
Agli inquisitori veniva inoltre proibito di portare armi e di avere un eccessivo numero di
officiali, inoltre avrebbero potuto subire la scomunica nei casi in cui si rifiutassero di
intervenire o nel caso in cui si dimostrassero disonesti.
2.8 – Una compagine particolare: i vescovi al servizio dello stato
Nel panorama visto fin’ora occorre segnalare una compagine di vescovi, nemmeno troppo
ristretta, che non si limitava a rapporti occasionali e contatti sporadici con la famiglia
regnante ma bensì apparivano legati ai Visconti da un rapporto molto più profondo e
particolare.
Questo legame, consolidato appunto solo da una parte dei prelati, permise a queste figure
di ottenere cariche prestigiose e di essere stabilmente impiegati come ambasciatori nelle
varie città.
Questa ristretta cerchia di persone operò in diverse località del dominio, la loro importanza
è altresì dimostrata anche dal testamento di Gian Galeazzo che affidava ad alcuni di
questi uomini le sorti del consiglio di reggenza che avrebbe dovuto assistere la duchessa
fino alla maggior età degli eredi. Tra queste figure per importanza spicca di certo quella del
Filargis; altri personaggi legati al conte di virtù furono: il Centueri, il Castiglioni, il Borsano
e il Capogallo.
Questi uomini furono generalmente assegnati alle capitali di Milano e Pavia oppure a
territori che versavano in grave disordine come quello del Veneto.
2.9 – I vicari episcopali
Le frequenti assenze di un vescovo nella sua diocesi offrivano grande potere e un largo
spazio di manovra a chi era chiamato a sostituirli.
Ciò non produsse mai un controllo sistematico sulle nomine dei vicari. In questo processo
solitamente il principe lascia carta bianca al vescovo. Generalmente l'elevazione alla
dignità vescovile rappresentava una grande occasione di promozione sociale, a tale
riguardo non era infrequente che a beneficiarne fossero tutti i famigliari. Il vescovo si
preoccupava i fatti di nominare i propri parenti più stretti a caricare importanti, tra queste vi
era anche il vicariato.
2.10 – I vescovi e lo Studium di Pavia
Un vescovo che si rispetti e potesse essere così chiamato a pieno titolo doveva avere in
primo luogo un bagaglio culturale adeguato. I tre poteri di cui era investito, l'ordine, il
magistero e la giurisdizione, non solo lo rendevano responsabile dell'amministrazione dei
sacramenti, dell'educazione del proprio clero e dei propri fedeli, ma richiedevano anche
ottime abilità governative che lo rendessero in grado di modificare le istituzioni della
propria diocesi e di emanare una costituzione se necessario.
L’episcopato visconteo mostrava dunque una cultura piuttosto elevata, legata con
l'ambiente universitario, in particolare con l'Università di Pavia.
Fondato da Galeazzo II nel 1361, lo Studium di Pavia aveva la chiara funzione di
procedere alla formazione tecnica e amministrativa degli officiali destinati all’apparato
amministrativo. Solo nell'età di Gian Galeazzo l'università raggiunse il suo apice
affiancandosi alle più mature università europee. Il principe si adoperò con grande forza di
volontà per proteggere l'università; attirò a sé numerosi maestri italiani, come Baldo da
Perugia, Cristoforo Castiglioni e Giovanni Pietro Ferrari, e si premurò inoltre di indirizzare
e controllare tutta la cultura Pavese.
Questi maestri, giuristi e teologi presenti nell'università pavese puntellarono con le loro
opere la politica viscontea, attaccando le città nemiche come Venezia e Firenze ed
esaltando la politica del Visconti.
In questa cerchia di intellettuali universitari, fedeli docenti dello Studium e della politica del
Visconti, furono successivamente reclutati i vescovi da destinare a sedi particolarmente
delicate.
La forza delle comunità. Leggi e decreti a Reggio in età viscontea
3)
3.1 – Premessa
Questo capitolo ha lo scopo di indagare i modi e le forme assunte dall'intervento visconteo
nel caso specifico reggiano. Ciò che risalta maggiormente è la difesa appassionata da
parte della città dei propri diritti e dei propri statuti nei confronti dell'azione erosiva della
politica signorile.
3.2 – I tempi e i modi dell'intervento signorile sugli statuti
La questione statuaria della comunità di Reggio fu portata all'attenzione di Bernabò già nel
1371, quando ancora il governo visconteo non si era completamente insediato nella città.
Al dominus si chiedeva esplicitamente di riconoscere lo statuto cittadino, redatta nel 1335
sotto i Gonzaga, e di approvarne la forma.
Sotto Gian Galeazzo gli statuti reggiani, così come quelli di altre comunità, vennero
completamente riformati. Nella città presa in questione essi furono consegnati a due
giuristi milanesi e riconsegnati alla comunità solo dopo un lavoro della durata di due anni.
Fra le maggiori modifiche apportate si possono segnalare la crescita della arteria
penalistica, con un accrescimento particolare per le pene. Nel civile vennero invece
inserite alcune delle festività introdotte in tutto il dominio dal Visconti. Sostanzialmente si
può comunque affermare che la struttura dello statuto rimase la stessa.
3.3 – Quando la forma è sostanza
I Visconti, fin dagli albori del loro dominio, ebbero cura di far inserire i loro decreti negli
statuti dei centri cui erano indirizzati. Malgrado questa disposizione, negli statuti reggiani
presi in esame, non un solo editto di Bernabò furono inseriti nella legislazione municipale
della città. Sorte poco migliore toccò agli editti promulgati da Gian Galeazzo.
La mancata inserzione dei decreti, anche dopo l'avvento completo del dominus sulla città,
era un aperta violazione delle disposizioni dei Visconti. Questo gesto di aperta sfida veniva
a configurarsi come un gesto dal fortissimo rilievo politico: l'inosservanza dell'obbligo
rispondeva ad una scelta precisa dietro cui è possibile vedere un estremo tentativo di
resistenza di fronte al consolidamento signorile.
Episodi del genere erano ovviamente presenti anche in molte altre comunità dello stato.
La vicenda Reggiana si collocava dunque in un panorama costellato da numerosi episodi
di opposizione all'arbitro signorile. Gli anziani della città si battevano affinché fossero
messi dei paletti all'azione signorile, di fronte a queste limitazioni però il dominus ribadiva
con forza il proprio potere ponendo alle volte i propri decreti su un piano superiore rispetto
allo statuto cittadino.
Non erano rari anche i casi in cui la comunità sapeva rendersi permeabile a modifiche
sugli statuti. Questo si verificava quando si presentavano opportunità o considerazioni di
convenienza, come quando si rendeva necessario rendere più stretta l'amicizia tra
comunità cittadina e rettore.
3.4 – I decreti ritirati: un'importante rivincita per lo statuto
Malgrado il convincimento del dominus di potere intervenire a proprio piacimento sugli
statuti, la realtà dei fatti era molto diversa. Le comunità difatti detenevano un forte peso
politico e di fronte a quegli interventi signorili giudicati dannosi per la città potevano levarsi
proteste così forti da indurre il principe ad effettuare un rapida retromarcia.
Tra gli ambiti che più si rivelarono resistenti all'iniziativa signorile spicca sicuramente
quello delle norme protezionistiche che vietavano l'alienazione di beni immobili a forestieri.
Su questo terreno si scontrò duramente Gian Galeazzo nel 1386 con pessimi risultati.
Altre tentate riforme che andarono incontro a vivaci proteste in questa regione furono: il
decreto che aboliva la carcerazione per debiti pri