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SUNTO DI BIOETICA E MEDIA, PROF.SSA MARIANNA
GENSABELLA, LIBRO CONSIGLIATO “PERSONE PRIMA CHE
DISABILI” – MARIA ZANICHELLI
1. La condizione disabile fra tutela giuridica e
riconoscimento culturale: in origine, l’Interntional Classification
of Impairments, Disabilities and Hancicaps (ICIDH, 1980)
distingueva tra impairment (anomalia di una struttura o funzione
psicologica, fisiologica, anatomica), disability (limitazione o perdita
della capacità di compiere un’attività in modo normale per un
essere umano) e handicap (condizione di svantaggio conseguente a
disabilità o menomazione). Poi l’International Classification of
Functioning, Disability and Health ha introdotto nuovi standard, che
permettono di valutare per ogni essere umano diversi livelli di
funzionamento e disabilità in base a 4 parametri e di accertare lo
stato complessivo di salute alla luce di fattori contestuali,
ambientali e personali. Il modello ICF identifica tanto la disabilità
quanto la salute a partire dall’interazione tra soggetto e ambiente,
e presuppone che chiunque possa avere qualche forma di disabilità.
La disabilità è riletta come condizione di svantaggio causata da
fattori sociali modificabili. ICF supera i riduzionismi dei due modelli
precedenti. Sotto il profilo giuridico, ciò che accomuna le diverse
forme di dipendenza è l’esigenza di garantire dignità e diritti delle
persone che ne sono colpite, favorendone integrazione e inclusione.
Per quanto riguarda l’UE va ricordato il Trattato sul funzionamento
dell’Unione, che include la disabilità nella lista dei motivi di
discriminazione che l’Unione si impegna a combattere. Sostituisce il
termine disabilità a handicap (vecchio Trattato CE) e la disabilità ha
un posto di rilievo anche nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione. La prima carta dei diritti del terzo millennio è stata la
Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, adottata
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2006. A partire dai
’60 in Inghilterra e Usa, la disabilità fu reinterpretata quale
condizione sociale più che biologica e fu usata come categoria
critica per mettere in discussione assetti istituzionali consolidati. Le
teorie sociali collocano la disabilità nel contesto che marginalizza e
stigmatizza i disabili elevando barriere materiali o comunicative. I
disability studies dagli anni ’70 hanno privilegiato
un’autocomprensione comunitaria, secondo un percorso simile a
quello del movimento femminista. L’approccio dei disability studies
ha però avuto l’effetto di confinare il tema in una sorta di ideologia
autoreferenziale e identitaria, sottraendolo all’universalità del
discorso morale. Riducendo la disabilità a costruzione sociale, e le
persone disabili a una minoranza prodotta dal contesto, si trascura
il dato sostanziale che vi sono individui svantaggiati rispetto ad
altri.
2. Quale giustizia per le persone con disabilità?: l’esistenza di
persone con disabilità sfida uno degli assi portanti del
contrattualismo: l’idea che la società si fondi su un accordo
razionale tra individui liberi, eguali, indipendenti. Le condizioni di
vita dei disabili dipendono strettamente da scelte pubbliche, eppure
molti di loro non hanno accesso alla sfera pubblica e sono esclusi da
ogni possibilità di partecipazione politica attiva. La responsabilità
delle istituzioni di aiutare gli svantaggiati scaturisce dal fatto stesso
che essi esistono e diritto e politica non possono ignorarli.
L’uguaglianza non può essere solo una prestazione che si chiede al
diritto e alla politica. Il nesso giustizia-uguaglianza presenta, in
relazione alla disabilità, una connotazione peculiare e insieme un
rilevante carattere paradigmatico; eppure ciò non sembra essere in
primo piano nella filosofia morale e nella politica contemporanea.
Per Rawls l’ineguale distribuzione delle doti tra gli individui è di per
sé un fatto naturale e come tale né giusto né ingiusto; ma il modo
in cui le istituzioni usano le differenze naturali, lasciando che caso e
fortuna incidano sulle opportunità e sul destino sociale dei cittadini,
costituisce un problema di giustizia. Le doti naturali sono tra i fattori
che determinano le maggiori differenze tra i prospetti di vita delle
persone. Principio di riparazione: le ineguaglianze immeritate
richiedono riparazione, e poiché le diseguaglianze di nascita e le
doti naturali sono immeritate, richiedono di essere compensate in
qualche modo. Rawls però esclude in più occasioni che nella fase
costitutiva si tenga conto dei cittadini che necessitino di cure
speciali. Dworkin ammette che nessuna dose di compensazione
iniziale potrebbe rendere uguali, in termini di risorse fisiche o
mentali, una persona nata cieca o mentalmente incapace e una
persona considerata normale sotto questi aspetti. Se l’espediente
dell’assicurazione sembra garantire una procedura distributiva equa
e imparziale, è dubbio che esso possa fornire un vero e proprio
criterio di giustizia. Le teorie liberal non colgono pienamente la
rilevanza dell’handicap come specifico problema di giustizia: la
disabilità riguarda potenzialmente tutti.
Capacità e funzionamento sono i parametri normativi che
individuano per Sen la giustizia degli assetti sociali. Sen
ridimensiona il rilievo delle risorse materiali come parametri di
giustizia e ribadisce che le disuguaglianze rilevanti in termini di
giustizia sono quelle relative alle opportunità di trasformare i beni in
libertà. Vecchiaia, handicap e malattie riducono la capacità di
procurarsi un reddito, ma incidono pesantemente anche sulla
possibilità di convertire il reddito in capacità (costi superiori per
persone disabili, forme di disabilità più gravi non correggibili
neanche con spese ingenti). Per questo la disabilità è un dato
rilevante per un’adeguata comprensione della povertà a livello
mondiale. A ridurre le ingiustizie può essere solo un impegno su più
fronti: sulla base della discussione pubblica occorre adottare scelte
istituzionali, rettificare i comportamenti individuali, riformare gli
assetti sociali. Lo spostamento di attenzione dai beni alle capacità
rappresenta un importante correttivo al paradigma liberale. Per la
Nussbaum il possesso delle capacità essenziali è condizione
indispensabile perché una vita possa essere ritenuta pienamente
umana. Auspica un ampliamento teorico degli orizzonti della
giustizia fino a ricomprendervi i bisogni delle persone disabili:
bisogni di cura, amicizia, attività, istruzione, rispetto di sé. Si tratta
di un problema di giustizia primario, di cui la società deve farsi
carico fin dalla progettazione delle sue strutture fondamentali. Per
la Nussbaum, quindi, la dipendenza ha carattere diffuso: nelle
società attuali chiunque può trovarsi a sperimentare in alcune fasi
fisiologiche della vita quella mancanza di autosufficienza che nelle
disabilità congenite è permanente. Però fare della vita umana un
ideale normativo dipendente dal possesso di determinate capacità
presuppone che si possa decidere quali vite sono umane e quali no.
Sostiene sarebbe corretto affermare che la condizione del bambino
anencefalico non è abbastanza vicina alla forma tipicamente umana
dell’esistenza perché la consapevolezza di sé è assente. Così
incorre nella riduzione della persona al paradigma kantiano che
contesta ai contrattualisti. Se si può utilizzare un rimedio, lo si deve
utilizzare (Nussbaum), altrimenti si lascia colpevolmente irrisolto un
problema di giustizia.
Alcune tesi di Nussbaum sono frutto di una rilettura del paradigma
liberale alla luce dell’etica della cura. Tale approccio pone in primo
piano la dipendenza qual cifra della condizione umana e assume
come tema specifico di riflessione la cura delle persone dipendenti.
Kittay si propone di elaborare una teoria dell’uguaglianza capace di
includere la dipendenza come criterio di equità sociale. Si accetta
come naturale il fatto che siano quasi solo le donne a prendersi cura
di persone dipendenti, ma ciò costituisce per Kittay un problema
primario: infatti le persone dipendenti sono escluse da un’equa
competizione per i beni sociali e chi se ne prende cura entra in
competizione in posizione di svantaggio. Lo sfruttamento di donne
immigrate produce discriminazioni di razza, oltre che di genere. La
tesi di Kittay è che sia compito delle comunità elaborare politiche
adeguate in modo che i caregivers siano ricompensati e supportati,
possano partecipare alla competizione per i beni sociali, e ricevano
a loro volta le cure cui ognuno ha diritto. L’etica della cura ha
ridimensionato l’utopia dell’indipendenza individuale; ha
configurato la cura come un bene sociale da distribuire equamente
(necessità di un suo adeguato riconoscimento economico).
3. Dalla giustizia all’etica: se si intende la disabilità come
possibilità della condizione umana, si comprende come prendersi
cura di questo tipo di svantaggio sia un dovere istituzionale prima
ancora che una scelta soggettiva occasionale di solidarietà. La
comune umanità di abili e disabili giustifica la maggiore
partecipazione della maggioranza delle persone non disabili alle
agevolazioni stabilite per la minoranza delle persone disabili. Il
paradigma distributivo-commutativo della giustizia presuppone
misurazione, ponderazione, comparazione; permane però
nell’esistenza individuale un margine irriducibile e incomparabile, di
cui non necessariamente possono farsi carico diritto e politica. La
compensazione economica non è una risposta esaustiva al
problema della disabilità. La giustizia non implica solo regole e
procedure, ma presuppone che si assegni valore a determinate
realtà piuttosto che ad altre e che si agisca rispettando le priorità
alla luce di tali valutazioni. Il fatto che ancora oggi le persone con
disabilità siano spesso vittime di esclusione, umiliazione e violenza
chiama in causa l’educazione dei sentimenti morali ben prima che
la giustizia distributiva e le riforme sociali. Promuovendo la
consapevolezza etica e culturale del fatto che le persone con
disabilità meritino speciale cura e rispetto, si potranno potenziare le
politiche pubbliche in loro favore. A plasmare i comportamenti di
ciascuno verso i disabili è l’autocomprensione. Privilegiando
capacità, succes