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INTERVENTO DI OVERING
A questa enunciazione ragionata di Morphy che attribuisce alla categoria di estetica una
valenza interculturale si oppone Joanna Overing. La Overing afferma che l’estetica
appartiene all’era modernista teorizzata in Occidente sul finire del 18º secolo. Si tratta di una
disciplina nata e fondata sui canoni occidentali. Overing insieme a Peter Gow sottolineano
che la concezione occidentale del bello e dell’attività artistica è unica e si basa su una
concezione neoclassica dell’arte. Secondo questi canoni le arti sono svincolate dai contesti
socio-politico culturali e tecnologici. L’arte è come un puro spirito, ideale, non contaminata
da sovrastrutture umane: l’arte è fine a sé stessa e pertanto non può esistere un oggetto
artistico che per esistere possa essere, al tempo stesso, funzionale (ovvero prodotto per un
qualche utilizzo pratico) ed artistico. Per questa ragione la categoria di estetica non può
essere inclusa in culture che ammettono che possa esistere un’opera d’arte che possiede
una sua funzionalità come avviene ad esempio nelle culture mesoamericane. L’arte per
essere “arte vera” deve essere decontestualizzata e questo non lo si può fare se gli oggetti
nascono in un contesto che esige la loro funzionalità. La Overing porta come esempio due
casi opposti: la popolazione degli Zwazibo con il loro CULTO DELL’OGGETTO D’ARTE e la
popolazione dei Piaroa del Rio delle Amazzoni con il culto della ESCLUSIVA FUNZIONE
DELL’OGGETTO. Nel 18º secolo i saggi della popolazione Zwazibo si ribellarono ai loro
sacerdoti abolendo la loro funzione, la religione e gli atti formali dalla loro società,
sostituendoli con il CULTO DELL’OGGETTO D’ARTE, nuovo feticcio religioso. Gli attori del
nuovo culto erano tre: l’artista, l’opera d’arte ed il fruitore di tale opera. Il nuovo canone
estetico che elaborarono prevedeva che nessun oggetto di uso comune poteva essere
considerato artistico ma che solo un OGGETTO INUTILE poteva essere considerato bello ed
appositamente creato per essere contemplato. Gli Zwazibo per celebrare il culto dell’oggetto
d’arte fine a sé stesso, elevato a feticcio religioso, mutarono il loro nome in Borwazi. Nelle
famiglie Borwazi veniva insegnata la contemplazione dell’oggetto d’arte ed un figlio era
sacrificato a diventare artista, creatore di oggetti, quasi un sacerdote della bellezza. Chi
stabiliva il valore estetico dell’oggetto d’arte? Chi contemplava l’opera. In questo modo 9
l’osservatore aveva una supremazia rispetto all’artista poiché era l’unico a poter emettere
un giudizio. I fruitori dell’opera erano i critici che potevano con il loro giudizio legittimare
l’oggetto trasformandolo in arte sacra, oggetto di culto, a prescindere dall’abilità tecnica
dell’artista, messo così in secondo piano. Una minoranza decretava la valenza estetica
dell’oggetto d’arte che era elevato a religione in una visione fortemente elitaria. I critici,
fruitori contemplativi dell’oggetto, mantenevano il potere attraverso l’elevazione dell’opera
d’arte a feticcio religioso che doveva essere non funzionale, inutile, arte per arte fine a sé
stessa, in netto contrasto con il bello artistico degli oggetti dotati di una funzionalità, come
avveniva, ad esempio, nelle culture mesoamericane. Questa concezione diversa tra l’estetica
come culto dell’oggetto d’arte presso i Borwazi, si pone in netto contrasto con il senso del
bello espresso in una cultura mesoamericana, nella quale si esprime la bellezza dell’oggetto
anche in relazione alla sua funzionalità. Ciò conferma che la categoria di estetica non può
essere una categoria interculturale.
La popolazione Piaroa produce oggetti per uso quotidiano finemente decorati e progettati
per essere intrinsecamente belli e produrre così sensazioni piacevoli in chi li osserva. Negli
oggetti che creano, i Piaroa mettono il proprio pensiero, vi inseriscono i sentimenti più
profondi e questi oggetti diventano in tal modo una appendice del loro artefice. Essi hanno
un senso per la finalità per la quale sono stati prodotti. In questo caso non vi è il
contemplatore ma le figure di riferimento sono solo due: l’oggetto ed il suo creatore. Il
creatore ha inserito nell’oggetto la potenza che deriva dall’essere un oggetto di uso
quotidiano. Questo concetto di uso quotidiano e funzionale è contrario ai canoni dell’estetica
occidentale: pertanto anche per il Piaroa non si può parlare di estetica come categoria
interculturale per la ragione che l’estetica occidentale non ammette il concetto di oggetto
d’arte come oggetto funzionale, mentre per i Piaroa la bellezza sta nella capacità che un
oggetto ha di possedere una sua specifica funzione. In sintesi per i Borwazi l’estetica è il culto
dell’oggetto d’arte privo di funzionalità mentre per il Piaroa il concetto estetico è
strettamente legato alla funzionalità dell’oggetto creato dall’artista. Queste concezioni
opposte dimostrano che l’estetica non è una categoria interculturale. 10
INTERVENTO DI COOTE
A favore della mozione si schiera Jeremy Coote. Riprendendo le motivazioni di Morphy e
citando alcuni lavori sul campo relativi a popolazioni africane egli dimostra che la categoria
di estetica, seppur con parametri ed elementi valoriali e culturali molto diversi rispetto a
quelli appartenenti all’estetica occidentale, è presente anche presso queste popolazioni. E
se lo è perché non dovrebbe esserlo in tutte le culture? Sicuramente un senso estetico
specifico di ogni cultura esiste ma non deve essere valutato con gli occhi della nostra
esperienza valoriale etnocentrica.
INTERVENTO DI GOW
Peter Gow in accordo con Joanna Overing si schiera contro la mozione. Egli afferma che il
problema risiede nel giudizio dell’opera d’arte. L’antropologia studia e compara culture
differenti ma non le giudica anche quando il giudizio potrebbe essere positivo. Questo
aspetto comparativo antropologico occidentale non è in accordo con la categoria di estetica
che si basa sul giudizio e sulla conformità dell’opera d’arte a canoni classici occidentali ed
alla non funzionalità dell’oggetto. Il confronto tra la scienza antropologica e la categoria di
estetica impone una distinzione ben precisa: l’antropologia volutamente non esprime giudizi
che al contrario vengono espressi nella categoria di estetica. Questa differenza rende
incompatibili tra di loro antropologia ed estetica nel senso che le due discipline non possono
appartenere allo stesso ambito valoriale. Questo stato di fatto può essere spiegato meglio
se prendiamo in considerazione i concetti di “primitivo” e di “esotico” nelle due discipline.
L’antropologia colloca l’oggetto “primitivo”, non occidentale a prescindere dall’epoca nella
quale è stato prodotto, nel solco della sua cultura di origine; lo studia e gli attribuisce un
significato assegnandogli una funzione specifica, un uso quotidiano e quindi moderno nella
specifica cultura. Tutto questo non è ammesso dall’estetica che vuole che gli oggetti non
vengano collocati nella cultura di appartenenza e relegati ad oggetti di uso quotidiano: essa
vuole che questi oggetti rimangano “esotici” e l’apprezzamento è tanto più elevato quanto
più questi oggetti rimangono “esotici” perché non è ammesso che questi diventino funzionali
e quindi moderni. Si tratta di due approcci opposti. L’antropologia dovrebbe seguire, per
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quanto riguarda gli oggetti d’arte, i canoni dell’estetica e non cercare di dimostrare una
interculturalità che risulta essere la negazione dei principi stessi dell’estetica occidentale.
LA TECNOLOGIA DELL’INCANTO E L’INCANTO DELLA TECNOLOGIA (Alfred Gell)
IL FILISTEISMO METODOLOGICO INTESO COME ATTEGGIAMENTO DI ASSOLUTA
INDIFFERENZA VERSO IL VALORE ESTETICO DELL’OPERA D’ARTE
Mentre l’arte è sostanzialmente scomparsa dai temi dell’antropologia così non è avvenuto
per le tematiche religiose, questo per un maggiore interesse degli antropologi verso la
religione piuttosto che per l’arte. L’approccio antropologico alle tematiche religiose è
definito come ateismo metodologico ovvero un metodo di indagine sull’influenza della
religione nella società e nella cultura, influenza che parte dall’assunto che i dogmi ed i punti
cardine della religione non siano veri.
Un simile approccio all’arte ed alla sua influenza sulla cultura e società ha come il metodo di
indagine quello che può essere definito come filisteismo metodologico, ovvero una
metodologia che considera l’arte come priva di qualsiasi interesse sia nei confronti di un
oggetto primitivo che di un oggetto occidentale. il filisteismo è indifferenza come l’ateismo
è presunzione di non verità rispettivamente nei campi dell’arte e della religione.
L’ARTE COME SISTEMA TECNICO
Non è possibile, pur nell’applicazione del filisteismo metodologico, ovvero nel volere
dimostrare indifferenza verso le opere d’arte, non ammettere che queste comunicano alla
nostra mente sensazioni estetiche. Noi possiamo dirci disinteressati nel considerare le
percezioni che raggiungono la nostra mente provenendo dall’opera d’arte, ma non possiamo
non ammettere che queste sensazioni estetiche ci colpiscono e che pertanto esistono:
abbiamo il dovere di prenderle in seria considerazione.
L’antropologia dell’arte si basa sulla tecnologia come un mezzo con cui gli artisti, utilizzando
processi tecnologici, calano l’arte nella società e nella cultura. L’arte è quindi,
antropologicamente, un sistema tecnico. Quando parliamo di arte calata nella società e nella
cultura intendiamo un vasto sistema tecnico che esercita un influsso nella società che è detto
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TECNOLOGIA DELL’INCANTO. Gli artisti sono gli artefici della TECNOLOGIA DELL’INCANTO.
L’osservatore, fruitore delle opere d’arte subisce una fascinazione, un potere, da parte di
queste opere d’arte che viene detto INCANTO DELLA TECNOLOGIA. In sintesi: l’arte ha in sé
stessa una componente tecnologica mediante la quale vengono prodotte le opere d’arte che
una volta immesse nella società costituiscono l’agente materiale attraverso cui si crea sulla
società un influsso detto TECNOLOGIA DELL’INCANTO. L’osservatore che fruisce dell’opera
d’arte subisce una fascinazione, un pote