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I
oppure per un uso di carattere politico-religioso o come oggetti per il pagamento dei
tributi o per doni ad altri sovrani, spesso prodotti con materie prime di provenienza
esotica, erano invece opera di artisti specializzati che spesso lavoravano per un
“patrono” nobile o per lo stato.
Come scritto in precedenza nella città azteca esistevano i Calpultin artistici (plurale
di Calpulli) ovvero insieme di edifici in cui nuclei di persone accumunati da uno
stesso segno distintivo: etnia, ruolo sociale, professione, etc. esercitavano la loro
azione in favore dello stato. Tra questi nuclei abitativi della città azteca vi erano
anche scuole ove si insegnava l’arte specifica ivi esercitata in cui abitavano e
lavoravano insegnanti ed artisti specializzati nella produzione di beni appartenenti
ad una specifica attività (ad esempio i lavoratori delle piume, gli orafi, i lavoratori di
pietre preziose, etc. In queste strutture l’attività artistica si tramandava di padre in
figlio ed interi nuclei familiari lavoravano insieme ad allievi in addestramento.
Alcuni artisti appartenevano alla classe nobiliare ma, nella maggior parte dei casi,
si trattava di persone non nobili che godevano però di uno status privilegiato e di
una notevole ricchezza. I beni prodotti con materiali sui quali lo stato aveva il
controllo, avendone curato l’importazione da altri territori, non potevano essere
commercializzati dagli artisti ma dovevano essere conferiti alle élite, ai religiosi o
dello stato come manufatti suntuari e venivano prodotti da artisti di corte, artisti
nobili. Tra gli artisti nobile gli scribi/pittori erano quelli più importanti di rango
superiore agli artisti di manifattura, creatori di beni materiali.
Anche sovrani locali o loro discendenti non destinati a succedergli si dedicavano
prevalentemente alla scrittura pittografica, alla poesia, all’arte oratoria, alla
divinazione ed al canto.
Questi artisti di rango superiore, scribi/pittori in primo luogo ma anche artisti di
manifattura di grande capacità tecnica, erano produttori di beni suntuari di elevato
livello e venivano ammessi ed addestrati in una scuola religiosa di alto livello il
Calmecac, equivalente del Calpulli artistico ma riservato ad artisti di censo e
capacità superiori che lavoravano esclusivamente per lo stato centrale sotto la
guida di grandi maestri. In queste strutture l’insegnamento era particolarmente
rigoroso e la disciplina era ferrea. Come detto era usanza comune quella di
utilizzare gli artisti di corte come doni diventando essi merce umana di scambio
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come regalo di un signore ad un altro signore o come pagamento di un tributo
poiché era sconosciuto l’uso della moneta ed un grande artista era equivalente ad
un grande dono o ad un importante tributo. Gli artisti di corte venivano altresì
impiegati come ambasciatori in virtù delle loro capacità oratorie e politiche,
fungendo da spie, come avveniva per i mercanti.
In generale il termine artista in lingua nahuatl era toltecatl, termine che letteralmente
indicava l’abitante di Tollan, “Il Luogo delle Canne, località simbolo della ricchezza,
della raffinatezza e della civiltà. Tollan è il nome dato al mitico luogo di origine che
identificò nei diversi secoli Teotihuacan, la citta di Tula, capitale dell’impero Tolteco,
e da ultimo Tenochtitlàn principale citta azteca.
Gran parte delle informazioni sulle attività artistiche ci sono giunte grazie ai libri 10
e 11 del Codice Fiorentino di fra’ Bernardino de Sahagún, missionario francescano,
(Codice coloniale scritto intorno al 1570 circa e conservato nella Biblioteca Medicea
Laurenziana di Firenze). Questo Codice consta di 12 volumi con oltre 1400
illustrazioni e descrive la struttura sociale azteca, la vita ed i costumi di questa
popolazione, i loro concetti morali e riporta informazioni sugli artisti e sulle arti fino
a parlare della conquista spagnola e della prima opera di evangelizzazione dei
nativi. Il testo scritto in nahuatl e tradotto in spagnolo da Sahagùn che interrogò per
molti anni i nativi ottenendone preziose informazioni che essi dicevano di avere
tratto dai loro libri antichi, si dimostra critico circa la conquista della Mesoamerica
da parte degli spagnoli e circa i metodi di evangelizzazione di quelle popolazioni,
ragione per la quale ne è stata vietata la pubblicazione, avvenuta solo nel XIX
secolo. 122
Pagine del codice fiorentino
Bernardino de Sahagùn, riferendosi alla capacità dell’artista (toltecatl), prende come
prototipo dell’artista il tolteco esprimendosi in questo modo: «Il tolteco è discepolo,
poi maestro di molti. Il buon tolteco è abile, esperto, sottile, ingegnoso, riflessivo. Il
buon tolteco lavora le cose con il cuore, paziente, calmo. Opera con eleganza il
tolteco, fa le cose con abilità; costruisce, prepara, dispone, ordina, colloca, combina
materiali. Il cattivo tolteco è senza cura, imbroglione, ladro, furfante. Agisce senza
considerazione; inganna, ruba». (Sahagún1950-1982: X, 25). Da notare la dualità
tra buon artista e cattivo artista messi in contrapposizione non solo per quanto
riguarda l’abilità tecnica ma anche e soprattutto per il giudizio morale, sempre
negativo per il cattivo artista.
Un altro termine nahuatl relativo agli scribi/pittori è tlamatini, il “saggio”: «Il saggio è
una brace di pino, una grande brace di pino che non fa fumo, uno specchio, uno
specchio forato su entrambi i lati. Possiede il nero, il rosso, i libri, i libri. Lui stesso è
nero e rosso, è sentiero, guida; conduce le persone, un rematore, un compagno,
responsabile, una guida. […]. Il cattivo saggio […] è vanaglorioso, sua è la
vanagloria […] imbroglia, confonde, causa malattie, conduce al male» (Sahagún
1950-1982: X, 29). Come da prassi di Sahagùn esiste sempre la contrapposizione
tra artista buono, ossia bravo e capace non solo nell’esercizio della propria arte ma
anche moralmente retto, al contrario del cattivo artista che è sempre abbinato a
concetti negativi riguardo alla moralità.
Secondo quanto riportato da Bernardino de Sahagún nel Libro IV del Codice
Fiorentino, i predestinati all’attività artistica erano coloro che erano nati nel giorno
“1 Fiore” ovvero mese 1 giorno Fiore: «In questo modo era considerato colui che
nasceva in questa data, sia che fosse nobile o plebeo. Egli sarebbe diventato un
cantore, un portatore di gioia, un narratore di storie, un bravo artista. […] e colui che
non vi si dedicava, che lo disdegnava, che solo disprezzava il suo destino (non gli
sarebbe piaciuto diventare un artista), allora, si diceva che quando uno così fosse
diventato cantore, o un artista […] sarebbe divenuto presuntuoso, altero, ingrato,
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vanaglorioso, altezzoso, irrispettoso, pieno di orgoglio». (Sahagún 1950-1982: IV,
23).
Il capitolo del Codice Fiorentino dedicato alle pietre preziose (Libro XI, cap. 8)
ricorda in nahuatl che esse non sono ancora: «buone, fresche e verdi» (Sahagún
1950-1982: XI, 221), mentre nel testo tradotto in spagnolo si asserisce che: «non si
trovano così belle e levigate e splendenti». (Sahagún 2000: III, 1118). La matericità
e la vitalità delle pietre si manifesta attraverso qualità quali brillantezza e lucentezza
che divengono manifeste solo in un secondo momento: «[…] quando l’hanno
trovata, la lavorano, la tagliano. E poi la lavorano con sabbia abrasiva; la levigano.
Per lucidarla di più, per farla luccicare, la sfregano con una canna sottile; la fanno
brillare». (Sahagún1950-1982: XI, 222).
Una chiara enfasi sull’estenuante lavoro di levigatura è ravvisabile anche nei testi
del Codice Fiorentino dedicati al lavoro del lapidario (Libro IX, cap. 17; Libro X, cap.
7), descritto come: «…un levigatore, un lucidatore, che lavora con la sabbia, che
incolla con colla spessa, che lavora con sabbia abrasiva, sfrega, con una canna
sottile, le fa brillare. Lui le fa brillare. Il buon lapidario […] macina, lucida, applica
sabbia abrasiva. Le sfrega con una canna fine; le fa brillare. […] Il cattivo lapidario
è uno che gratta le pietre, le rende ruvide; fa un rumore di pietre che sbattono. […]
Gratta, rende ruvide, rompe, polverizza, rovina, danneggia; fa un rumore di pietre
che sbattono». (Sahagún 1950-1982: X,26).
Levigatore di pietre
E ancora: «Gli artisti lapidari tagliavano il cristallo di rocca, l’ametista, le pietre verdi,
la giada con sabbia abrasiva e metallo duro e le strofinavano con uno strumento di
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selce. E le perforavano; le forava con un trapano tubolare di metallo. Poi lentamente
ne levigavano la superficie, la lucidavano; le davano un lustro metallico. Poi la
rifinivano con un pezzo di legno. La lucidavano affinché brillasse, affinché
emettesse raggi di luce, luccicasse. O con un pezzo di canna sottile i lapidari
lucidavano, rifinivano, perfezionavano i loro prodotti». (Sahagún1950-1982: IX, 81)
Vaso in alabastro finemente levigato e lucidato
raffigurante una scimmia
Secondo gli informatori di Sahagún nativi Nahua, la presenza di pietra verde
sottoterra si poteva intuire osservando la superficie: «In questo modo sanno dove
è, possono vederla respirare, fumare, emettere vapore»; quindi: «sanno che questa
pietra preziosa è là, perché le erbe crescono fresche, crescono verdi. Dicono che
questo è il respiro della pietra verde, e che il suo respiro è molto fresco».
(Sahagún1950-1982: XI, 221-222)
La modalità di ricerca delle pietre descritta nel testo sahaguntino deriva da una
proprietà condivisa da diverse delle pietre menzionate nello stesso capitolo. Della
giada, ad esempio, si dice che: «attira l’umidità, diventa bagnata, ha la rugiada […].
Diventa verde, luccica, luccica costantemente; brilla, emette luce, emette
costantemente luce, emette raggi» e similmente la giada traslucida, più preziosa:
«attrae e trasuda umidità. È perfetta, fine, con una buona grana: ha colori
iridescenti». (Sahagún 1950-1982: XI, 222). Similmente i Toltechi scoprirono le
pietre preziose grazie al fatto che: «…un po’ di fumo, un po’ di vapore sale là dove
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la pietra preziosa si trovava, sia sottoterra che dentro una roccia. Quando la videro,
era come se la pietra stesse fumando». (Sahagún1950-1982: X, 168). La pietra
preziosa viene scoperta perché essendo umida fa uscire il vapore dalla terra o dalla
roccia che la include.
Esiste una som