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Turner fu suo allievo; studiò i conflitti che caratterizzavano le società, proponendo una visione

essenzialmente dinamica dei fatti, ed allontanandosi sempre più dalle concezioni struttural-

funzionaliste. L'interesse di Turner fu quello di decifrare il modo in cui gli individui di un gruppo

erano in grado di manipolare gli apparati simbolici e normativi di una società, al fine di perseguire

un vantaggio personale. Esiste nel significato dei simboli, uno “interpretativo” ossia quello che si

ricava dalle parole degli informatori; uno “operazionale”, cioè i diversi modi in cui il simbolo è

usato in diversi contesti; uno “posizionale”, che consiste di una parte nascosta del simbolo che è

rivelata dall’associazione regolare con un altro simbolo. All’interno di un singolo simbolo il suo

livello di significato può essere manifesto, nascosto o latente, per cui spiega come sia possibile agli

individui introiettare le regole sociali. Il capitale simbolico di una società che si esprime nel rito non

solo cura il conflitto tra individuo e società riportandolo ad uno stato di equilibrio: cosi si provoca

uno scarto tra norma e comportamento che viene “depurato” dal rito. In un’altra opera Turner ha

sviluppato l’idea che esiste una relazione tra rito e società e l’ha interpretata come l’organizzazione

della società in due principi opposti ma complementari. La società ha una struttura, un sistema di

ruoli, spesso gerarchici; ma a volte ha la forma di una comunità indifferenziata ed egualitaria. In

questi momenti emerge un legame umano essenziale e generale senza cui non ci potrebbe essere

società. La comunità è il presupposto della società.

4. Significato conscio o inconscio?

Uno dei presupposti del funzionalismo è che l’efficacia del rito dipende dalla sua natura simbolica.

Ma la nozione di simbolo è utilizzata in modo molto vago; Durkheim e successori affermano che il

rito simboleggia la struttura sociale, ma questa relazione simbolica non rappresenta alla lettera il

rito e quindi il significato che gli attribuiscono coloro che lo fanno. Turner introducendo il

“significato inconscio” solleva ulteriori difficoltà di natura sociologica: infatti non esiste una teoria

della psiche come quella freudiana per giustificare i contenuti inconsci; per cui non viene fornito il

criterio con cui distinguere contenuti che sono significati inconsciamente dai contenuti che un

interprete può postulare. La mancanza di tale criterio si risente in alcune analisi dei segni linguistici

del rito, di cui Alfred Gell costituisce un esempio. Egli ha osservato tra gli Umeda della nuova

Guinea un rituale complesso che non è riuscito ad interpretare dai suoi informatori. Ma egli

giustifica la ricostruzione della semantica inconscia del rito: metodologicamente afferma che esiste

una relazione quasi predittiva fra le parti del sistema, per cui una coerenza logica di un modello di

spiegazione del rito è di per sé garanzia di verità. Ridurre un rito a significati che sono compatibili

con un modello coerente non dimostra che tali significati esistono di per sé senza individuare

l’interprete in rapporto a cui essi esistono. Da un punto di vista “ontologico” Gell afferma che i

simboli del rito sono simboli di una realtà trascendente che si può cogliere solo attraverso il simbolo

stesso; non spiega come ma crede di poterne dedurre il diritto di chi osserva di spiegarlo all’esterno.

Ma se è vero che il rito è fatto di esperienze trascendenti, l’osservatore può solo tentare di

immettervisi; ricostruire oggettivamente il senso di simboli che sono stati definiti a priori

intraducibili e il cui significato dipende dall’esperienza soggettiva è un’assurdità, a meno che

l’osservatore acceda alla trascendenza che è invece accessibile agli indigeni solo attraverso i

simboli, per cui inconsciamente.

L’analisi di Lewis critica che si possano riconoscere nel rito atti di comunicazione veri e propri,

poiché questi hanno un’intenzione comunicativa e un mittente, un veicolo per comunicare e un

ricettore che riceva effettivamente il messaggio. La presenza di questi tre fattori non si trova in tutti

gli atti rituali; secondo Lewis i segni usati dal rito non sono comunicativi quanto espressivi, ossia

sintomatici o indicativi: non presuppongono un codice ma sono passibili di interpretazioni diverse,

variabili soggettivamente. Tale simbolismo espressivo permette di spiegare il fatto che il rito è

efficace, cioè che ha degli effetti sui partecipanti. Secondo Lewis il rito permette di esprimere ciò

che non può essere espresso verbalmente, ma rifiuta di considerare il significato inconscio, sebbene

alcune condizioni non consce dei riti hanno un ruolo sulle rappresentazioni consce, orientandole in

qualche direzione. Ciò spiega perché le rappresentazioni abbiano una certa struttura e un certo

contenuto e perché sono compatibili e funzionali in una certa situazione sociale, psichica, ecc.

Entrambi gli approcci sono insoddisfacenti: uno ignora l’esistenza di aspetti inconsci nel rito, l’altro

prescinde l’assenza di interpretazione conscia; senza escludere l’esistenza di alcuni aspetti intuitivi

potenzialmente accessibili ad una introspezione riflessiva e non totalmente inconsci, nella

comunicazione bisogna sottolineare che ricavare informazioni da un comportamento inconscio non

lo rende un “messaggio”: l’informazione viene desunta per inferenza dall’osservatore. È qui che si

inserisce l’aspetto cognitivo del rito.

5. Comunicazione o invenzione?

Senza negare l’esistenza di aspetti comunicativi nel rito, esso non appare come un codice per

trasmettere dei messaggi preesistenti ma come un meccanismo che permette di ottenere delle

informazioni nuove. Questo perché il processo rituale si basa si aspettative e proiezioni del

recettore: l’elemento di anticipazione e proiezione diventa preponderante rispetto a ciò che viene

recepito effettivamente. Anzi l’azione rituale non si modifica affatto in funzione della reazione dello

spettatore: si presenta come un insieme di segni senza però offrire il codice che permette di

interpretarli compiutamente. Appare da una parte dotato di senso, dall’altra come privo di senso

apparente. Questo contrasto, questa inadeguatezza permanente fra stimolo e risposta costituisce un

aspetto strutturale del rito, che gli permette di funzionare come uno strumento per trascendere i

significati e regole dati. Ciò avviene in particolare quando il rito mette tra virgolette elementi ed

aspetti fondamentali e allo stesso tempo problematici della vita quotidiana, stimolando un avere

riflessivo più o meno conscio. Esso funziona proprio in virtù del fatto che non costituisce un codice

apprendibile una volta per tutte. Il rito tende a mettere in evidenza sia ciò che è contraddittorio o

oscuro nell’esperienza interna dei soggetti o esterna (della società, della natura). Talvolta questi due

livelli confusi e sovversivi sono messi in rapporto: alcuni riti stimolano una sorta di acting out

psicologico per cui elementi dell’esperienza di certi soggetti sono proiettati in risposta ad una

aspettativa collettiva su elementi incomprensibili dell’esperienza sociale per darle loro un senso (es.

riti sciamanici). Altri riti presentano questi aspetti proiettivi più regolati, come nelle feste, un cui

una certa destrutturazione controllata del quotidiano ha lo scopo di ricostruirlo nella coscienza

collettiva restituendone il senso con uno scambio continuo tra ordine esterno della realtà e ordine

interno dei soggetti. Esistono infine riti in cui l’aspetto ludico è minimizzato e riproducono le

strutture normative rappresentandole in modo altamente ordinato, formalizzato, centrato

sull’estetica, che contrasta con il relativo disordine della loro realizzazione nel mondo quotidiano.

Efficacia sulla società e sulla natura

L’efficacia cognitiva del rito resta implicita e non è concettualizzata dall’ideologia indigena, ma

altri tipi di efficacia sono più direttamente presenti alla coscienza indigena. Il rito ha un certo effetto

ed è fatto per un certo scopo; i risultati non sono esclusivamente sociali, come il passaggio da uno

status ad un altro, ma anche concettualizzato in senso biologico o di augurio di prosperità. Altri riti

hanno lo scopo dichiarato di influenzare o modificare processi naturali. Per rendere conto di questo

aspetto bisogna partire dai riti cerimoniali. Essi esistono anche nella società moderna (es. il

matrimonio civile.. quando il sindaco pronunzia “vi dichiaro marito e moglie” gli sposi lo diventano

davvero. La parola ha un effetto sulla realtà, dovuto a una convezione collettiva). L’atto linguistico

che ha un simile effetto è chiamato performativo e il suo aspetto capace di produrre effetti reali è

chiamato forza illocutiva: il dire equivale al fare e certi riti hanno effetti reali e non immaginari.

Questi effetti apparentemente magici non sono affatto magici: il loro potere deriva dal potere che la

società esercita su se stessa, di prendere una decisione e riconoscerne gli effetti. Questo uso

illocutivo del linguaggio rispecchia l’antica e primaria tendenza ad antropomorfizzare la natura e

naturalizzare la società. Il fatto che certe culture estendono la validità degli atti performativi al di là

dei limiti reali della loro validità non implica che confondano totalmente natura e cultura, ma che la

frontiera tra queste non è così netta come stabilita da noi. In ogni caso si può affermare che ovunque

c’è una religione esiste un’area in cui non c’è distinzione tra natura e società; l’elemento comune a

ogni religione è l’idea che i processi naturali dipendono in certa misura dall’ordine morale. Perché il

rito possa essere considerato efficace (concezione durkheimiana) è necessario l’esperienza della

forza che la società ha sugli individui che la compongono e l’esperienza degli effetti che questa

forza ha sul mondo naturale attraverso i suoi effetti sulle volontà.

Convenzione ed esperienza

L’area di applicazione dei performativi, interpretabili in base alle convenzioni, non è puramente

convenzionale ma dipende da una certa conoscenza ed esperienza del mondo. Estenderli alla natura

incontra nell’esperienza una resistenza; il rito pretende che alcuni eventi accadano davvero, e la

differenza è colmata dall’interpretazione, che fa entrare in gioco fattori che permettono di spiegare

se un rito non ha successo senza smettere di credervi. Ma questo potere non è illimit

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A.A. 2015-2016
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-DEA/01 Discipline demoetnoantropologiche

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher ariannapicistrelli di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Antropologia delle pratiche simboliche e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Lupo Alessandro.