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PARTE SECONDA
2. L’impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo
Lévi-Strauss
Ne “Il pensiero selvaggio” l’antropologo francese nota che la spiegazione scientifica
consiste nel sostituire una complessità poco intelligibile con una che lo è di più. Per quanto riguarda lo studio
dell’uomo, la spiegazione consiste spesso nel sostituire immagini semplici con altre complesse. Di solito
l’avanzamento della scienza consiste in una complicazione progressiva di quella che prima sembrava una
serie di nozioni semplici, ma che ora ci appaiono semplicistiche. È dopo questa specie di disincanto che
l’intelligibilità comincia a basarsi sulla possibilità di sostituire ciò che è complicato ma comprensibile a ciò che
è complicato ma resta incomprensibile. Dopo aver cercato la complessità, e dopo averla trovata su una scala
più vasta di quanto avessero mai immaginato, gli antropologi hanno finito per impigliarsi in un tortuoso sforzo
per darle un ordine. La concezione illuministica dell’uomo sosteneva del resto che egli era tutt’uno con la
natura e ne condivideva un’uniformità generale di composizione, scoperta dalla scienza naturale sotto
l’impulso di Bacone e la guida di Newton. Tuttavia il concetto della natura della natura umana aveva delle
implicazioni molto meno accettabili, di cui la principale era che tutto ciò la cui intellegibilità è limitata a
uomini di una speciale età, razza, temperamento, tradizione o condizione è senza verità o valore per un uomo
ragionevole. Il guaio con questo tipo di concezione è che l’immagine di una natura umana costante,
indipendente da tempo, luogo e circostanze, è forse un’illusione, e che ciò che l’uomo è può intrecciarsi
talmente con il luogo in cui si trova da diventarne inseparabile. È proprio la considerazione di una simile
possibilità che portò alla nascita del concetto di cultura e al declino della concezione uniformista dell’uomo.
L’antropologia moderna è salda nella convinzione che uomini non modificati dalle usanze di luoghi particolari
non esistono, non sono mai esistiti e non potrebbero esistere. Coltivare l’idea che la diversità di usanze nello
spazio e nel tempo non è solo questione di costumi e di apparenza, di scenari e di maschere, vuol dire credere
anche che l’umanità è tanto varia nella sua essenza quanto lo è nell’espressione.
Secondo la concezione “stratigrafica”, l’uomo è un composto di “livelli” (biologici, psicologici, sociali e
culturali), ciascuno che si sovrappone a quelli sottostanti sostenendo quelli sopra. Analizzando l’uomo si
sfogliano gli strati uno dopo l’altro. Con questo tipo di concettualizzazione, l’uomo era un animale
gerarchicamente stratificato, una specie di deposito evolutivo, nella cui definizione ogni livello aveva un
posto assegnato e incontestabile. Perciò l’antropologia del tardo Ottocento e del primo Novecento
introdusse l’immagine dell’uomo come un animale trasfigurato che veniva alla luce solo quando indossava i
suoi costumi. Una volta che si abbandona l’idea ossessiva di uniformità, il relativismo diventa un vero
pericolo, che si può tenere a bada solo affrontando le differenze della cultura umana e incorporandoli nella
propria concezione dell’uomo. Gli universali culturali sono concepiti come risposte cristallizzate a queste
inevitabili realtà, modi istituzionalizzati di venire a patti con esse. L’analisi consiste quindi nell’accostare
presunti universali a necessità sottostanti, cercando di dimostrare che fra di essi vi è una certa
corrispondenza. La tattica consiste nel prendere in esame le esigenze umane fondamentali di un tipo o di un
altro, e poi cercare di dimostrare che quegli aspetti della cultura che sono universali sono “confezionati” da
queste esigenze. Con il metodo dei livelli non possiamo mai costruire delle vere interconnessioni funzionali
tra fattori culturali e fattori non culturali ma soltanto analogie più o meno convincenti.
Il motivo principale per cui quando si è posto il problema di definire l’uomo gli antropologi si sono tenuti alla
larga dalle peculiarità culturali e si sono invece rifugiati negli esangui universali è che essi sono tormentati di
perdersi in un turbine di relativismo culturale tanto convulso da privarli di ogni possibile solido punto di
riferimento. Dobbiamo cercare rapporti sistematici tra fenomeni diverse e per farlo dobbiamo sostituire la
concezione “stratigrafica” dei rapporti tra i vari aspetti dell’esistenza umana con una concezione in cui i
fattori biologici, psicologici, sociologici e culturali possono essere trattati come variabili entro sistemi unitari
di analisi. La cultura è concepita meglio non come insiemi di modelli concreti di comportamento, ma come
una serie di meccanismi di controllo per orientare il comportamento. E l’uomo è proprio l’animale più
dipendente da simili meccanismi di controllo extracorporei, i programmi culturali appunti, per dare ordine al
suo comportamento. La concezione della cultura come “meccanismo di controllo” inizia dall’assunto che il
pensiero umano è fondamentalmente sia sociale sia pubblico. Il pensare consiste nel traffico di simboli
significanti, cioè qualunque cosa che sia avulsa dalla sua semplice realtà e usata per conferire significato
all’esperienza. La cultura non è un ornamento dell’esistenza umana, ma la base principale della sua
specificità, una condizione essenziale per essa. Nell’ambito dell’antropologia, alcune delle prove più
eloquenti a sostegno di questa posizione vengono dai progressi nella comprensione dell’origine dell’uomo:
l’emergere dell’Homo sapiens da uno sfondo generale di primati. Di questi progressi, tre sono di basilare
1)
importanza: l’abbandono di una concezione sequenziale dei rapporti tra l’evoluzione fisica e lo sviluppo
2)
culturale dell’uomo a favore di una concezione interattiva o di sovrapposizione; la scoperta che il grosso
dei cambiamenti biologici che produssero l’uomo moderno dai suoi progenitori più immediati ebbe luogo nel
3)
sistema nervoso centrale e nel cervello; l’acquisizione della tesi secondo cui l’uomo è, in termini fisici, un
animale incompleto, non finito; ciò che lo distingue più vistosamente dai non-uomini è la quantità e la varietà
di cose che deve imparare prima di poter funzionare. L’essere fisico dell’uomo si era evoluto attraverso il
solito meccanismo della variazione genetica e della selezione naturale, finché la sua struttura anatomica non
era arrivata più o meno alla condizione in cui la troviamo oggi: poi si era messo in moto lo sviluppo culturale.
Da quel momento, il progresso degli ominidi dipese quasi interamente dall’accumulazione culturale, dalla
lenta crescita delle pratiche convenzionali invece che dal mutamento organico fisico come nelle epoche
passate. Secondo l’opinione corrente, l’evoluzione dell’Homo sapiens dalla sua immediata origine pre-
sapiens iniziò quasi quattro milioni di anni fa con la comparsa degli ora famosi australopitechi e culminò con
l’emergere dello stesso sapiens in un periodo valutato da centomila a trecentomila anni fa. Quindi, sembra
che forme di attività culturale fossero presenti tra alcuni degli australopitechi: ci fu una sovrapposizione di
forse più di un milione di anni tra l’inizio della cultura e la comparsa dell’uomo come lo conosciamo oggi. La
cultura fu un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo stesso animale. Mentre la cultura si
accumulava e si sviluppava, veniva conferito un vantaggio selettivo a quegli individui della popolazione più
abili ad approfittarne finché quello che era stato un Australopithecus dal cervello piccolo, divenne il
pienamente umano Homo sapiens dal cervello sviluppato. I più importanti e drammatici cambiamenti furono
quelli che ebbero luogo nel sistema nervoso centrale; perché fu allora che il cervello umano si ingrossò fino
a raggiungere le attuali enormi proporzioni. Perciò a distinguere il vero uomo dal protouomo è soprattutto la
complessità dell’organizzazione nervosa, non la forma generale del corpo. Quel che ci accadde poi nell’era
glaciale è che fummo costretti ad abbandonare la regolarità e la precisione di un controllo genetico
dettagliato sulla nostra condotta a favore della flessibilità e dell’adattabilità di un controllo genetico più
generalizzato. Senza uomini certamente non c’è cultura; ma allo stesso modo, e cosa più importante, senza
cultura non ci sarebbero uomini. Tra quello che ci dice il nostro corpo e quello che dobbiamo sapere per
funzionare c’è un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni fornite dalla
nostra cultura.
Le diverse definizioni della natura umana adottate dall’Illuminismo e dall’antropologia classica, cercano di
costruire un’immagine dell’uomo come modello rispetto a cui gli uomini veri sono solo riflessi,
approssimazioni. Nel caso dell’Illuminismo, gli elementi di questo tipo essenziale dovevano essere scoperti
strappando agli uomini reali le bardature della cultura e vedendo che cosa ne rimaneva, l’uomo naturale.
Nell’antropologia classica, lo stesso metodo era realizzato identificando gli aspetti comuni nella cultura e
vedendo che cosa appariva: l’uomo come soggetto consensuale. In entrambi i casi, le differenze tra gli
individui e i gruppi di individui sono rese secondarie. L’individualità finisce per essere un caso eccentrico. Ma
se vogliamo scoprire in che cosa consiste l’uomo, possiamo solo trovarlo in ciò che gli uomini sono: ed essi
differenti.
sono soprattutto La cultura fornisce il legame tra quello che gli uomini sono intrinsecamente
capaci di diventare e ciò che in effetti sono divenuti, nella loro specificità. Dobbiamo in breve scendere nei
particolari, oltre le etichette fuorvianti per cogliere appieno il carattere essenziale non solo delle varie
culture, ma dei vari tipi di individui entro ogni cultura, se vogliamo incontrale l’umanità faccia a faccia. Ciò
significa che la strada passa attraverso una terrificante complessità.
3. Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente
Il termine “mente” non ha funzionato come concetto scientifico, ma come strumento retorico. Più
precisamente, è servito a comunicare una paura invece che a definire un processo: la paura del soggettivismo
da una parte e dal meccanicismo dall&rsq