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DAVANTI AL DOLORE DEGLI ALTRI

I

Analisi di alcune fotografie di guerre da parte di Virginia Woolf in una lettera di risposta a un

avvocato in cui le si chiedeva cosa si può fare per prevenire la guerra. Secondo la Woolf le

reazioni a queste immagini sono le stesse per uomini e donne, anche se diverse sono le tradizioni

e l’educazione che hanno alle spalle. Woolf inoltre pensava che la guerra fosse uno “sport

maschile”; la macchina bella ha un genere sessuale, ed è maschile. Crede anche che lo shock

prodotto dalle immagini di guerra non possa non affratellare le persone di buona volontà.

Le fotografie sono uno strumento per rendere reali situazioni che i privilegiati, o quanti

semplicemente non corrono alcun pericolo, preferirebbero ignorare.

La guerra per Woolf, come per molti polemisti che vi si oppongono, è generica e le immagini da lei

descritte mostrano vittime anonime. Le foto di cui parla sembrerebbero prive di didascalie (o forse

stava semplicemente supponendo che le foto dovrebbero parlare da sé). Ma le argomentazioni

contro la guerra non si fondano su informazioni relative al chi, al quando, e al dove; l’arbitrarietà

dei massacri è considerata prova sufficiente. Ciò che dovrebbe contare invece è proprio chi viene

ucciso e da chi. La didascalia è importante, anche se può spiegare come falsificare l’immagine.

Le immagini possono essere utilizzate anche per fomentare l’odio per il nemico.

La reazione tipica dinanzi alla conferma fotografica delle atrocità commesse dal proprio

schieramento consiste nel sostenere che le immagini sono una montatura, che una simile atrocità

non ha mai avuto luogo.

Le fotografie possono essere usate per condannare la guerra, e possono, per un certo lasso di

tempo, concretizzare parte della sua realtà agli occhi di coloro che non ne hanno alcuna

esperienza diretta. Ma qualcuno potrebbe replicare che le fotografie di guerra non forniscono

nessuna prova per indurci a rinunciare alla guerra, se non si vogliono considerare del tutto

svuotate di senso e credibilità le nozioni di coraggio e sacrificio. La distruttività della guerra non è

di per sé un argomento contro la guerra.

Si possono fare molti usi delle innumerevoli opportunità che la vita moderna fornisce per guardare

(a distanza, attraverso il mezzo fotografico) il dolore degli altri. Le foto di un’atrocità possono

suscitare reazioni opposte.

II

Nelle prime guerre importanti di cui esistono resoconti fotografici, la Guerra di Crimea e la Guerra

civile americana, e in tutte quelle che precedettero la prima guerra mondiale, il combattimento vero

e proprio era al di là della portata della macchina fotografica, e le fotografie che c’erano adottavano

un registro epico ed erano di solito raffigurazioni degli strascichi del conflitto. Per parlare di

fotografia come la si intende oggi fu necessario un perfezionamento delle attrezzature, con

macchine più leggere, come la Leica con pellicola 35 mm. Divenne così possibile scattare

fotografie nel pieno della battaglia e studiare da vicino le vittime civili o i soldati stremati e

insudiciati. La guerra civile spagnola fu la prima guerra documentata in senso moderno da fotografi

inviati in prima linea nelle città bombardate, e quella del Vietnam fu la prima ad essere seguita da

telecamere. Un evento diventa reale perché viene fotografato. L’incessante susseguirsi di immagini

domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia è più incisiva. La memoria

ricorre al fermo-immagine e fornisce un modo rapido per apprendere e una forma compatta per

memorizzare. Le immagini di guerra sono scioccanti, proprio perché devono fermare l’attenzione,

sorprendere, sbigottire. L’attività fotografica è governata da una caccia alle immagini più

drammatiche che è del tutto normale in una cultura in cui lo shock è divenuto uno dei più importanti

criteri di valore e incentivi al consumo.

Sin dal 1939, quando furono inventate le macchine fotografiche, la fotografia ha corteggiato la

morte. Poiché un’immagine ottenuta con una macchina fotografica è, letteralmente, la traccia di

qualcosa che è stato posto davanti all’obbiettivo, le fotografie si rivelarono superiori a qualunque

dipinto nel fornire un memento di un passato svanito o di un caro estinto. Ma catturare la morte in

fieri era tutt’altra faccenda: il raggio d’azione della macchina fotografica restò limitato finchè fu

necessario trascinarsela dietro, posizionarla ecc. Ma con le macchine portatili, con obbiettivi con

consentivano un’osservazione ravvicinata a distanza di sicurezza, la fotografia acquisì un’autorità

e un’immediatezza superiori a qualunque resoconto verbale nel trasmettere l’orrore della morte

prodotta in massa. Se mai ci fu un anno in cui la capacità della fotografia di definire le realtà più

abominevoli ebbe la meglio su qualunque narrazione, quell’anno fu il 1945, con le immagini dei

campi di concentramento e di Hiroshima e Nagasaki dopo i bombardamenti.

Le fotografie combinano due qualità contrapposte, infatti hanno caratteristiche di oggettività ma

sono anche sempre dotate di un punto di vista: registrazione della realtà poiché a effettuarla è una

macchina, ma testimonianza della realtà perché c’è sempre qualcuno dietro a scattare. Le

immagini di avvenimenti infernali sembrano più autentiche se sono prive di quelle qualità che

derivano da una corretta illuminazione e composizione. Proprio perché scelgono di volare basso,

dal punto di vista artistico, tali fotografie vengono considerate meno manipolatorie e meno

suscettibili di provocare una facile compassione o identificazione.

Agli inizi del 40 il fotogiornalismo vide riconosciuto il proprio ruolo. Nel 1947 Robert Capa fondò

con alcuni fotografi (Chim, Cartier-Bresson e altri) a Parigi l'agenzia fotografica Magnum. Lo scopo

dell’agenzia era di fare da tramite fra i fotografi indipendenti e le riviste che li utilizzavano come

inviati. A livello moralistico la Magnum assegnava ai suoi fotogiornalisti un grande responsabilità

morale, cioè quella di raccontare il proprio tempo, di guerra o pace che fosse, in qualità di

testimoni equanimi e liberi da pregiudizi. Attraverso la voce della Magnum, la fotografia si

dichiarava un’impresa a carattere globale. La nazionalità del fotografo e quella della testata a cui

era affiliato erano irrilevanti. Il fotografo poteva avere qualunque origine, e la zona di sua

competenza era il mondo. La memoria della guerra, tuttavia, è come ogni memoria un fatto

perlopiù locale. Ma perché possa uscire dalla cerchia ristretta di chi vi è direttamente coinvolto per

diventare oggetto dell’attenzione internazionale, una guerra deve essere considerata una sorta di

eccezione, tenendo conto di come funzionano le guerre, e rappresentare qualcosa che vada al di

là degli opposti interessi dei belligeranti.

Burrows fu il primo grande reporter a fotografare un’intera guerra a colori, un altro passo avanti in

termini di verosimiglianza e di shock. Le fotografie a colori degli strati abitanti dei villaggi vietnamiti

e dei soldati americani feriti scattare da Burrows e pubblicate su “Life” a partire dal 1962 hanno

sicuramente rafforzato la protesta contro la presenza americana in Vietnam.

Bisogna fare attenzione al fatto che la fotografia contro la guerra può essere letta anche come

un’immagine che mostra pathos o l’eroismo di una lotta inevitabile che può concludersi soltanto

con la vittoria o la sconfitta. Le intenzioni del fotografo non determinano il significato della

fotografia, che avrà vita propria, sostenuta dalle fantasie e dalle convinzioni delle varie comunità

che se ne serviranno.

III

L'iconografia della sofferenza ha una lunga storia, la voglia di immagini che mostrano corpi

sofferenti sembra forte quanto il desiderio di vedere corpi nudi. Forse le sole persone che hanno il

diritto di guardare immagini di sofferenza reali così estreme sono quelle che potrebbero fare

qualcosa per alleviarle o che da queste potrebbero imparare qualcosa noialtri, che lo vogliamo o

no, siamo tutti voyeur. Una scena orripilante ci invita a essere meri spettatori o vigliacchi, incapaci

di guardare. Il tormento, un soggetto canonico dell’arte, è stato spesso rappresentato in pittura

come uno spettacolo, qualcosa che viene osservato (o ignorato) da altri. L’implicazione è: no, non

si può fermare quel tormento, e la mescolanza di spettatori distratti e attenti serve proprio a

sottolinearlo.

La didascalia di una foto è tradizionalmente neutra, informativa: una data, un luogo, dei nomi. Non

c’è bisogno che il fotografo parli in nome della fotografia per garantirne la veridicità. Ma l’immagine

fotografica, nella misura in cui è una traccia, non è mai solo il trasparente resoconto di un evento.

È sempre un’immagine che qualcuno ha scelto; fotografare significa inquadrare, e inquadrare

significa escludere. Le fotografie comunque pretendono di rappresentare esattamente ciò che si

trovava davanti all’obiettivo. Si suppone che una foto debba mostrare e non evocare. È per questo

che esse, a differenza delle immagini manufatte, possono avere valore di prova. Ma prova di

cosa? Quando si tratta di fotografia tendiamo tutti a prendere le cose alla lettera, senza

considerare che possano non mostrare ciò che dicono di mostrare.

Le immagini di guerra non hanno sempre avuto lo scopo che hanno oggi; storicamente i fotografi ci

hanno offerto immagini piuttosto positive del piacere di intraprendere una guerra o di continuare a

combatterla. In effetti, la fotografia di guerra inizia proprio con una missione di questo genere. La

guerra era quella di Crimea, e Roger Fenton, definito il primo fotografo di guerra, ne fu il vero e

proprio fotografo ufficiale, essendo stato inviato in Crimea all’inizio del 1855 dal governo britannico.

Preso atto della necessità di mitigare gli effetti degli allarmanti resoconti pubblicati dalla stampa sui

rischi imprevisti e sui disagi che avevano dovuto affrontare i soldati britannici inviati nella regione

l’anno prima, il governo aveva infatti invitato un noto fotografo professionista a fornire una diversa

e più positiva versione di una guerra sempre più impopolare. Ricevendo l’ordine dal governo di non

fotografare i morti, i mutilati o i malati, e non potendo riprendere gran parte degli altri soggetti a

causa dell’ingombrante attrezzatura fotografica, Fenton rappresentò la vita militare nelle sue

retrovie; la guerra, che è movimento, disordine, dramma, resta fuori dall’inquadratura

Dettagli
Publisher
A.A. 2016-2017
8 pagine
1 download
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher oblivious di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Immaginari dell'Era Digitale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) o del prof Canova Gianni.