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ORDINAMENTO, DIRITTO, STATO
ordinamento giuridico
Con il termine si intende sia una comunità organizzata in vista del perseguimento
di uno scopo comune (quindi, in questo senso, si può dire che lo Stato è un ordinamento giuridico) sia l'insieme
delle norme (il diritto positivo o diritto oggettivo) che regolano la vita di questa comunità (in questo senso,
quindi, si dirà che lo Stato ha un ordinamento giuridico).
Per l'ordinamento la validità e l'esistenza sono profondamente compenetrate, costituiscono un tutt'uno:
l'ordinamento esiste come tale, in quanto è valido, in quanto, cioè, ordina ed è ordinato.
Il fine dell'ordinamento, lo scopo a cui tende continuamente, è l'”ordine”, che però e continuamente modificato
e riprogrammato in base ai rapporti che le norme assumono tra loro. In questo senso l'ordinamento è un
“processo” che si arricchisce via via con tutti gli apporti normativi. La mutevolezza della realtà sociale è
all'origine del verificarsi di contraddizioni, dette antinomie, e di vuoti, detti lacune, che rendo il sistema,
inevitabilmente e contrariamente al suo scopo, a-coerente e a-completo.
L'ordinamento tende per sua natura a risolvere i contrasti, le antinomie e le lacune, ed in particolare svolge il
compito di rendere coerente e completo l'ordinamento tramite l'interprete qualificato, il giudice.
In caso di antinomie, per esempio, non si può lasciare la situazione, una volta scovata, invariata, bensì si deve
procedere ad eliminare o per lo meno a disapplicare una delle due norme contrastanti.
In relazione alla maggiore o minore estensione del contrasto tra due norme si distinguono poi solitamente tre
tipi di antinomie:
1) Totale-Totale: si ha se le due norme hanno eguale estensione (es. è prescritto fumare / è vietato fumare).
L'applicazione di una delle due norme è del tutto incompatibile con quanto dispone l'altra.
2) Parziale-Parziale: una parte dell'estensione di una norma coincide con una parte dell'altra (es. è vietato
fumare la pipa e il sigaro / è permesso fumare il sigaro e le sigarette).
3) Totale-Parziale: si ha quando l'estensione di una norma è parte dell'estensione di un'altra (es. è permesso
fumare / è vietato fumare il sigaro). L'estensione di una norma è cioè del tutto ricompresa
nell'estensione, più ampia, di un'altra norma.
dicono “proprie” (o le antinomie che intervengono fra norme ed “improprie” (apparenti)
Inoltre, si reali) le
antinomie che intervengono fra disposizioni; queste ultime sono risolvibili tramite il risultato del processo
interpretativo, mentre con le prime, anche successivamente ad un processo interpretativo, permane una
situazione di incompatibilità.
Le antinomie vere e proprie (quindi quelle definite totali-totali) possono essere risolte soltanto dal giudice
(interprete), utilizzando dei criteri logici disposti dall'ordinamento che permettono di decidere quale sia la
norma da eliminare/disapplicare tra quelle in contrasto, e in che modo farlo.
In pratica per risolvere le antinomie si ricorre a criteri specifici (che possono essere intesi come norme sulla
normazione) volte all'individuazione della norma da scegliere; questi sono:
1) Criterio cronologico: per risolvere antinomie su norme poste dallo stesso tipo di fonte in tempi diversi,
per cui la norma successiva in ordine cronologico è quella da applicare.
L'applicazione di tale criterio determina la scelta della norma da applicarsi nel caso concreto e non alla
eliminazione di quella incompatibile. La norma abrogata (o meglio invalidata), quindi, permane
presente nell'ordinamento, ma dispiega la sua efficacia solo per i fatti anteriori all'avvenuta
dell'abrogazione; infatti tutto avviene automaticamente (cosa che non succede in caso di annullamento,
per il quale si determina l'espunzione della norma incompatibile dall'ordinamento).
2) Criterio della specialità: secondo il quale è la norma speciale a dover essere applicata e non quella
generale, anche se quest'ultima risultasse emanata successivamente nel tempo. Questa prevalenza della
specialità sulla temporalità si applica sempre in caso di una norme speciale ed una generale, ma ricorre
anche a risolvere quelle incompatibilità tra prescrizioni sincroniche, magari proprio della stessa legge.
L'uso di questo criterio non comporta l'invalidità o l'abrogazione della norma antinomica scartata, bensì
decide solo quale delle due norme contrastanti deve essere applicata in base al caso concreto (Si
procede ad una sorta di deroga).
3) Criterio gerarchico: secondo cui fra due norme in contrasto, l'una posta da fonte gerarchicamente
sopraordinata rispetto a quella da cui è prodotta l'altra, prevale la prima anche se anteriore nel tempo.
Questo, a differenza dei primi due criteri, comporta l'invalidazione della norma inferiore incompatibile.
1
4) Criterio della competenza: secondo cui si applica la norma posta dalla fonte competente, in merito ad
una zona materiale o territoriale circoscritta, e non quella antinomica posta da una fonte incompetente.
Anche questo criterio, come quello gerarchico, è di carattere positivo, per cui può operare solo nel caso
in cui nell'ordinamento vi siano norme che distribuiscono le competenze normative fra organi e fonti.
Questa spartizione può avvenire in due modi: a) con la riserva, per la quale la separazione tra le fonti è
incentrata sull'attribuzione della competenza a regolare determinate materie con l'esclusione
dell'intervento di altre fonti; b) con la preferenza, per cui la separazione delle fonti è fatta in base alla
tipologia del rispettivo intervento, non sulla materia.
Come quello gerarchico quello della competenza determina invalidità (annullamento o
disapplicazione).
Nel caso in cui si verifichi l'inapplicabilità di qualsiasi criterio si passerebbe da un antinomia reale ad una
lacuna delle norme sulla normazione (incompletezza meta-normativa), viceversa, in caso sia possibile
applicare più di un criterio si avrebbero antinomie di secondo grado (incoerenza meta-normativa), cioè si
vanno a trovare delle soluzioni antinomiche per risolvere le antinomie di 1° (si creano antinomie tra criteri).
Ci si sposta in questo modo da un problema di coerenza ad un problema di completezza dell'ordinamento, il
quale si può dire veramente completo in caso di assenza totale di lacune (il sistema è incoerente se vi sono più
norme applicabili ad una fattispecie, mentre è incompleto se non ve ne è nessuna). La completezza quindi è lo
scopo dell'ordinamento e non un suo dato esistenziale, uno scopo perseguibile grazie agli strumenti presenti,
per cui il sistema è incompleto ma dinamicamente completabile.
Gli strumenti utilizzati a questo fine sono l'uso dell'analogia ed il ricorso ai principi generali. Determinata
dall'interprete la presenza di una lacuna, il primo strumento utilizzato è quello dell'analogia, attraverso il quale
ad un caso non regolato si applica la disciplina di un caso regolato simile, secondo la relazione di somiglianza.
Procedendo con il ricorso ai principi generali si arriva alla creazione, seppur occasionale, di norme nuove e non
all'applicazione di norme implicite già esistenti. I principi in questo senso non sono norme, ma fonti di norme,
in quanto potenzialità produttiva inesauribile delle norme particolari che da essi si ricavano per l'applicazione
ai casi concreti non regolati.
E' possibile intraprendere anche una terza via, quella dell'eterointegrazione, con cui un ordinamento attinge da
un altro, le norme per la disciplina di determinate fattispecie. Con questo processo si verifica vera e propria
produzione normativa, che trova sempre il suo fondamento in una norma positiva sulla normazione.
Le “regole” contenute in un ordinamento non sono soltanto le norme, vi sono infatti regole non normative. In
particolare le norme possono essere definite tali in base a determinate caratteristiche che debbono possedere:
1) La generalità, cioè una norma non può che non essere riferibili ad una serie o un insieme di individui,
contraddistinti, raggruppati e sussunti alla legge o alla norma, in quanto rientranti in un unico genere.
Più specificatamente le proposizioni normative, secondo questo punto di vista, debbono mantenere il
profilo fondamentale della indeterminatezza a priori del destinatario.
2) L'astrattezza, carattere secondo il quale una norma al momento della sua stesura da parte del normatore
debba ritenersi rivolta ad un evento ipotetico, eventuale, che ove si verificherà darà luogo alla sua
concreta applicazione.
3) La ripetibilità, cioè l'idoneità della norma a trovare infinite (ed indefinibili a priori) applicazioni
concrete, nessuna delle quali in grado di esaurirne le potenzialità qualificatorie.
Questi tre elementi nella pratica non vengono ritenuti essenziali nel considerare normativi dei precetti, non
sono ritenuti necessari ed esclusivi dagli ordinamenti per quello che giudicano normativo, ne sono un esempio
le norme retroattive.
FONTI DEL DIRITTO
Fonti del diritto
Le divengono quindi la base delle interpretazioni. Le fonti si possono intendere, in senso
generico, come i fatti (in senso ampio, comprensivi degli atti) che producono le norme o regole di condotta e le
regole costitutive, dai quali si ricava il diritto oggettivo (o l'ordinamento). Nel particolare, secondo la visione
teoretica (studi di teoria del diritto) le fonti sono tutti quei fatti e atti che per loro natura sono produttivi di
diritto, ossia di norme giuridiche, che presentano i caratteri di generalità, astrattezza e ripetibilità. Così una
legge che provvedesse a recare una singola disciplina per un singolo caso (c.d. legge provvedimento), non
sarebbe fonte agli occhi di un teorico, che considera fonti gli atti che hanno contenuto normativo e considera
contenuto normativo quello generale-astratto-ripetibile, ma lo sarebbe, invece, per un dogmatico. 2
Secondo la visione dogmatica (studio di concreti ordinamenti) sono presi in considerazione come fonti tutti
quei fatti o atti che vengono annoverati nell'ordinamento come fonti del diritto, cioè i fatti qualificati da una
norma dello stesso ordinamento come idonei alla produzione di altre norme (“fonti legali”).
Si possono distinguere vari tipi di fonti del diritto, anche se fonte del diritto rimane sempre e soltanto il fatto
produttivo e non altre esemplificazioni derivate.
Esistono le c.d. fonti di cognizione, consistenti in atti scritti, formati da pubbliche autorità, ma privi di
contenuto normativo, esclusivamente rivolti al fine di realizzare