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GOVERNO DANESE
Interviene il governo danese, dicendo che la decisione del giudice di ultima istanza di effettuare i rinvio
non può essere influenzata dalla richiesta delle parti: lo scopo del 177 non è certo di dare ai privati la
possibilità di intentare un’azione propria. La richiesta di rinvio da parte delle parti non è condizione
necessaria e nemmeno sufficiente per il rinvio. Viene citata la sentenza Mattheus del ’78, in cui si
specifica l’obbligo di decidere autonomamente se effettuare il rinvio, e lo stesso in Foglia Novello, non
che la Da Costa en Schaake, dove si afferma che l’obbligo di rinvio non è assoluto.
Ricorda anche la risposta della Commissione in merito a un’interrogazione scritta del ’78, sull’atto
chiaro. Tale principio però deve essere applicato con prudenza, tenendo conto che le norme sono
redatte in più lingue, e lo scopo è che siano uniformemente applicate ( posto che non può né di sua
iniziativa disapplicare un atto comunitario, né non tenere in considerazione le interpretazioni della
Corte).
COMMISSIONE
Teoria dell’atto chiaro “è necessario che ci sia una difficoltà reale, sollevata dalle parti o
spontaneamente riconosciuta dal giudice, e tale da far nascere un dubbio in una persona avveduta”. è
una teoria applicata in Italia e Germania per disciplinare l’obbligo di rinvio da parte dei giudici ordinari
verso le Corti Costituzionali.
Ritiene che ci sia un potere di apprezzamento da parte del giudice in ambito comunitario. Anche qui
ribadisce la risposta già citata dal governo danese all’interrogazione scritta, per cui un tribunale
nazionale può statuire direttamente senza eseguire il rinvio qualora la questione sia perfettamente
chiara e il senso della risposta sia evidente a ogni giurista con un minimo di competenza. Si sofferma
sulla nozione di questione (problema) e interpretazione: se una norma è perfettamente chiara, non c’è
questione e non serve interpretazione. La Commissione riconosce che lasciando uno spazio
discrezionale ai giudici si può incorrere in interpretazioni sbagliate e contrarie all’uniformità del diritto
comunitario, ma è u bene che le parti non possano obbligare il giudice. In ambito comunitario l’atto
chiaro viene alla luce molto raramente, perché per ogni minimo dubbio il giudice dovrà rinviare, e
comunque avere sempre presente la giurisprudenza della Corte.
La portata dell’obbligo di cui al c3 del 177, deve essere valutata alla luce dello scopo della norma,
evitare le divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità. La Corte conferma le tesi per cui il
177 non può essere un rimedio giuridico per le parti. Posto che c’è un obbligo di rinvio per le questioni
interpretative da parte del giudice di ultima istanza, la Cassazione vuole sapere se vi siano dei limiti.
Punti 9 e seg. Limiti sono:
-interpretazione della corte in una fattispecie analoga, e la questione sia materialmente identica
(interpretazione data ex 177)
-giurisprudenza costante della corte (in qualunque tipo di procedimento)
-punto 16 quando la corretta applicazione si imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun
ragionevole dubbio sulla soluzione della questione. Ma in tal caso il giudice deve maturare il
convincimento che la stessa soluzione si imporrebbe con la stessa evidenza anche agli altri giudici
degli stati membri e alla corte stessa. E sarà sempre sua la responsabilità del non aver effettuato il
rinvio. Punto 17-18-19-20 ciò sempre valutando la natura particolare e le difficoltà presentate dal diritto
comunitario. Si riprende in sostanza le osservazioni del governo danese, sulla redazione delle norme in
diverse lingue, e le varie versioni vanno comparate; inoltre vanno comparati i significati delle nozioni
giuridiche nelle varie versioni, tenendo conto anche della natura propria della terminologia del diritto
comunitario. Infine, le disposizioni vanno collocate nel contesto del diritto comunitario (interpretazione
sistematica), nel preciso momento evolutivo al quale si trova.
RATTI 1979 (1978) punti 19 20 22 23 24
Direttive sufficientemente precise e incondizionate.
Unica sentenza in cui ci si occupa di armonizzazione positiva nell’ambito del mercato unico (necessità
di armonizzazione degli standard tecnici, perché di per sé avere norme diverse nei diversi stati
costituisce un ostacolo alla libera circolazione delle merci).
Integrazione positiva su classificazione, imballaggio ed etichettatura dei solventi e di pitture e affini con
una direttiva del ’73 e un’altra direttiva del ’77.
Il signor Ratti è il rappresentante legale della ditta SILVAM, che nell’imballaggio dei propri solventi nel
’73 decideva di applicare la suddetta direttiva in merito, applicando l’altra alle vernici. Nessuna delle
due è stata recepita dall’ordinamento italiano, nel quale si applica a questi prodotti la legge 245/1963,
che pone standard diversi, più alti per alcuni versi e più bassi per altri (si devono indicare alcuni
componenti di cui la direttiva non parla). Nemmeno però il termine è ancora scaduto, secondo il giudice
e il Consiglio.
La Pretura milanese, davanti alla quale Ratti è imputato per aver violato la normativa vigente, pone
queste questioni con rinvio (sono 5):
- diretta applicabilità della direttiva, in riferimento al fatto che un singolo si sia ad essa adeguato, in
base al legittimo affidamento (principio giurisprudenziale) prima della scadenza del termine.
- se è possibile mantenere standard diversi nella legislazione nazionale o questo sia un ostacolo alla
libera circolazione, anche se la finalità è la tutela della salute dei consumatori
- se, tenendo conto della ratio della direttiva (tutela dei consumatori) l’incompatibilità sia data
dall’obbligo di indicare alcuni componenti e le modalità per farlo, come accade nella legge italiana
non c’è fase istruttoria.
Ratti, sulla diretta applicabilità delle direttive, si rifà al caso Van Duyn, laddove dispongano obblighi
dettagliati e completi. Sarebbe questo il caso dell’art 8 di quella sui solventi, e il 9 di quella sulle vernici.
Si sofferma sul problema del termine, di 24 mesi, dato agli stati per attuare le direttive, e sul perché
della sua lunghezza. Per quanto riguarda l’art 9, esso dispone un obbligo di non fare, quindi non
servono ulteriori adeguamenti, e inoltre la simbologia prescritta è già presente nelle etichette italiane.
Se il termine non servisse ad adeguarsi per gli stati, sarebbe solo una scadenza prima della quale non
si può agire 8mentre nulla vieta agli stati di conformarsi anche prima, se ne sono in grado).
Interviene il Consiglio, soffermandosi sulle condizioni per l’applicabilità diretta/produzione di effetti diretti
per una direttiva: se la direttiva è incondizionata e perfetta, ha effetti diretti e il privato può farla valere
anche se decorso il termine. Nel caso si tratterebbe di un obbligo di fare (divieto di mettere in
commercio prodotti non conformi). In secondo luogo, dice il Consiglio, il privato non potrebbe
comunque far valere davanti allo stato una direttiva il cui termine non fosse scaduto, nemmeno avendo
questa effetti diretti, visto che la direttiva produce effetti solo a partire dal termine.
Interviene anche la Commissione: come ha detto anche il Consiglio, non si parla di diretta applicabilità
ma di efficacia diretta; una direttiva è direttamente efficace se incondizionata, precisa e non lascia
margine discrezionale per l’attuazione. La direttiva del ’73 presenta queste condizioni. L’imposizione di
requisiti più gravosi da parte della legge nazionale è un ostacolo alla libera circolazione, e ciò è dato
anche dall’obbligo nell’art 8 della legge italiana. C’è una restrizione quantitativa ex art 30 e 36 del
Trattato, che potrebbe giustificarsi solo col ricorso alla clausola di salvaguardia prevista all’art 9 della
direttiva. Anche la direttiva del ’77 ha efficacia diretta, ma questa nozione ex art 189 deve essere
interpretata in maniera restrittiva. La direttiva fa sorgere obblighi in capo allo stato/diritti per i cittadini,
solo alla scadenza del termine. Inoltre non è vero che l’art 9 è un obbligo di non fare. Nemmeno è
pertinente il legittimo affidamento del singolo: i diritti dei singoli si affermano solo in caso di mancato
adempimento da parte dello stato.
La Corte: punti 10-11 sull’importanza dell’armonizzazione positiva in questo settore, viste le notevoli
differenze tra le normative nazionali e la pericolosità e diffusione dei prodotti. Gli stati non avevano 24
mesi, ma 18 per attuare la direttiva (secondo l’art 11 della direttiva ’73) , scaduto nel ’74, e la direttiva
non era stata recepita nel ’78. Cosa prevale? (principio del primato sorto per i regolamenti; ma la Corte
ha affermato in una precedente sentenza che potrebbe valere anche per gli altri atti, se atti a produrre
effetti diretti).
Punti 19 e seg. Incompatibile con l’art 189 che i privati non potessero far valere l’obbligo per gli stati. Lo
stato inadempiente non può opporre la propria inadempienza ai singoli che invece abbiano adempiuto.
No sanzioni per chi non applica la norma nazionale, che scaduto il termine è scorretta come si evince
dal combinato disposto degli art 3-4 della direttiva sui solventi. Il giudice, scaduto il termine, deve
disapplicare la norma incompatibile, se la direttiva è sufficientemente precisa e incondizionata.
L’obbligo imposto dalle normative nazionali, che non si ritrova nella direttiva, è con essa incompatibile,
e nemmeno si può mantenere degli standard nazionali più elevati.
Sulla questione della ratio della tutela, che giustificherebbe gli standard più elevati, è citato l’art 36
contenente le deroghe, ma si dice che ex art 100 del trattato, in caso di armonizzazione, l’art 36 non è
più pertinente.
Sulla direttiva sulle vernici. Il termine per questa è 24 mesi, e non è ancora scaduto (punti 43 a 45),
dunque fino a quel momento gli stati sono liberi di disciplinare la materia e non produce ancora effetti
diretti. (nemmeno vale il mutuo riconoscimento in caso altri stati si siano già conformati). Non è
opponibile dal singolo.
GEBHARD 1995 (caso del ’94)
Libertà di stabilimento o libera prestazione di servizi? In linea di principio (solo in Omega si fa
eccezione), la seconda è residuale rispetto alla prima, e viene da questa inglobata.
Tra il signor Gebhard, che esercita a Milano, attualmente in uno studio proprio dove si legge “avvocato”,
e l’Ordine degli avvocati e procurator