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TERRA E CIELO
1. Cosmopolitismo messianico
Il canone cosmopolitico stoico cadde progressivamente con il tramonto del mondo classico: con la
crisi dell'impero romano si apriva un'epoca nuova anche a causa dell'irruzione della religione
ebraico-cristiana sul mondo. Filone d'Alessandria si avvalse del cosmopolitismo stoico per
giustificare il carattere della rivelazione unica attribuita dall'ebraismo ai testi della Torah. Filone
sceglie il termine kosmopolites per designare colui che è in grado di conformare le sue azioni ai
principi secondo i quali è governato l'universo intero. Lui distingue tra i kosmopolitai, quei cittadini
che sono impegnati a potenziare l'elemento celeste che è in loro, da tutti i sacerdoti e i profeti. Per
Filone è importante la figura del sapiente che sa farsi da mediatore tra Dio e gli uomini dal punto di
vista politico e religioso, trasformando il volere divino in un percorso di vita comune.
2. Cittadini del Regno dei Cieli
Al centro della predicazione cristiana delle origini si pone, il riferimento a una comunità universale,
libera da ogni schiavitù temporale e da ogni legame locale con un popolo particolare: un unico
gregge di Dio che attribuisce l'identica possibilità di ottenere la salvezza a tutti attraverso la fede,
trasformando cosi anche gli stranieri in concittadini e familiari di Dio. Nella predicazione cristiana,
l'ideale classico di una comunità del genere umano tende per la prima volta ad assumere le forme di
una società vera e universale fondata sul libero accordo delle intelligenze e delle volontà.
Importante è l'universalismo di Paolo, che muovendo da Oriente verso Occidente progetta di
raggiungere i confini del mondo per raccogliere attraverso l'Annuncio tutti i popoli della terra.
Come il saggio della tradizione cinico-stoica, anche l'uomo di fede del cristianesimo sembra, aver
perso ogni legame con l'orizzonte di appartenenza civica della forma di vita classica. Il
cristianesimo però, non lotta contro le distinzioni politiche, sociali e culturali, ma le considera
irrilevanti di fronte all'unità di tutti i fedeli in Cristo; i cristiani sono dei cittadini del Regno dei cieli.
Paolo nella Lettera ai Filippesi scrive: “la nostra patria è nei cieli, e di là anche aspettiamo come
salvatore il Signore Gesù Cristo”.
Emblematica è l'Epistola a Diogeneto, in cui è descritta la situazione dei cristiani:
“essi non abitano città proprie, non usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di
vita speciale. Essi vivono nelle loro patrie come forestieri; partecipano a tutto come cittadini, ma da
tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è per loro una patria, e ogni patria è per
loro straniera. I cristiani sono alla ricerca di una patria migliore, quella celeste; amano tutti e da tutti
vengono perseguitati.”
Questa duplice appartenenza sembra un''ideale di doppia cittadinanza, quella della città terrena e
quella della città celeste. Negli scritti di Tertulliano, i cristiani sono descritti come una comunità di
puri, costantemente in lotta con il mondo circostante e pronti a testimoniare la propria fede anche
con il martirio.
3 Universalismo senza cittadinanza
In Agostino l'estraneità del cristiano da ogni forma di radicamento terreno diviene il punto di
partenza di un intensa riflessione filosofica. Opera più importante di S.Agostino è il De civitate dei,
la città di Dio. Questa città del cielo, accoglie i cittadini da tutti i popoli e aduna una società in
cammino da tutte le lingue, senza curarsi di ciò che è diverso nei costumi, leggi e istituzioni, con cui
la pace terrena si ottiene o si mantiene. Anche il cristiano descritto da Agostino è costretto a vivere
provvisoriamente in due mondi in contrasto tra di loro, egli non si sente cittadino di questo mondo,
ma peregrino e viaggiatore senza fissa dimora, ma ciò non implica per il cristiano il rifiuto al
principio della vita attiva. Con la sua opera Agostino, trasmetteva l'idea di una società
soprannaturale che si sarebbe rivelata come la realtà ultima e decisiva per l'esistenza di ogni uomo.
La storia del cristianesimo come culto coincide con le vicende di una Chiesa universale e visibile,
composta da uomini di diverse condizioni, nazionalità, lingue uniti sulla terra dall'appartenenza a
una medesima comunità. Nell'imperium romano, le frontiere infatti svaniscono e diviene
realizzabile una sociabilità generale di tutte le creature umane. Al cosmopolitico classico si
sovrappone l'universalismo realizzato dell'impero e della Chiesa romana. L'idea di fondo che si
innalza in quest'epoca è quella di un'organica compagine sociale nella quale le gentes e le nationes
di tutto il mondo si trovano riunite sotto un unico principio ordinatore, che abbraccia una comunità
universale, in cui la società ecclesiastica, giunge a coincidenza con la società politica ordinata sotto
i principi cristiani.
4. Dominium mundi
Nel corso del lungo medioevo, l'ideale cosmopolitico muta: da istanza di rigenerazione intellettuale
e morale dell'umanità, si trasforma in attributo ornamentale della realtà dell'impero e in
rappresentazione allegorica della missione della Chiesa. L'imperatore assume le vesti di un
autokrator chiamato a governare il mondo come se fosse Dio in persona, un kosmokrator il quale
dovere è di diffondere il cristianesimo e mantenere unita la comunità fornita da tutti i popoli civili
per mezzo della fede cristiana.
5. Lo spazio della cristianità
La respublica christiana si contrappone nettamente a uno spazio esterno, quello dei territori non
cristiani, e qui riemerge la tradizionale dicotomia civiltà-barbarie. Il mondo del cristiano viene a
coincidere, con la christianitas, intesa come l'insieme di tutti coloro che hanno scelto di far parte del
corpo di Cristo, assoggettandosi alla Chiesa di Roma. La conversione all'originario messaggio
cristiano diventa un'impegnativa responsabilità collettiva, rimessa nelle mani della Chiesa di Roma.
Il cattolicesimo medioevale tende a confondere l'ideale missionario con quello guerriero e ne esce
fuori quella logica di conversione forzata della guerra santa che caratterizzerà i secoli successivi.
La contrapposizione tra cristiani e infedeli viene ricondotta a una serie di stereotipi etnici e culturali,
che nell'antica Grecia avevano caratterizzato l'antitesi tra greci e barbari. Gli infedeli vengono
discriminati con una lunga serie di aggettivi negativi: infedeli, crudeli, perfidi, nemici di Dio, tanto
che uccidere questi pagani è azione gradita a Dio.
Dante Alighieri nel De Monarchia cita tre problemi principali a cui l'opera vuole dare soluzione:
se la Monarchia sia necessaria al benessere del mondo; se il popolo romano si sia attribuito di diritto
il ruolo di Monarca; e se l'autorità del monarca dipenda direttamente da Dio.
Oggetto della sua costruzione non è più la christianitas ma la civilitas, intesa come una più ampia
entità fondata su leggi naturali e composta da tutti gli uomini che vivono sulla faccia della terra, di
qualunque religione essi siano. Dante concepisce questa comunità umana come un tutto unitario,
ordinato per il fine supremo per il quale l'uomo è stato creato: la piena realizzazione della virtù
intellettive che lo differenziano da qualsiasi altra creatura. Affinché l'uomo si trovi nelle concezioni
necessarie per adempiere liberamente alla sua attività, è necessaria una condizione di pace
realizzabile solo se esiste un unico principio di legge, capace di assicurare l'ordine e la giustizia per
tutti gli uomini, al di sopra delle volontà particolari. Dante attribuisce tale compito alla monarchia,
ovvero vincere il principio di corruzione che inficia le istituzioni. Lo Stato mondiale di Dante è
fondato su una regola comune, che ogni città o regno potrà adottare ai suoi bisogni e alle sue
specifiche condizioni di vita. Solo attraverso la mediazione di un monarca universale sarà possibile
conciliare l'autonomia e la libertà delle nuove istituzioni politiche con l'ideale di pace e tranquillità,
che Dante considera il supremo bene terreno. Dante a differenza degli altri pensatori della
repubblica cristiana sembra consapevole della necessità di ripensare il paradigma universalistico
medievale, riformulandolo in base alle nuove forme di luce emergenti.
LA RINASCITA UMANISTICA
1. Civis mundi
Nel De vulgari eloquentia di Dante si vede il suo cosmopolitismo molto simile a quello classico,
che lui ha sperimentato nella sua vita da esule dalla città natia di Firenze. A partire dal Quattrocento
il ruolo dell'umanesimo civile italiano assume le forme di un cosmopolitismo negativo alla ricerca
dell'etica repubblicana dell'impegno civile. L'esperienza dell'esilio finisce per coinvolgere tanti
protagonisti degli studi umanistici, caratterizzando questa nuova epoca storica con una nuova
mobilità. La figura rinascimentale è incarnata principalmente da Erasmo, per lui il rapporto con il
passato non può prescindere dal contributo dei Padri della Chiesa. Lui vuole essere cittadino del
mondo: “voglio essere compatriota di tutti piuttosto che straniero per tutti”. Incarnando il modello
di un umanesimo cristiano. La figura di intellettuale cosmopolita messa in atto da Erasmo, diviene
durante il 500 una vera icona della modernità filosofica e letteraria. Nella cultura rinascimentale il
viaggiare e lo scrivere sono percepiti come attività importanti per la nuova condizione umana;
avviene una vera e propria rinascita del cosmopolitismo positivo caratteristico della cultura
ellenistica. Se il cosmopolitismo della media e tarda Stoa era il riflesso filosofico dell'allargamento
dei confini sperimentato dalla civiltà greco-romana, gli umanisti del 500 si trovano a vivere un
processo contrario, essi non si muovono all'interno di imperi multinazionali e poliglotti, bensì il loro
spazio coincide con la forma chiusa di uno Stato territorialmente delimitato. Ciò che in questo
periodo viene sperimentato è uno scontro di massa, alimentato dalle diversità culturali e religiose.
2. Querela pacis
Nell'umanesimo cinquecentesco il ritorno ai grandi temi del canone classico deriva da una critica
radicale al flagello della guerra. Già in Thomas More, si vede una critica agli splendori della
guerra. Nella sua Utopia, More può denunciare la malvagità dei capi di Stato che si occupano di
cose militari piuttosto che di imprese di pace e condanna senza remissione le guerre condotte per un
motivo fu