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Scuola, capitale culturale e diseguaglianze sociali
6.1. La crescita generalizzata dei livelli di istruzione ha favorito la mobilità sociale e la scuola
gratuita e obbligatoria ancora oggi favorisce non solo l’alfabetizzazione dei bambini
svantaggiati ma anche l’integrazione culturale e sociale degli immigrati. Abbiamo già visto
che lo stesso Weber attribuiva alla scuola un ruolo decisivo per la costituzione e
conservazione dei ceti in quanto comunità chiuse: è attraverso i titoli di studio, le credenziali,
che i gruppi professionali si costituiscono in gruppi monopolistici. Ma la scuola svolge anche
altre funzioni oltre a favorire le pratiche monopolistiche dei gruppi occupazionali. Ciò che
sorprende dei fenomeni di esclusione sociale è che essi sembrano naturali, e quindi
giustificabili, agli stessi esclusi. Dopotutto, se si abbandonano gli studi condannandosi nella
maggioranza dei casi a un destino professionale poco appetibile è perché non si ha voglia di
impegnarsi a scuola o non si hanno la capacità per farlo. E’ questa l’idea meritocratica che è
alla base non solo del nostro senso comune ma anche di teorie sociologiche della
stratificazione e dell’istruzione come quella funzionalista, secondo la quale i processi
scolastici operano come strumenti di selezione e di incentivazione delle persone più adatte a
ricoprire i ruoli sociali di maggior responsabilità. E’ nella scuola, secondo Bourdieu, che si
compie quella fondamentale alchimia sociale che è la naturalizzazione delle diseguaglianze
sociali. Un assunto fondamentale della teoria del sistema scolastico di Bourdieu è
naturalmente che l’azione pedagogica si eserciti su individui che appartengono
originariamente a gruppi sociali diversi con dotazioni di capitale culturale diseguali;
concetto questo che come quello di habitus costituisce una vera architrave della teoria sociale
di Bourdieu, e che può definirsi come una forma di potere che riposa sul possesso di e
sull’esposizione a risorse simboliche e culturali, come la padronanza linguistica e la
conoscenza delle arti, il possesso o la disponibilità di oggetti culturali come libri, quadri o
strumenti musicali e naturalmente il possesso di titoli di studio. La diseguale distribuzione di
capitale culturale secondo Bourdieu configura una delle dimensioni cruciali della
disuguaglianza sociale nella società contemporanea, che la scuola non solo presuppone ma
contribuisce dunque a perpetuare, privilegiando chi è già privilegiato ed escludendo quanti
non hanno le risorse per padroneggiarla.
La classe agiata e il consumo vistoso
6.2. In sociologia l’interesse per questi aspetti culturali e simbolici delle disuguaglianza sociali
ha radici lontane. Già alla fine dell’Ottocento il sociologo americano di origine norvegese
Thorstein Veblen aveva colto in quello che chiamava il consumo vistoso uno dei principi
esplicativi della formulazione e soprattutto conservazione dei ceti superiori, che l’autore
chiamava con l’espressione generica classe agiata. Il consumo vistoso di beni ricercati è un
mezzo di rispettabilità per il gentiluomo agiato. Come la ricchezza gli si accumula nelle
mani, egli non riuscirà da solo, con questo metodo, per quanto si sforzi, a mettere
sufficientemente a mostra la sua opulenza. Si ricorre perciò all’aiuto di amici e competitori
con l’espediente di offrire regali di valore e feste e trattenimenti dispendiosi. Egli consuma
per conto del suo ospite e intanto è testimone del consumo di quella sovrabbondanza di beni
che l’ospite non potrebbe consumare da solo, ed è pure fatto testimone della compitezza
cerimoniale di quest’ultimo. Il consumo diventa un investimento in vista di un aumento di
reputazione.
Il gusto degli altri: la logica esclusiva della distinzione
6.3. Il gusto è un potente strumento sociale di classificazione degli individui e quindi di
attivazione di meccanismi di inclusione ed esclusione, la cui logica di funzionamento è
parimenti sociale, cioè determinata dalla struttura dei rapporti sociali. Ci piace ciò che siamo
in grado di apprezzare, dunque ciò che siamo in grado di classificare e ancor prima di
percepire. Il gusto funziona come una specie di senso dell’orientamento sociale per cui
orienta coloro che occupano un determinato posto nello spazio sociale verso le posizioni
sociali adatte alle loro proprietà, verso le pratiche o verso i beni che si addicono a coloro che
occupano quella posizione, che vanno bene per loro. Non solo i titolo di proprietà, quelli di
studio (le credenziali educative) e gli status ascritti (genere, razza), ma anche i consumi
possono dunque funzionare, in quanto segni di distinzione e segnali di posizione sociale,
come strumenti di esclusione sociale e di delimitazione dei gruppi nello spazio sociale.
Capitolo 3: Castigo e delitto
Il problema del nesso tra delitto e castigo: relatività storica di cosa punire e come punire
1. Storicamente il rapporto tra delitto e castigo è stato considerato prevalentemente come un rapporto
necessario: si può dire che nessuna società ha mai problematizzato ciò che considerava delitto e
quindi puniva. Secondo il paradigma liberale gli individui non possono che trovarsi d’accordo nel
definire cos’è bene e cos’è male: la legge penale riflette la volontà comune e non è altro che la
codificazione di questo accordo. Fulcro di questo paradigma è l’assunto che il crimine è un
fenomeno dai contorni oggettivi e le pena è l’unico strumento attraverso cui esso può essere
eliminato, o almeno limitato. Il binomio delitto e castigo di essere rappresentato in termini
naturalistici per essere inserito nel processo (storico) di definizione delle norme e di etichetta mento
di chi le trasgredisce, di messa a punto di tecniche capaci di indurre conformità e di reprimere
difformità, di definizione dei confini tra normale e patologico.
Carcere e potere disciplinare: la rieducazione attraverso il lavoro
2. Nel corso dell’Ottocento fu messa a punto una nuova modalità di produzione dell’ordine sociale, il
disciplinamento, espressione di una comune credenza nel potere riformatore dell’ascetismo imposto,
del lavoro duro dell’istruzione religiosa e della routine. Il disciplinamento opera attraverso
l’internalizzazione ma a differenza dei normali meccanismi di socializzazione, ha origine da un atto
di coercizione. E’ per questo che Foucault eleva il Panopticon a simbolo di questa ideologia: il
grande merito del progetto di Bentham era quello di incutere nei detenuti la paura di essere
sorvegliati. Il carcere, o meglio il penitenziario, fu l’istituzione che sembrò capace di conciliare la
retorica della pena e quella della sua esecuzione. Si passa dalla concezione dell’autore del delitto
come un soggetto da distruggere è annientare, all’idea che esso è una parte integrante della società
che ha trasgredito alcune sue norme, cosa che non esclude un suo reinserimento nel contesto sociale.
Il progetto benthamiano del Panopticon è elevato da Foucault a metafora di una trasformazione
epocale del potere. E vide anche quale era la modalità attraverso cui questo potere doveva essere
esercitato per essere efficace: far credere ai soggetti che in nessun momento avrebbero potuto
sottrarsi allo sguardo onnipresente dei propri controllori, e che quindi nessuna mancanza, per quanto
segreta, poteva restare impunita. Il Panopticon era concepito partendo dall’idea che l’ozio fosse il
padre di tutti i vizi. La sua funzione doveva essere quella di allontanare i reclusi della strada della
perdizione sulla quale si erano avviati di propria volontà o sulla quale erano stati spinti dalla
necessità. La strada che doveva riportarli a rientrare nei ranghi della società normale era il lavoro: la
disciplina del lavoro era considerata da Bentham la medicina capace di arrestare la dissoluzione
morale, combattere e vincere l’accidia, l’inettitudine e la mancanza di rispetto e l’indifferenza per le
norme sociali, i vizi cioè che rendevano i reclusi incapaci di una vita normale. Il lavoro duro e
costante era visto allo stesso tempo come la ricetta di una vita nobile e piena di meriti e il
fondamento dell’ordine sociale. Bentham era convinto che rendere il soggetto capace di contribuire
alla ricchezza della società fosse il modo migliore per rieducarlo e quindi inserirlo socialmente. Il
Panopticon era in primo luogo la macchina capace di abituare anche i soggetti più recalcitranti al
ritmo ripetitivo, monotono e meccanico della moderna produzione industriale.
La criminologia positivista e la nascita del criminale
3. Fin dal suo apparire la criminologia diede per scontato il carattere strumentale del sistema penale e
affrontò la questione criminale ragionando in termini di relazione tra cause ed effetti ponendosi
finalità dichiaratamente pratiche: chi si richiamava a questa impostazione discuteva delle cause per
cui gli individui commettono delitti e cercava strumenti capaci di neutralizzare queste cause. Per la
concezione positivista la criminalità è la manifestazione di una patologia individuale che qualche
volta può essere ricondotta a un’origine sociale. Questa impostazione capovolge quella della scuola
classica secondo la quale la sola differenza tra il criminale e il non criminale è un evento contingente:
l’uno ha scelto occasionalmente di commettere un reato, mentre l’altro non lo ha fatto. La scuola
positiva rigetta l’assunzione che gli individui siano caratterizzati in primo luogo da un intangibile e
non esplorabile nucleo di creatività e di scelta. Per essa gli esseri umani hanno una personalità o un
carattere che non è un elemento unitario e indipendente ma piuttosto qualcosa di complesso e
soprattutto qualcosa di conoscibile scientificamente e di manipolabile. Per quanto concerne la
politica criminale la criminologia positivista favorì e percosse un netto salto qualitativo e
quantitativo. Una volta assunto che all’origine dei delitti sta un elemento, la criminalità,
scientificamente analizzabile, si può pensare di passare da una politica criminale basata sul castigo
per i delitti commessi a una seria politica e di prevenzione ante delictum. La criminologia positivista
invece promise una prevenzione fondata sulla scienza. Una volta in possesso di un criterio scientifico
per individuare i criminali, attraverso tecniche identificative quali l’antropometria, le impronte
digitali, i sistemi di segni per contraddistinguere con marchi indelebili i corpi degli ex rei, si
potevano identificare i soggetti, che per quanto osservassero la legge, erano anormali, pericolosi e
bisognosi di controllo.
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