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PERCEPIRE E COMPRENDERE SE STESSI
L’autoriflessione, l’osservazione del nostro comportamento e il confronto con gli altri sono le
principali fonti attraverso cui arriviamo a conoscere noi stessi e quindi alla costruzione del
nostro se.
In psicologia il primo a mostrare interesse nei confronti del Sé è stato William James, filosofo e
psicologo statunitense. L’autore sostiene che esiste in primo luogo una rappresentazione del
se relativa ad aspetti materiali connessi alla persona quali l corpo, la famiglia, la casa, il
lavoro persino i vestiti che si indossano. Parallelamente, sussiste un concetto di se associato
agli aspetti sociali: esso riguarda le molteplici immagini che gli altri possiedono di noi.
Secondo James esistono tanti Sé sociali quanti sono gli individui che di noi possiedono
un’immagine. Infine il soggetto possiede una concezione relativa agli aspetti spirituali del Sé,
intendendo le proprie facoltà psicologiche, motivazioni e disposizioni, nonché i propri
atteggiamenti e tratti di personalità.
Nel corso del Novecento altri autori hanno contribuito a costruire le fondamenta per lo
sviluppo delle teorie contemporanee sul Sé. Il sociologo Charles Cooley, partendo dal
presupposto che l’individuo e la società di cui fa parte non sono elementi separabili afferma
che lo sviluppo del Sé è strettamente connesso all’interazione con gli atri. Il suo principio
“Looking-glass self” (Sé rispecchiato) afferma che la nostra capacità immaginativa ci
permette di cogliere i nostri comportamenti, i nostri obiettivi e da tali considerazioni veniamo
in varo modo influenzati. A conferma di questa tesi, studi recenti dimostrano proprio come i
sentimenti di autostima dipendano in larga misura da quanto le persone si sentano accettate
dagli altri.
Goffman si sofferma sulle esigenze narcisistiche del Sé, affermando che il comportamento
della gente è quasi sempre dettato dal desiderio di lasciare un’impressione positiva nella
mente di chi viene giudicato importante. Gli individui sono continuamente impegnati a
recitare vari ruoli, facendo attenzione al tempo stesso, a tener ben nascoste le proprie lacune.
L’avvento del cognitivismo in psicologia inaugura una nuova e più feconda era nello studio del
Sé. Questa corrente di pensiero conferisce dignità scientifica a tutti quei costrutti “interni”
precedentemente banditi dal comportamentismo (tra i quali, oltre al Sé, gli atteggiamenti, gli
stereotipi, i processi mnestici..), contribuendo in maniera determinante allo sviluppo di validi
strumenti per la loro misurazione.
1. L’ACQUISIZIONE DEL CONCETTO DI SÉ.
Come facciamo a sapere che siamo in un certo modo piuttosto che in un altro? La conoscenza
di Sé rappresenta l’esito di un’approfondita ed impegnativa analisi delle informazioni
provenienti da varie fonti, come: l’autoriflessione, l’osservazione del proprio comportamento
e il confronto con gli altri.
L’autoriflessione
Guardarsi dentro è fondamentale per capire se stessi. Abbiamo a disposizione una
inestimabile fonte di informazione dalla quale attingere per conoscerci più a fondo. Tuttavia,
non sempre sfruttiamo a dovere questa grande opportunità, nel senso che in molte occasioni
non amiamo ricorrere all’introspezione. Secondo la teoria dell’autoconsapevolezza oggettiva,
la ragione di questa riluttanza va ricercata nella particolare condizione psicologica in cui viene
a trovarsi la persona quando il Sé diventa l’oggetto dell’attenzione.
In questi casi infatti gli aspetti del Sé salienti in quella particolare situazione, vengono messi a
confronto in maniera pressoché automatica, con dei canoni interiorizzati concernenti ciò che
la persona aspira ad essere.
Sebbene il confronto con i canoni interiorizzati talvolta si riveli per noi soddisfacente più di
frequente da tale confronto usciamo sconfitti; la conseguenza è quella di dover fronteggiare
un disagio psicologico dovuto alla sensazione di essere in difetto. L’obiettivo principale
diventa allora quello di ridurre questo stato di dissonanza: dobbiamo agire più in fretta
possibile per tornare a stare bene. Ma come fare? Secondo Duval e Wicklund una strategia
semplice ed efficace è quella di evitare gli stimoli che indirizzano l’attenzione verso noi
stessi.
Fatti salvi i casi in cui l’attenzione viene rivolta ad un aspetto in cui la persona eccelle,
concentrarsi su se stessi solitamente conduce ad una spiacevole sensazione di inadeguatezza
ragion per cui si preferisce ove possibile, rivolgere l’attenzione a eventi dell’ambiente
esterno. Tutto questo ha però un costo, nel senso che rinunciando all’introspezione ci
lasciamo sfuggire una grossa occasione per conoscere più a fondo le varie sfaccettature che
caratterizzano ciascuno di noi.
L’osservazione del proprio comportamento
La teoria dell’autopercezione di Bem afferma che le persone in determinare circostanze
giungono a conoscere i propri stati interni, ad esempio emozioni e atteggiamenti, attraverso
l’osservazione dei loro comportamenti. L’inferenza comportamento-atteggiamento, sebbene
sia frequente affinchè venga messa in atto è necessario che:
a) Il suo atteggiamento riguardo al tema in oggetto sia poco chiaro, non ben definito;
b) Il comportamento messo in atto sia liberamente scelto, senza alcuna pressione esterna.
I principi di questa teoria sono stati utilizzati ad esempio per spiegare le ragioni che inducono
ad acconsentire ad una richiesta gravosa quando viene preceduta da un assenso, dato dalla
persona, ad una richiesta affine ma molto impegnativa.
Una tecnica molto nota è conosciuta con il nome di piede nella porta. Secondo la teoria
dell’autopercezione il consenso alla prima richiesta aveva innescato inferenza che porta con
se delle importanti ripercussioni sul piano del comportamento. La persona infatti, per essere
coerente con la nuova immagine di se tenderà a confrontare ad essa le proprie azioni future
accettando una seconda richiesta che, vista la sua onerosità, in altre circostanze avrebbe
quasi certamente rifiutato.
È importante rimarcare che secondo la teoria di Bem la conoscenza del Sé non deriva
esclusivamente dalle inferenze comportamento-atteggiamento. Si rivela un’importante fonte
di conoscenza di se quando i nostri atteggiamenti o sentimenti risultano vaghi. In questi casi
chi compie l’azione, al pari di un osservatore esterno, si basa sul comportamento manifesto e
sulle circostanze in cui questo viene messo in atto per risalire ai meccanismi psicologici che
ne stanno alla base.
Il confronto con gli altri
La teoria del confronto sociale di Festinger afferma che il modo migliore per giungere a
un’accurata conoscenza delle nostre abilità ed opinioni è quello di confrontarle con le abilità e
opinioni possedute dagli altri. Chi ci sta intorno rappresenta un’inestimabile fonte di
conoscenza di noi stessi. Naturalmente il confronto ci fornisce preziose informazioni quando
avviene con persone a noi simili.
La spinta al confronto tuttavia, non è una costante del comportamento umano ma cresce in
maniera inversamente proporzionale alle informazioni in nostro possesso. Con il tempo,
diventando più sicuro di sé, il bisogno di confrontare la propria prestazione con quella degli
altri diminuirà progressivamente. Nell’ottica di Festinger inoltre, la spinta al confronto varia in
funzione della rilevanza che un particolare aspetto del Sé ha per la persona. Anche le
emozioni sono soggette al confronto sociale.
Il raffronto con le persone che ci circondano dunque ci dice chi siamo, quanto valiamo, se
siamo nel giusto e in che misura ci distinguiamo dagli altri.
2. I MOTIVI DEL SE
Tutte le informazioni riguardanti la propria persona finiscono con l’organizzarsi in una serie di
strutture cognitive definite schemi di se al cui interno troviamo sia delle rappresentazioni di
eventi specifici riguardanti l’individuo, sia delle rappresentazioni più generali frutto della
valutazione ripetutamente effettuata sulla condotta personale. È importante tuttavia
sottolineare che gli schemi di se svolgono un’importante funzione nel processo di codifica ed
elaborazione delle informazioni inerenti la propria persona, per cui, ad esempio, se l’individuo
si considera generoso tenderà a soffermarsi su quegli episodi in cui viene fuori questo suo
tratto sorvolando al contrario quelli in cui si è dimostrato indifferente ai bisogni altrui.
Quindi nel processo che conduce ad una conoscenza più approfondita di noi stessi non ci
limitiamo ad acquisire meccanicamente tutte le informazioni in entrata, ma svolgiamo un
ruolo attivo selezionando e interpretando gli eventi sulla base di quanto sappiamo già su noi
stessi.
Appare ormai accertato infatti che gli individui lungi dall’essere spettatori passivi, vanno a
caccia di informazioni che soddisfino due differenti spinte motivazionali ossia il mantenimento
della stima di Sé e il mantenimento di un senso di coerenza e stabilità. La motivazione a
mantenere una visione positiva di se stessi è la più forte, per cui l’individuo sembra
primariamente andare alla ricerca di informazioni che lo ritraggono come componente
attraente o onesto.
Mantenimento della stima di sé
Sostenere l’immagine personale sembra essere un bisogno radicato in tutti gli esseri umani.
La forza di questa spinta motivazionale sembra essere connessa agli enormi vantaggi che
essa si porta dietro in termini di benessere emotivo e di adattamento sociale. Vedersi in una
luce positiva infatti, consente di gestire al meglio le situazioni stressanti, di sperimentare
raramente sentimenti di solitudine, depressione e ansia, di sviluppare un atteggiamento
positivo nei confronti della vita e di avere una buona forma fisica. Valutazioni più caute o
negative di se stessi si associano invece a disadattamento, difficoltà nelle relazioni
interpersonali e depressione.
Purtroppo però il feedback proveniente dal mondo sociale, non sempre gioca a favore della
persona. È strano notare come la stragrande maggioranza della gente sovrastimi comunque il
proprio valore.
Evidentemente allora nell’elaborare le informazioni riguardanti la propria persona, gli individui
si avvalgono di una serie di trucchi che permettono loro di tenere alla larga tutto quanto possa
minacciare il Sé. A questi trucchi gli psicologi sociali hanno dato il nome di strategie di
autoinganno.
Nell’interpretare gli esiti delle proprie azioni le persone tendono ad attribuire i successi alle
abilità personali ed i fallimenti a fattori esterni quali la sfortuna o il caso.
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