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• LATANE’ E DARLEY: PERCHE’ TANTI SONO INDIFFERENTI ALLE

DISGRAZIE ALTRUI

Come è potuto accadere che negli anni 60’ in una periferia di una grande metropoli come New

York, mentre una donna di nome Kitty Genovese veniva brutalmente assassinata, nessuno delle 68

persone che hanno assistito alla scena dalle finestre delle loro case sia intervenuta in suo soccorso?

La risposta data dai media fece riferimento alla mancanza di valori e alla spaventosa indifferenza

dell’uomo moderno.

Latanè e Darley hanno invece dimostrato il peso dei fattori situazionali e di processi sociali come

l’influenza sociale, l’ignoranza pluralistica, la diffusione di responsabilità.

Innanzitutto, le situazioni d’emergenza sono fatti inusuali per la stragrande maggioranza delle

persone che quindi ha difficoltà ad agire in maniera istantanea e precisa nel prestare soccorso.

Il modello proposto prevede diversi stadi: nel primo il soggetto percepisce nell’ambiente qualcosa

di anomalo, nel secondo interpreta quello che accade come un’ emergenza, nel terzo decide se è il

caso o meno d’intervenire e infine passa all’azione.

Tra i fattori che possono ostacolare il soccorso vi è sicuramente l’influenza sociale:

gli autori organizzano un esperimento dove in una condizione il soggetto deve compilare da solo in

una stanza un questionario sulla vita nelle grandi metropoli, mentre nell’altra condizione insieme ad

altri; a un certo punto da una feritoia posta all’altezza del soffitto inizia a uscire un fumo

denso..Quando il soggetto è da solo le probabilità che interrompa il compito ed esca dalla stanza per

avvisare qualcuno sono decisamente superiori a quelle della condizione in cui si trova con altri,

soprattutto se poi questi sono confederati, per cui devono far finta di niente. Al termine

dell’esperimento viene fatta un’intervista per capire come è andata e tutti ovviamente citano il

fumo, ma dando interpretazioni diverse sul perché siano intervenuti o meno: quelli che l’hanno fatto

affermano che secondo loro si poteva trattare di un principio d’incendio, anche se non erano sicuri,

mentre quelli che sono rimasti al loro posto si sono lanciati addirittura in interpretazioni alquanto

bizzarre del tipo “credevo che fosse uno stratagemma per creare l’atmosfera che si respira nelle

grandi metropoli”.

Perché è stata data questa interpretazione?E perché si è deciso di non intervenire? Quando le

persone si trovano insieme ad altre tendono in situazioni ambigue come quella appena descritta, a

monitorare il comportamento e le reazioni di chi hanno attorno, per regolarsi. Se nessuno mostra

segnali particolari, evidentemente vuol dire che non c’è da preoccuparsi (ignoranza pluralistica),

così può capitare che nel bel mezzo di una folla una persona che ha appena avuto un attacco di

cuore può benissimo essere scambiata per un barbone ubriaco che si sta facendo una bella

pennichella. In più, le norme sociali prescrivono un comportamento controllato, per cui è sbagliato

mostrare in pubblico segnali di timore o emozioni negative, come anche guardare gli altri con una

certa insistenza è un gesto che suscita imbarazzo e forte disagio (es dell’ascensore o di spazi ristretti

dove ognuno proietta lo sguardo sul pavimento o sul muro, oppure nelle sale d’attesa le riviste

assolvono proprio questa funzione di “posizione innocua dello sguardo”); allora l’individuo

potrebbe essere talmente inibito da non accorgersi affatto di ciò che gli capita attorno! Riguardo alle

giustificazioni, quel che è peggio è che non si riconosce l’influenza di altri e della situazione sul

comportamento personale, ragion per cui ci si giustifica come si può riguardo al fatto di non essere

intervenuti.

Un secondo esperimento sottolinea l’importanza dell’influenza sociale e delle motivazioni

nell’interpretazione di un evento come “emergenza”. Il soggetto era posto in una stanza a compilare

un questionario e nell’altra si faceva credere mediante una registrazione che ci fossero due bambini,

uno grande e uno piccolo, a giocare; a un certo punto, il più grande cominciava a litigare per avere

un giocattolo e il litigio diventava sempre + violento. Nessuno è intervenuto (tranne uno). A questo

punto l’esperimento è stato modificato introducendo la presenza di un adulto nella registrazione con

i due bambini che litigano: in questo caso quasi tutti credono che effettivamente ci sia stato un

litigio, ma non sono intervenuti data la presenza dell’altro adulto; nella prima formulazione

dell’esperimento invece essi hanno risolto il conflitto tra l’intervenire o meno per fare da paciere tra

i due bambini attraverso la giustificazione che non ci fosse effettivamente un’emergenza e così si

sono sollevati da ogni responsabilità.

A proposito di responsabilità, la diffusione di questa è stata oggetto di un terzo esperimento nel

quale il soggetto era invitato a sistemarsi in un cubicolo dove tramite un interfono poteva

comunicare con altri soggetti (fittizi, si trattava di registrazioni) e raccontare a turno la sua vita di

studente; l’isolamento fisico era per garantire l’anonimato. Diverse condizioni: al soggetto si fa

credere di partecipare all’esperimento insieme a un altro soggetto, ad altri due o altri quattro. Uno

dei finti soggetti racconta di soffrire di frequenti crisi epilettiche e al secondo turno di parola

comincia ad ansimare e a chiedere esplicitamente aiuto. Si è rilevato che il soggetto sperimentale

interviene uscendo dalla stanza e chiedendo aiuto molte più volte e in un tempo + breve rispetto a

chi pensa di trovarsi in compagnia di altri e i tempi di reazione si allungano quanto più alto è il

numero di persone che partecipano all’esperimento. Il soggetto che si crede in presenza d’altri, una

volta che ha capito che c’è qualcosa di anomalo e che si tratta di un’emergenza, prima di decidere se

intervenire si chiede “devo essere proprio io?”. Al termine dell’esperimento, gli autori hanno

somministrato dei questionari di personalità per smentire l’ipotesi che chi non era intervenuto

sarebbe un individuo sociopatico e indifferente alla sofferenza altrui. Le scale di misurazione

riguardavano costrutti come autoritarismo, responsabilità sociale, bisogno d’approvazione, anomia;

ebbene, come previsto l’ipotesi è stata smentita e inoltre chi non era intervenuto mostrava segni di

forte disagio come sudore o tremori, anziché essere calmo e disinteressato. Quindi sì il contesto, no

la personalità, tant’è vero che chi presta soccorso per professione o perché ha fatto un corso non

interviene di più rispetto a chi non lo ha fatto in casi d’emergenza. C’è anche da dire che la

diffusione di responsabilità è minore nel caso in cui le persone coinvolte in un’emergenza si

conoscono tra loro.

Da tenere in conto che il non intervenire può essere connesso a un discorso di incolumità per se

stessi (durante un’emergenza il pericolo può coinvolgere il potenziale soccorritore e arrecargli

danno), ma anche al timore di mostrarsi incapaci, nonostante le norme morali prescrivano che

bisogna aiutare chi è in difficoltà.

Pertanto, la critica che può essere mossa al modello è che non permette di fare previsioni sul modo

in cui una persona effettivamente si comporterà, anche di fronte a una richiesta d’aiuto esplicito.

La fase di valutazione attenta della situazione come minacciosa o meno è importante pure per non

mettersi in ridicolo, perché se sento urlare una ragazza e vedo che un ragazzo la importuna, potrei

intervenire e dargli una mazzata in testa senza sapere che in realtà si tratta solo di uno stupido

scherzo tra due innamorati.

Il merito del modello di Latanè e Darley non è solo quello di aver fatto luce sulle effettive cause di

non soccorso in situazioni d’emergenza, ma anche quello di aver proposto (al di là di quanto si

possa credere) qualcosa di ecologico e generalizzabile, pur avendo fatto tutto in un laboratorio.

L’emergenza era infatti il vero esperimento, non il resto, quindi come si può affermare che la

situazione in laboratorio è poco realistica? Come dentro, così fuori!

In conclusione, al contrario di quanto comunemente si pensa, è raccomandabile non trovarsi in

presenza di molte persone e ancor meno di una folla, laddove si necessiti di aiuto.

Le ricerche sul tema sono proseguite e hanno portato ai seguenti risultati:

una vittima fisicamente attraente ha maggiori possibilità di ricevere aiuto;

una persona della propria etnia ha + possibilità di essere aiutata.

• TAJFEL: CATEGORIZZAZIONE E PREGIUDIZIO SOCIALE

La storia personale dell’autore, ebreo e vittima come la famiglia e gli amici dei campi di

concentramento nazisti, è alla base del suo lavoro: l’obiettivo è capire quali sono i meccanismi

razionali che portano alla discriminazione intergruppi e a fenomeni come quello degli stereotipi e

del pregiudzio sociale che può sfociare in comportamenti violenti e disumani.

-Già Campbell aveva sottolineato l’importanza della categorizzazione come processo cognitivo che

permette all’individuo di semplificare, ordinare la realtà e guidare la sua condotta;

-Allport definisce la categorizzazione sociale come “un mezzo per tagliare a fette la società”

Tajfel approfondisce la questione con i costrutti di assimilazione e contrasto:

il processo di assimilazione consente di accentuare le somiglianze tra elementi di uno stesso gruppo

in modo da percepirlo come omogeneo, mentre il processo di contrasto induce a sovrastimare le

differenze tra elementi di gruppi diversi.

-Sherif con l’esperimento dei campi estivi elabora la teoria del conflitto intergruppi sostenendo che

è la competitività in vista di un obiettivo a scatenare la discriminazione, mentre la necessità di

lavorare in maniera cooperativa per uno scopo sovraordinato aiuta ad appianare i contrasti.

-Rabbie e Horwitz tentano di dimostrare che l’assenza di un conflitto reale è condizione sufficiente

per creare discriminazione: assegnano i soggetti a due gruppi (blu e verdi) e premiano un solo

gruppo con una radio sulla base del semplice lancio di una moneta. La percezione di destino

comune e dell’interdipendenza tra i membi è sufficiente per valutare come positivo il gruppo

d’appartenenza rispetto all’outgroup, sia che questo abbia vinto il premio estratto a sorte sia che

abbia perso.

Il paradigma dei gruppi minimi di Tajfel&co per spiegare le relazioni intergruppi:

Dettagli
Publisher
A.A. 2012-2013
12 pagine
6 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/05 Psicologia sociale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Danilo p di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Teorie e Tecniche di Psicologia Sociale I e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bologna o del prof Rubini Monica.