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RELAZIONE DI AIUTO
La condizione di “inferiorità psicologica” di chi ha bisogno di aiuto
Le situazioni di aiuto sono intrinsecamente squilibrate e caratterizzate dall’ambiguità
ci si mette in una condizione di “inferiorità
di ruolo. Quando si chiede aiuto,
psicologica” sul piano emotivo e sul piano sociale. Non sapere che cosa fare, o non
essere in grado di farlo, è una perdita temporanea di status e di autostima. E doversi
rivolgere a qualcun altro perché dia dei consigli,curi, conforti sul piano spirituale, tiri
su il morale, è una perdita di indipendenza.
L’esigenza di mantenere il controllo della situazione è particolarmente forte nelle
culture in cui crescere significa diventare indipendenti, e o è particolarmente per i
maschi. Essere indipendenti significa non dover chiedere aiuto. Aver bisogno di aiuto
è qualcosa di avvilente. La scelta di rivolgersi a uno psicoterapeuta per risolvere dei
problemi emotivi si considera frequentemente qualcosa di vergognoso.
Quel senso di inferiorità psicologica si applica alla percezione di se stessi nei
confronti dell’helper, ma si può avvertire ancora di più pesantemente in relazione ad
altri membri della propria organizzazione.
In molte aziende, rivolgersi a un consulente equivale praticamente ad ammettere di
non essere in grado di svolgere il proprio lavoro.
La condizione di “superiorità psicologica” di chi si sente chiedere aiuto
Ritrovarsi nel ruolo di helper rappresenta immediatamente un incremento di status e
di potere. Dopo aver chiesto aiuto, il cliente assume il ruolo passivo e dipendente del
“pubblico” e mette il potenziale helper nel ruolo dell’attore. Il potenziale helper ha la
possibilità di sfruttare la situazione, vedendo qualcosa o approfittando in altri modi
delle circostanze, anziché fornire un auto disinteressato. È psicologicamente
problematico rinunciare a qual potere.
Fornire aiuto è un’obbligazione importante nei confronti degli altri membri della
società. Chiedendo aiuto, il potenziale cliente diventa vulnerabile e crea una
situazione che abbisogna di riequilibrio. Ciò che non si può fare è ignorare la
richiesta di aiuto e rifiutare di essere coinvolti. Una reazione di questo tipo
rinforzerebbe il senso di inferiorità psicologica del cliente, segnalandogli che il suo
problema non merita attenzione.
Per riassumere, all’inizio, tutte le relazioni d’aiuto sono squilibrate. Il cliente si sente
in inferiorità psicologica e perciò vulnerabile; l’helper si sente in superiorità
psicologica e perciò molto sicuro di sé. La disfunzionalità del processo d’aiuto
consiste in gran parte nell’incapacità di riconoscere e di gestire questo squilibrio
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iniziale. Lo squilibrio di potere iniziale crea in entrambi un’ansia e una tensione che
vanno gestite.
Se l’esistenza di quell’ansia non viene riconosciuta, entrambe le parti rischiano di
adottare un comportamento disfunzionale difensivo.
Cinque possibili trappole per il cliente
L’helper sarà disponibile a dare aiuto e sarà in grado di farlo?
1) Differenza iniziale:
Questo dubbio è normale e appropriato, ma potrebbe indurre il cliente a nascondere il
problema reale. Il cliente dubbioso potrebbe sollevare un dilemma ipotetico per
stabilire il grado di reattività e di empatia dell’helper.
La trappola in cui potrebbe cadere l’helper è andare troppo rapidamente alle soluzioni
e quindi perdere l’opportunità di capire quale potrebbe essere il problema reale.
2) Sollievo: Avendo finalmente denunciato il problema ad una persona che potrebbe
essere in grado di aiutarlo, il cliente si sente certamente sollevato. Al sollievo si
accompagna un piacevole senso di dipendenza e di subordinazione nei confronti
dell’helper. Se l’helper ne rinforza il senso di dipendenza, potrebbe essere più
difficile rendere proattivo il cliente.
In quasi tutte le situazioni d’aiuto, uno degli obiettivi è mettere il cliente in
condizione di risolvere il problema qualora si ripresentasse.
3) Ricerca di attenzione, rassicurazione e/o validazione, anziché di aiuto: Gli helper
devono preoccuparsi particolarmente di coloro che chiedono aiuto, ma in realtà
tutt’altra cosa. Non tutti coloro che chiedono aiuto ne hanno veramente
vogliono
bisogno, ma “aiuto” può essere una parola che va bene per tutti gli usi.
Il pericolo principale è che il cliente abbia scelto questo tipo di presentazione per
evitare di sentirsi in inferiorità psicologica. A quel punto l’helper deve trovare il
modo di rassicurare il cliente senza approvare tacitamente una soluzione che potrebbe
non andar bene per la situazione.
4) Risentimento e difensività: Il cliente potrebbe cercare la maniera di far apparire
inadeguato l’helper. Questa reazione è particolarmente probabile se l’helper è già
caduto nella trappola di dare dei consigli prematuri o irrilevanti. La trappola in cui
rischia di cadere l’helper è la tendenza ad assumere un atteggiamento difensivo e
polemico.
5) Adozione di aspettative stereotipate e irrealistiche, e trasferimento delle
percezioni: Ognuno di noi ha avuto delle esperienze precedenti con gli helper che ne
influenzano i sentimenti e le percezioni. È intrinsecamente difficile vedere un nuovo
helper in una luce obiettiva, ma questi pregiudizi vengono inizialmente celati. Le
del cliente sull’helper si basano talvolta su sentimenti più profondi e
proiezioni
inconsci di cui all’inizio nessuna delle parti potrebbe avere consapevolezza.
il cliente valuta tutto ciò che fa l’helper alla luce di
Il problema è che a quel punto 8
queste aspettative e giudica la qualità della relazione su questa base, anziché
sull’effettività dell’aiuto ricevuto.
trappole per l’helper
Sei possibili
Chi si sente chiedere aiuto o percepire un bisogno di aiuto si pone automaticamente
in una posizione di superiorità, e scatta invariabilmente la tendenza a sfruttarla con
tutta una serie di reazioni. Ognuna di esse può essere normale e appropriata, ma
queste reazioni possono diventare anche delle trappole che creano problemi alla
relazione. Tutte e sei le reazioni comportamentali ed emotive che descritte qui di
seguito derivano da questa sensazione di superiorità, dalla convinzione di possedere
una competenza particolare desiderata da qualcun altro.
1) Fornire prematuramente dei consigli: Dando troppo presto dei consigli, si mette
ulteriormente il cliente in condizione di inferiorità. L’helper assume spesso
2) Rispondere alla difensività con una pressione più intensa:
che il cliente gli abbia rivelato un problema affettivo, e che abbia le competenze e le
capacità per mettere in atto la soluzione suggerita. Quando cade in questa trappola,
l’helper tende naturalmente a cercare di convincere il cliente che il consiglio che gli h
fornito è corretto.
3) Riconoscere il problema e reagire in maniera sproporzionata alla situazione di
dipendenza: Quando qualcuno accetta immediatamente di assumere il ruolo di helper
e trasuda fiducia nelle proprie capacità, incoraggia il cliente a mettersi in una
dipendenza prima di capire veramente se l’helper potrà dargli una mano.
posizione di
4) Dare supporto e rassicurazione: A volte potrebbe essere inappropriato dare
supporto, perché così facendo si rischia di rinforzare la condizione di inferiorità del
cliente.
5) Resistere all’assunzione del ruolo di helper: Questa reazione è la più subdola,
perché in molti casi gli helper non si rendono conto che i loro tentativi di rimanere
obiettivi e di evitare le trappole elencate in precedenza li rendono così emotivamente
distaccati da trasmettere una sensazione di indisponibilità al coinvolgimento.
A quel punto l’helper deve trovare il giusto mix di obiettività e di coinvolgimento che
consente la costruzione della relazione qualora l’aiuto sia veramente necessario.
6) Aspettative stereotipate e aprioristiche, “contro trasferimento”e proiezioni:
L’helper è soggetto a tutto ciò in base alle esperienze pregresse. Il cliente potrebbe
ricordargli una persona con cui ha interagito in una relazione precedente, indicendolo
inconsciamente trattarlo nello stesso modo. Gli psicoterapeuti accennano spesso alla
difficoltà di curare un paziente che stimola l’antipatia o addirittura il disgusto.
A quel punto bisogna capire se l’helper è disposto a investire il tempo e le energie
che occorrono per scoprire se la relazione iniziale, positiva o negativa, è realistica e
come potrebbe incidere sulla possibilità di fornire aiuto.
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Gli helper devono essere consapevoli della propria conformazione emotiva e devono
prepararsi ad ammettere che certi tipi di relazione tra helper e cliente sono
insostenibili.
Implicazioni per la costruzione
Costruire la relazione di aiuto significa conoscere, evitare o emendarle conseguenze
L’implicazione è che l’elemento focale
delle trappole che sono state identificate.
delle prime interazioni tra il cliente e l’helper dev’essere gestito da quest’ultimo con
l’obiettivo di elevare lo status del cliente e identificare i ruoli più appropriati.
Non è facile, perché l’helper si accosta alla relazione con tutta una serie di
predisposizioni psicologiche e di stereotipi culturali.
Il semplice fatto di sentirsi chiedere aiuto è una situazione estremamente gratificante.
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CAPITOLO QUARTO: L’AIUTO COME TEATRO
All’inizio qualunque relazione d’aiuto, i ruoli più appropriati e le regole di equità
sono intrinsecamente ambigui: significa che sia l’helper sia il cliente devono
sviluppare un’identità e scegliere una parte da interpretare.
L’unica cosa chiara quando si vede e si offre aiuto è che all’inizio il cliente è in
condizione di inferiorità e l’helper è in condizione di superiorità e che, pur senza
saperlo, entrambe le parti sono ansiose sulla possibile efficacia della relazione.
Cinque cose che l’helper non sa all’inizio
1) Il cliente capirà le informazioni, i consigli o le domande?
2) Il cliente avrà le conoscenze e le competenze necessarie per seguire la
raccomandazione dell’helper?
3) Qual è la vera motivazione del cliente?
4) Qual è la situazione contestuale del cliente?
5) Come incidono le esperienze dei clienti sulle aspettative, sugli stereotipi