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PERSONALITA’
Le ricerche fatte hanno puntato a trovare delle dimensioni psicologiche che distinguono gli atleti
dalle altre persone. Inizialmente si è puntato a trovare dei tratti di personalità che poi sono stati
sostituiti in parte dal modello interazionista. Di seguito verranno elencate le principali teorie in
merito che hanno trovato un’ampia e significativa applicazione in psicologia dello sport. 87
CAPITOLO 2.1: I TRATTI DI PERSONALITA’
Sin dagli anni 70’ come detto, si è provato a trovare il legame tra personalità e sport ma con scarsi
e parziali risultati. Tutte queste ricerche si sono basate sul modello dei tratti di personalità
concettualizzato da Allport, Cattell, Eysenck e Guilford anni prima. Questi indicano con il termine
tratto, un insieme relativamente omogeneo di comportamenti che un individuo ha in date
situazioni; per studiare questi tratti in ambito sportivo è stato utilizzato il questionario dei 16 fattori
di personalità (16PF) di Cattell, è risultato però che non sono emersi particolari tratti di personalità
negli atleti (tipo non hanno più determinazione o costanza nelle cose rispetto ai non atleti) e che
anzi, atleti che fanno lo stesso sport hanno tratti diversi tra loro. Un altro errore di queste ricerche
degli anni 70’ fu la pubblicazione dei risultati (solo quelli positivi, cioè solo quelli che dimostravano
qualche legame tra atleti e personalità diversa) e la loro diffusione.
Anche la caratterizzazione dell’atleta è abbastanza problematica secondo Martens, cioè non si
capisce bene se l’atleta è il solo professionista o anche l’amatore per esempio. Un’altra difficoltà è
la selezione del campione da analizzare e i sistemi di misurazione utilizzati per verificare se c’è un
legame tra tratti di personalità particolari di atleti e gli altri non sportivi.
Nel 1977, Schurr, Ashley e Joy, hanno risolto alcuni di questi problemi e fatto una nuova ricerca su
2000 soggetti, atleti e non atleti a cui è stato dato il test 16PF di Cattel. E’ emerso che il gruppo degli
atleti non si distingueva dai non atleti ma c’erano differenze quando altre variabili venivano prese
in considerazioni (tipo si è avuta differenza sullo status della partecipazione, vincente- non vincente,
e sport individuale – di squadra), questi risultati si sintetizzano cosi:
Gli atleti di sport di squadra sono meno astratti dal ragionamento, più estroversi e più
dipendenti dei non atleti, cioè sono più aperti e dipendono dal compagno
Gli atleti di sport individuali sono meno astratti, meno ansiosi e più dipendenti dei non atleti
Gli atleti di sport diretti (calcio, lotta, pallacanestro ecc.) sono meno astratti, più estroversi
e più indipendenti dai non atleti
Gli atleti di sport che si svolgono in parallelo (golf, baseball, nuoto ecc.) sono meno astratti,
meno ansiosi e meno indipendenti dei non atleti
Gli atleti di sport individuali sono meno dipendenti, meno ansiosi, meno estroversi e meno
emotivi rispetto a quelli degli sport di squadra
Gli atleti di sport diretti sono più aggressivi degli atleti di sport in parallelo dove non c’è
confronto fisico
Tra vincitori e non vincitori non ci sono particolari differenze
Tutt’oggi comunque, questi risultati sono messi in discussione, quindi si può affermare che i modelli
sui tratti di personalità non hanno spiegazioni sui comportamenti e sulle prestazioni sportive, queste
ultime quindi possono solo essere analizzate tenendo conto delle caratteristiche psicologiche
dell’atleta, dell’interazione di queste con quelle della situazione e quelle della sua cultura. 88
CAPITOLO 2.2: L’APPROCCIO INTERAZIONALISTA
Alcuni studiosi, hanno posto l’accento sull’interazione persona-situazione, dicendo che l’azione di
un soggetto deriva dall’interazione continua fra lui e le situazioni che incontra, quindi le situazioni
influenzano la persona e questa decide volta per volta, quali situazioni affrontare e come affrontarle,
questo è il modello interazionalista.
Con questo modello quindi, diventa fondamentale raccogliere dati relativi a dimensioni psicologiche
in particolari situazioni. Nello sport, l’obiettivo dei ricercatori che utilizzano questo modello, è quello
di costruire questionari con descrizioni di situazioni sportive significanti per gli atleti e che valutino
un’unica dimensione psicologica (tipo l’ansia pre-gara ecc.). Un esempio fu fatto con la pallacanestro
dove gli atleti valutavano il loro livello di ansia a seconda di specifici momenti della gara (prima,
durante, dopo, a pochi minuti dalla fine ecc.).
Questo metodo però ha avuto scarso successo nello sport, dove invece si è affermato quello per lo
studio dell’ansia di tratto e di stato di Spilberger e colleghi di inizio anni 70’. Questi studiosi hanno
definito due tipi di ansia:
Ansia di tratto, fa riferimento a una modalità stabile di percepire come ansiogene un’ampia
varietà di situazioni della vita quotidiana
Ansia di stato, considerata come uno stato d’animo passeggero che si ha solo in particolari
condizioni e situazioni
Queste due ansie, sono state approfondite da Martens prima e da altri colleghi poi a inizio anni 90’.
Questi hanno sviluppato una teoria sport-specifica di ansia di tratto competitiva e di ansia di stato
competitiva, costruendo due questionari, una per tipologia.
Altri modelli in merito sono stati elaborati da Morgan che ipotizza che un certo numero di tratti e
condizioni di stato definiscono la salute mentale degli atleti, mettendo in gioco anche la valutazione
degli stati d’umore.
Quello di Nideffer invece, ipotizza alcune relazioni tra processi attentivi e prestazione umana.
CAPITOLO 2.3: L’AUTOEFFICACIA
In generale, un individuo mantiene il suo impegno in un’attività nuova e difficile solo se ha fiducia
nella sua capacità di condurla a termine in modo positivo (cioè vado avanti solo se so che posso
farcela) e anche la stessa motivazione a scegliere determinati compiti e a dare il massimo si basa
sulla sicurezza individuale di raggiungere il risultato. Una concettualizzazione di ciò è stata fatta da
Bandura a fine anni 70’ che ha sviluppato il modello di autoefficacia che afferma che le aspettative
di padronanza personale (cioè la possibilità di avere il risultato positivo) hanno effetto sia sull’inizio
che sulla durata del comportamento, coloro che sono convinti di avere possibilità positive
effettivamente riusciranno meglio, quindi l’autoefficacia influenza la scelta delle situazioni
comportamentali, infatti si tende a evitare situazioni che ci creano difficoltà e affrontiamo quelle
che sappiamo di poter superare con successo. 89
L’autoefficacia viene dunque definita come la fiducia che una persona ripone nella propria capacità
di affrontare un compito specifico ed è compito-specifica, cioè io posso sentirmi sicuro in una
situazione ma insicuro in un’altra opposta. Ovviamente come detto, in base a questo, sceglierò
situazioni che mi danno sicurezza e che mi danno aspettative positive in termini di risultati.
Questa ultima considerazione introduce anche i concetti di:
Aspettativa di risultato, si riferisce al fatto che con un dato lavoro, teoricamente otterrò
questo risultato positivo
Aspettativa di efficacia, si riferisce al fatto che sono in grado di fare un dato lavoro al fine di
avere un risultato positivo previsto (cioè se so che una cosa mi porta a un risultato positivo,
sarò più propenso a farla)
Le aspettative di efficacia si basano su quattro fonti principali:
Esecuzione di prestazioni
Esperienze vicarie, cioè vedere altri fare senza problemi quello che noi vogliamo fare, questo
ci fa migliorare perché ci fa capire che se ci impegnano possiamo farlo anche noi, soprattutto
se chi lo sta facendo è uno “normale” e questo ha usato metodi ben precisi per arrivare la
Persuasioni verbali
Attivazione emotiva, è legata all’auto-percezione di efficacia
Più si ha consapevolezza delle proprie competenze e della propria autoefficacia, più riesco a
consolidare le mie aspettative future e viceversa.
CAPITOLO 2.3.1: LA MISURAZIONE DELL’AUTOEFFICACIA
Bandura ha proposto una tecnica che comprende la valutazione di tre aspetti dell’autoefficacia:
Il livello
La forza
La generalità di ogni compito da eseguire o ciascuna componente dell’abilità
Il livello di autoefficacia pertanto, è dato dalla relazione fra i compiti da fare e ciò che il soggetto
ritiene essere in grado di fare (tipo si fornisce un elenco con tante cose da fare e l’atleta dice ciò che
si sente in grado di fare oppure no con le attuali abilità). E’ importante però distinguere cosa si
intende fare e cosa invece si è in grado effettivamente di fare, oppure ciò che si può fare ma non si
vuole fare.
La forza dell’autoefficacia invece è la forza della convinzione personale di fornire una prestazione
ottimale proprio in quei compiti che si ritiene di poter fare in base alle proprie abilità.
La generalità dell’autoefficacia fa riferimento al numero di aree che un individuo crede di poter
affrontare con successo.
Per valutare l’autoefficacia sportiva bisogna quindi tenere conto di tutte le variabili che
compongono la vita sportiva e avere un giudizio complessivo. Bisogna anche definire quali siano le
capacità generative relative a uno specifico compito e di evitare domande troppo generali che
90
potrebbero solo creare dei dubbi all’atleta (cioè invece di chiedere “se ci si sta allenando in modo
giusto” si dovrebbero evidenziare tutti i fattori che potrebbero portare a un allenamento non
corretto). CAPITOLO 2.3.2: GLI ANTECEDENTI DELL’AUTOEFFIACIA NELLO SPORT
L’autoefficacia è derivata da studi fatti sui seguenti quattro effetti sulla percezione di efficacia nello
sport e nelle competizioni:
Esecuzione dell’azione, è il principale fattore per valutare l’autoefficacia, cioè l’esecuzione
delle azioni ci fa capire meglio quanto siamo efficaci in una situazione e ciò ci permette di
prendere fiducia nei nostri mezzi
Esperienze vicarie, come sappiamo, è il vedere gli altri fare le cose che poi noi dobbiamo
cercare di fare in futuro, questo fa aumentare le proprie capacità di fare le cose e fa
aumentare la fiducia in se, soprattutto se vediamo qualcuno meno bravo di noi che però
viene reputato bravo (cioè è quando si dice “se questo è bravo allora io sono un fenomeno&rdqu