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Vi sono diverse teorie rivolte a spiegare i meccanismi alla base dell’empatia:
• Teorie basate sull’imitazione: Secondo queste teorie l’empatia è un meccanismo
automatico sulla percezione e sulla riproduzione delle azioni svolte dall’altra persona.
Una prova dell’esistenza di un simile meccanismo è data dalla presenza dei neuroni
specchio. Inoltre, un’ulteriore prova della validità di queste teorie proviene dalla
psicologia sociale e consiste nell’effetto camaleonte, il quale prevede la mimica
spontanea dei gesti e della postura durante interazioni sociali di natura positiva. Questo
discorso è valido persino per le emozioni, infatti studi dimostrano che vedere persone che
provano dolore attiva gli stessi circuiti neurali nella persona che osserva.
• Teorie socio-affettive: Secondo queste teorie alla base dell’empatia giocano un ruolo
importante le credenze che si hanno sulla persona che si sta osservando. Ad esempio,
l’empatia provata può variare se una persona è giudicata buona o cattiva. Questo spiega
anche come l’uomo sia capace di atti di inumanità (genocidi) e meccanismi come il
disimpegno morale.
Di conseguenza, unendo le prospettive di entrambe le teorie, l’empatia può essere intesa come
un costrutto multi-dimensionale, comprendente meccanismi cognitivi, influenze sociali e
meccanismi neurali. Nel dettaglio comprende:
• Condivisione di stati mentali basati sull’imitazione
• Consapevolezza che se stessi e l’altro sono 2 entità simili ma separate
• Capacità di auto-regolazione tali da riuscire a porsi nei panni dell’altro, comprendendo i
suoi stati mentali e inibendo le proprie credenze e conoscenze.
Teoria della mente
Grazie alla teoria delle mente si possono capire gli stati mentali altrui. Per meglio comprendere
questa definizione, bisogna prima chiarire cosa sia effettivamente uno stato mentale. Esso è uno
stato intenzionale prodotto dagli individui che si differenzia dagli stati fisici per il fatto di andare
oltre ciò che un oggetto o un fatto sono realmente. Ad esempio, si può credere che l’h2o sia
tossica ma l’acqua sia potabile, oppure si può esser convinti di venire da saturno.
La teoria della mente è alla base dell’interazione sociale, infatti capire stati mentali altrui
permette di spiegarsi e di prevedere il comportamento di chi ci sta intorno.
I primi studi sulla teoria della mente sono stati condotti da Premack & Woodruff nel 1978, e
consistevano nel mostrare un video ad uno scimpanzé di nome Sarah nel quale un uomo cercava
di raggiungere una banana posta in alto rispetto alla sua posizione. In seguito, la scimmia doveva
prevedere il comportamento futuro dell’uomo selezionando alcune foto. Se avesse scelto le foto
che raffiguravano l’uomo prendere una scatola per poter raggiunger la banana, allora Sarah
avrebbe capito l’intenzionalità dell’uomo. Tuttavia, queste prove non fanno altro che testare la
regolarità di un comportamento, in accordo con credenze vere e di conseguenza prevedibile a
prescindere da intenzionalità e stati mentali. Per questo, Dennet nel 1978 afferma che un
requisito fondamentale per un test della teoria della mente deve essere la previsione di un
comportamento in contrapposizione alla realtà soggettiva, in accordo con una falsa credenza.
Una prova di questo tipo è il compito di Sally & Anne. I risultati mostrano che la capacità di
prevedere il comportamento altrui sulla base di una falsa credenza si acquisisce universalmente
dopo i 4 anni. Tuttavia, studi condotti in maniera differente dimostrano come la capacità di
attribuire stati mentali compaia prima, ad esempio nei bambini di 2 anni attraverso il gioco della
simulazione. Studi di neuro-immagine, sembrano localizzare la teoria della mente nella corteccia
mediale pre-frontale e nella giunzione temporo-parietale.
Autismo
L’autismo può essere definito come un deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale in
contesti differenti. Si tratta di un disturbo evolutivo riscontrabile prima dei 3 anni e che perdura
per tutta la vita. Può risultare difficile da diagnosticare a causa dell’assenza di correlati biologici e
a causa dell’influenza di fattori esterni o di disturbi diversi che possono presentarsi assieme
all’autismo complicando la valutazione e la diagnosi. Data la natura prettamente sociale del
disturbo, diversi ricercatori si sono dedicati al suo studio cercando di comprenderne i meccanismi
sottostanti. In questo senso, son state proposte diverse teorie:
• Deficit nella teoria della mente: Alcuni studi condotti utilizzando test di falsa credenza
mostrano che bambini autistici falliscono nel rappresentarsi stati mentali altrui. Tuttavia,
sembra che alcuni casi di autismo ad alto funzionamento riescano a passare questi test.
La spiegazione potrebbe essere che vi sono 2 forme di teoria della mente:
Esplicita: Misurata nei classici test linguistici di falsa credenza e che sembra essere
o preservata nelle forme di autismo ad alto funzionamento grazie all’utilizzo di
strategie compensatorie.
Implicita: Misurata in compiti moderni che prevedono l’attribuzione di stati
o mentali a forme geometriche, oppure prove che misurano i tempi di fissazione.
Autistici ad alto funzionamento falliscono questo genere di prove anche se portano
a termine quelle esplicite.
• Deficit nell’empatia: Alcuni studi condotti utilizzando questionari sull’empatia mostrano
punteggi bassi da parte di persone autistiche. Tuttavia, questi risultati dimostrano più una
difficoltà a riflettere sui propri stati mentali piuttosto che una mancanza di abilità
empatiche. Infatti, studi di neuroimaging dimostrano che nell’osservare qualcuno che
prova dolore, le persone autistiche attivano lo stesso circuito celebrale. Il deficit sembra
di più alessitimia, ovvero un’incapacità di dare un nome ai sentimenti propri e altrui.
• Deficit nello stile cognitivo: In letteratura vi sono prove del fatto che gli autistici abbiano
delle marcate differenze nello stile cognitivo. Nel dettaglio, percepiscono ed elaborano
più facilmente singole parti, faticando ad integrarle in una visione globale. Questa
tendenza potrebbe riflettersi sul loro modo di gestire le interazioni sociali. Una
spiegazione a questa difficoltà nel cogliere il senso globale potrebbe venire dal minor
numero di connessioni tra la corteccia frontale e il resto del cervello, riscontrata nelle
persone con autismo.
• Autismo come forma estrema di cervello maschile: Il cervello degli autistici potrebbe
essere inteso come una forma estrema di cervello maschile basandosi sulla teoria di
Baron-Cohen secondo la quale vi sono 2 tipi di funzionamento cerebrale:
Empathizing: Si riferisce ad una maggiore predisposizione a comprendere e
o prendersi cura degli altri. Tipicamente femminile.
Systemizing: Si riferisce ad una maggiore attenzione ai dettagli e a comprendere
o sistemi organizzati logicamente. Tipicamente maschile.
Alcune prove a sostegno di questa teoria provengono dagli effettivi livelli alti di
testosterone alla nascita e sulla prevalenza maschile dell’autismo. Tuttavia, questa teoria
a differenza di quella sugli stili cognitivi, non spiega la predisposizione a cogliere stimoli
locali piuttosto che una visione globale.
• Deficit nei neuroni specchio: Secondo questa teoria le difficoltà sociali degli autistici sono
causate da un deficit del sistema dei neuroni specchio. A sostegno di questa ipotesi vi
sono dati che dimostrano una riduzione di materia grigia nelle regioni in cui sono situati i
neuroni specchio. Questa teoria spiegherebbe la difficoltà degli autistici nell’imitare e nel
comprendere l’obiettivo delle azioni altrui. Tuttavia, la difficoltà nell’imitare sembra
maggiore quando è spontanea piuttosto che quando viene richiesta. Questo sembra
riflettere di più un deficit nel comprendere regole di natura sociale piuttosto che nel
comprendere le interazioni percettivo-motorie delle azioni altrui. Di conseguenza, la
difficoltà nelle interazioni sociali tipica dell’autismo potrebbe causare una disfunzione nel
sistema dei neuroni specchio. Inoltre, questa teoria non spiegherebbe né la propensione
al systemizing, né la predisposizione a cogliere stimoli locali piuttosto che una visione
globale.
Interagire con gli altri
Un’interazione può essere definita come quella serie di azioni interdipendenti, le quali fungono
sia da stimolo che da risposta ai comportamenti delle persone coinvolte nello scambio. Vi sono 2
tipi di interazioni:
• Altruismo: Consiste nella cooperazione con l’altro, condividendo aiuto e conoscenza.
Spesso queste interazioni vengono descritte come dirette totalmente verso l’altro, non
comportando alcun guadagno personale.
• Competitività: Questo tipo di interazione può essere ricondotta alla teoria di Darwin
quando si riferisce alla sopravvivenza del più forte.
Questa distinzione appare enigmatica dal momento che essere altruisti sembra comportare un
costo in termini di tempo ed energie che, in linea con la legge della sopravvivenza, dovrebbe
“portare un vantaggio a me che sono forte e ti aiuto e non a te che sei debole”. Tuttavia,
analizzando la questione da un altro punto di vista, se si prendono in considerazione i benefici a
lungo termine che porta la cooperazione in gruppo, si può notare un aumento considerevole
delle probabilità di sopravvivenza. Ad esempio, basta pensare alla caccia in gruppo che richiede la
condivisione di conoscenze ed abilità.
Negli esseri umani la capacità di cooperare con gli altri si basa sul concetto di fiducia. Questa
capacità sembra essere sorretta da processi di decision-making, comprensione degli stati mentali
altrui e di condivisione di obiettivi comuni. Inoltre, persone che agiscono in contrasto con questa
valutazione e che traggono vantaggio dalla cooperazione ma non contribuiscono personalmente,
sono chiamati freeloaders (scrocconi) e tipicamente vengono esclusi o puniti dal gruppo.
Altruismo biologico
Da una prospettiva evoluzionistica son nate diverse teorie che cercano di spiegare come possa
agire l’altruismo in termini di maggiori probabilità di sopravvivenza della specie. Le principali
teorie sono:
• Selezione parentale: Questa teoria si basa su studi condotti da Hamilton, il quale affermò
che in natura non sopravvive la persona più forte ma il tratto più forte. Perciò, se gli
individui aiutano i loro parenti, c’è una probabilità maggiore che il tratto altruista
sopravviva e che di conseguenza sopravviva anche la propria famiglia. Tuttavia, questo
discorso si applica solo se i benefici ottenuti dall’aiuto sono maggiori