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EFFICACIA DELLA PSICOTERAPIA

Ad avviare il dibattito scientifico sulla questione dell'efficacia della psicoterapia è stato nel 1952 Eysenck, uno dei più conosciuti psicologi del '900, il quale affermava che per poter parlare di efficacia bisogna confrontare i dati delle terapie psicoanalitiche e di quelle eclettiche con la percentuale di remissioni spontanee che si registravano in pazienti che non usufruissero di psicoterapia. In base alle ricerche dell'epoca, Eysenck affermò che, nell'arco di due anni, 2/3 di nevrotici gravi risultano guariti o migliorati senza il beneficio di una psicoterapia sistematica. Secondo altri studi, la psicoterapia, addirittura, può essere responsabile dell'effetto di deterioramento, cioè peggioramento dei sintomi, comparsa di problemi nuovi e di sintomi diversi. Infatti, in uno studio che confrontava un gruppo di controllo con un gruppo trattato, al termine del trattamento entrambi i gruppi stavano meglio.

In media e non esistevano differenze tra i gruppi. Nel 1977 con lo sviluppo della metanalisi che calcola un indice detto dimensione dell'effetto che esprime quanto mediamente il gruppo trattato sia migliorato rispetto al proprio gruppo di controllo, si è dimostrato che la psicoterapia è realmente efficace.

TRATTAMENTI PSICOLOGICI BASATI SULLE EVIDENZE

Per efficacia di un intervento sanitario si intende la sua capacità di modificare il decorso di una malattia o di un problema. Si distinguono 3 diversi livelli nelle valutazioni d'efficacia:

Efficacy (efficacia teorica): ha l'obiettivo di stabilire se esista o meno un certo effetto cioè la capacità di un intervento sanitario o psicosociale di produrre il risultato atteso a livello sperimentale;

Effectiveness (efficacia pratica): la capacità di un intervento sanitario o psicosociale di produrre il risultato atteso nella realtà quotidiana dei servizi;

Efficiency (efficienza): riguarda

corrispondenti possono variare a seconda del contesto e dell'approccio terapeutico utilizzato. La diagnosi può essere utile per comprendere meglio il paziente e il suo disturbo, ma è importante considerarla come un punto di partenza e non come una definizione rigida e definitiva della persona. La terapia familiare, in particolare, si concentra sull'osservazione del sistema familiare nel suo insieme e sulle dinamiche relazionali che lo caratterizzano. Questo approccio mette in discussione il concetto di diagnosi individuale, poiché considera il disturbo come il risultato di interazioni complesse all'interno del sistema familiare. I terapeuti relazionali criticano l'uso della diagnosi perché ritengono che possa essere limitante e riduttivo. Etichettare una persona con una diagnosi può creare un'immagine distorta e statica della sua realtà, impedendo di cogliere la complessità e la fluidità della sua esperienza. Inoltre, l'uso della diagnosi può sottolineare la patologia e concentrarsi solo sui sintomi, trascurando gli aspetti positivi e le risorse del paziente. Questo può influire negativamente sulla relazione terapeutica, creando una dinamica di potere e gerarchia tra terapeuta e paziente. È importante sottolineare che ogni clinico ha il compito di fare una diagnosi, ma è fondamentale farlo in modo consapevole e critico. La diagnosi dovrebbe essere utilizzata come uno strumento flessibile e adattabile, che permetta di comprendere meglio il paziente e di orientare la cura, senza limitare la sua individualità e la sua capacità di cambiamento.identità e diventare uno specchio neutro per il paziente, in modo da favorire una comunicazione aperta e sincera. Inoltre, la diagnosi non dovrebbe essere considerata come una classificazione rigida e definitiva, ma come un processo continuo di valutazione e comprensione del paziente. È importante tenere conto del contesto sociale, culturale e familiare in cui il paziente si trova, in quanto questi fattori possono influenzare il suo stato di salute mentale. Infine, la diagnosi non dovrebbe essere utilizzata come un'etichetta che definisce completamente il paziente, ma come uno strumento per comprendere meglio le sue difficoltà e fornire un trattamento adeguato. È fondamentale adottare un approccio olistico e individuale, che tenga conto delle specificità e delle esigenze uniche di ogni paziente. In conclusione, la diagnosi è un processo complesso e dinamico che richiede sensibilità, competenza e apertura da parte del terapeuta. È importante ricordare che ogni individuo è unico e che la diagnosi dovrebbe essere utilizzata come uno strumento per comprendere e supportare il paziente, anziché limitarlo in categorie rigide e predefinite.

neutralità e la distanza per diventare co-partecipe e responsabile delle risposte che assieme al paziente co-costruisce. Un tentativo di prendere in considerazione l'interrelazione tra osservatore e osservato, coinvolgendo in prima persona il terapeuta, è l'ipotesi della Ugazio la quale afferma che si devono analizzare le interazioni tra sistema osservato e sistema osservatore, il che comporta per l'equipe terapeutica diporsi in una posizione autoriflessiva. Inoltre, la famiglia si collega alla terapia e per fare questo collegamento la Ugazio analizza i comportamenti che la famiglia mette in atto quando richiede la terapia e le aspettative.

White, un clinico australiano, consegna alla fine di ogni seduta un riassunto-reframing condividendo così la diagnosi con la famiglia, organizzata e scritta in modo da sottolineare aspetti positivi e proporre narrazioni che abbiano un potenziale terapeutico. La terapia sistemica favorisce notevolmente la rinuncia a una

posizione gerarchicamente rigida in favore di una maggiore apertura e condivisione. I sistemi puri hanno mostrato un interesse molto vivo per il ruolo del terapeuta nel rapporto, in particolare, Aponte, in un articolo del 1982, considera la persona del terapeuta come l'elemento fondamentale per il buon andamento della terapia.

Secondo Loriedo e Viella, al termine controtransfert si dovrebbe sostituire quello di coinvolgimento inteso come il processo che riguarda l'intero sistema cioè elementi soggettivi ed oggettivi del qui ed ora che non rimandano a eventi passati, il coinvolgimento in questo senso, è una sorta di sintomo del terapeuta. Di questo coinvolgimento parla esplicitamente la Togliatti la quale afferma che nel lavoro di formazione per diventare terapeuti relazionali, non ci si limita a insegnare le varie nozioni ma il futuro terapeuta viene addestrato a un'attenta autoriflessione sulle proprie esperienze personali, deve interrogarsi sui propri sentimenti,

sulla simpatie e antipatie, preferenze e sulla propria adesione o meno alla visione del problema proposta da un membro della famiglia. Anche Whitaker ritiene che le emozioni, il coinvolgimento, le difficoltà del terapeuta costituiscono un elemento fondamentale per il comune processo di crescita; durante la terapia, infatti, l'autore richiede sempre la presenza di una terza persona (coterapeuta) che verbalizzi i propri stati d'animo e le proprie intuizioni. La diagnosi della diagnosi (in terapia familiare) Cap.2 (dispense) Non è facile dare una precisa collocazione al concetto di diagnosi nel campo della terapia familiare, esistono, però, due posizioni importanti: 1. Ackerman afferma che senza un'adeguata diagnosi non può esserci un'adeguata terapia; 2. Virginia Satir al contrario afferma che le categorie non aiutano nel trattamento. Da un lato il proposito di rimuovere la diagnosi in terapia familiare, dall'altro una tendenza.allarivalutazione e al rilancio. L'atto diagnostico e la valutazione ai fini diagnostici non sono solo fondamentali ma addiritturaineliminabili e verrà dimostrato affrontando le due principali argomentazioni contrarie: La prima argomentazione contraria è che il principiante tende a focalizzare l'attenzione sulla diagnosi e sulla valutazione del problema familiare e preferisce raccogliere informazioni prima di intervenire; i terapeuti con più esperienza, invece, si trovano sempre a lavorare con una quantità minima di informazioni e intervengono non appena hanno un'idea di ciò che sta accadendo, non amano rimandare la terapia a causa della diagnosi e della valutazione. Questa dicotomia valutazione/intervento è, però, fittizia perché ciò per il terapeuta è una valutazione, per il paziente può essere un intervento. La seconda argomentazione critica sostiene che la diagnosi è inutile per ilterapeutafamiliare perché essa dà un'etichetta di malattia ed è centrata sull'individuo e non sui sistemi relazionali. Nell'etimo del termine, però, diagnosi deriva da diagnoskein che vuol dire distinguere, non esiste un minimo accenno al fatto che il suo uso debba essere riferito all'identificazione di sintomi da inquadrare in una malattia. A favore di ciò Spencer-Brown afferma che solo attraverso la distinzione saremo in grado di parlare di un universo, senza distinzioni è il Caos dell'indistinto, quindi fare una diagnosi è innanzitutto operare una distinzione allo stesso modo di come si effettua una distinzione tra sistema rigido e sistema flessibile, tra padre periferico e padre centrale. Friedrich von Hayek parla addirittura di discriminazione così come effettuiamo nella vita quotidiana distinguendo aria da terra o da albero, quando diciamo "Questo è un albero" stiamo usando una

Categoria diversa ma unidentico procedimento mentale di quando diciamo <<Questo è un paziente psicotico>>.È infine possibile accertare con diversi metodi sperimentali che non solo gli uomini ma anche lagran parte degli animali classificano gli stimoli con un ordine simile a quello delle nostre esperienzesensoriali come per esempio i polli nel famoso esperimento di Revesz, sono soggetti alle medesimeillusioni ottiche degli uomini.Gregory Bateson afferma in conclusione che <<Non si può dire di non fare diagnosi. Chi lo sostienefa solo cattive diagnosi. L’importante è che giusto o sbagliato, il fare diagnosi sia esplicito. Saràcosì possibile criticarlo in modo altrettanto esplicito>>, si dovrebbe fare perciò una diagnosi delladiagnosi, questo a conferma che la diagnosi è essenziale.Buone prassi relative alla valutazione in prima seduta: un contributo empiricoall’interno di un corso di

Training - Cap.3 (dispense)

Obiettivo di questo studio è riflettere sulla qualità dell'analisi della domanda di terapia nella prima seduta rilevando quale sia il protocollo possibile.

La differenza tra Consulenza e Terapia, in molti casi è liminale poiché se è vero che spesso la psicoterapia inizia con una fase di consultazione, è anche vero che, altrettanto spesso, alcune consulenze psicologiche si affacciano su uno scenario con obiettivi e setting prettamente psicoterapeutici. A questo proposito, vi sono diverse prospettive di riflessione: Per Carli, ad esempio, la consultazione è parte integrante della terapia a patto che si possano elicitare nel richiedente nuove prospettive sul problema, ossia solo nel caso in cui la domanda di cambiamento incontra nel consulente la possibilità di pensare a quel cambiamento (modello dell'analisi della domanda). Minuchin, invece, ritiene che ogni fase del processo terapeutico condiziona e

Sia necessaria per le successive fasi. A questo proposito l'attenzione viene posta sulla cosiddetta fase di joining, ossia la fase dei primi contatti con la famiglia.

Dettagli
Publisher
A.A. 2011-2012
14 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/08 Psicologia clinica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher roxx86 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia clinica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bari o del prof Curci Antonietta.