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MA

o gli schemi esplicativi triadici sono estranei non solo all’ermeneutica di tutti i modelli

psicoterapeutici, eccetto a quello sistemico, ma anche al senso comune

 in altre parole, sono stati fatti degli studi che hanno dimostrato che i bambini, già

dall’età di tre mesi, sono in grado di interagire con più di una figura di riferimento

creando una triade; sebbene questa propensione sia innata, i modelli terapeutici

che non siano quello sistemico non la utilizzano e il senso comune non la prevede,

dunque quando una persona deve darsi una ragione tende, per motivi di economia

del sistema e per la tendenza a confermare le ipotesi, a utilizzare tutto sono tranne

che triadici

Sembra infatti che gli individui significhino i rapporti interpersonali in cui sono coinvolti

usando modelli interpretativi di carattere diadico o monodico. “Viviamo in triadi, ma

elaboriamo la nostra esperienza in diadi o monadi”. Le diadi e le monadi sono quelle che

vengono utilizzate in terapia per dare restituzione al paziente: il terapeuta accoglie

spiegazioni sotto forma monadica o diadica e le restituisce sotto forma triadica. Attraverso

il ricorso a campi di inferenza triadici, il terapeuta aiuta il paziente a raccontare una storia

o radicalmente diversa da quella da lui narrata

o consonante con quella da lui vissuta

 la nuova storia deve essere vista come plausibile dal punto di vista emotivo,

dunque il paziente si deve riconoscere nella restituzione, ma in una modalità

nuova che prima gli era estranea sulla base di cui prima non riusciva a vedersi

I vantaggi che questa ermeneutica assicura sono i seguenti

o la relativa accessibilità del dominio triadico dell’esperienza consente al paziente di

assumere un ruolo attivo nella costruzione di una nuova storia il paziente non è

totalmente estraneo dal punto di vista triadico, ma non riesce a raccontarsi/vedersi

in questi termini perché non ne ha consapevolezza benché viva storie traidiche

o la possibilità di creare una nuova storia in linea con l’esperienza emotiva del

paziente il paziente deve essersi sentito capito, altrimenti rifiuta la restituzione

che gli viene posta dal terapeuta

2. il modo in cui vengono interpretati i repertori relazionali agiti nella relazione terapeutica.

Relazione terapeutica: un problema di repertori relazionali. La terapia della famiglia ha

indotto i terapeuti sistemico-familiari a mettere tra parentesi il tema della relazione

terapeuta-paziente. Due obiettivi a cui i terapeuti familiari degli anni ‘60 e ‘70 miravano

o non farsi coinvolgere dalla famiglia e neutralizzare le interazioni con essa i

tentativi della famiglia di interagire con i terapeuti erano letti attraverso la

metafora del potere

o calibrare e distribuire le alleanze con i vari membri della famiglia in modo così

equilibrato da far sì che si annullassero a vicenda. La mancata neutralità del

terapeuta, infatti, era concepita come causa di drop out la conversazione

terapeutica deve equiparato a un gioco a somma zero, dunque il terapeuta deve

essere neutrale, dando la parola a tutti i presenti in seduta in modo equilibrato;

oggi invece se il terapeuta ha la necessità di approfondire un argomento con un

membro preciso presente in terapia è libero di farlo senza per questo pensare di

non essere neutrale

Tuttavia, secondo Ugazio, proprio le terapie familiare, negli ultimi 20 anni, hanno offerto

spunti innovativi per comprendere la relazione diadica paziente-terapeuta e per usarla

nel corso del processo terapeutico. In particolare hanno messo in evidenza che

o le strategie relazionali che il paziente esprime nel rapporto con il terapeuta sono

complementari rispetto a quelle da lui agite nei confronti delle persone per lui più

importanti il terapeuta non è qualcosa di diverso da come il paziente si relaziona

con le altre persone, dunque si verifica complementarietà

o la relazione paziente-terapeuta acquista significato nel contesto delle relazioni

famigliari di cui la terapia fa parte la terapia entra nei sistemi di relazione anche

quando si lavora con il singolo

o tutte le persone possiedono una gamma di strategie relazionali, molti possibili sé

riconducibili alla nascita in una particolare famiglia tutti noi abbiamo la

possibilità di esprimerci in modo variegato e molteplice, non siamo sempre gli stessi

in tutti i contesti in cui ci troviamo 

3. la decostruzione dei vincoli come meta terapeutica le persone spesso sviluppano una

psicopatologia quando sono impossibilitati a percorrere una via (è necessario in questo

caso ampliare le possibilità di scelta) o si trovano a essersi messi dei vincoli nell’interazione

con le persone significative, frutto di dinamiche relazionali. È fondamentale decostruire i

vincoli come obiettivo terapeutico. Secondo i terapeuti sistemici la terapia

o non si basa su un modello predefinito di normalità

o non deve promuovere, orientare e ricostruire un processo maturativo o indicare al

paziente soluzioni

o deve servire a rimuovere i vincoli che impediscono alle risorse degli individui e dei

gruppi di emergere e trasformare tali vincoli in possibilità

o deve promuovere le risorse di ciascun sistema e ampliare le alternative in cui

ciascun sistema dispone

Le terapie devono essere il più possibili brevi per non diventare iatrogene. Ultimo, ma non meno

significativo tratto distintivo delle terapie sistemiche è il fatto esse siano prese in carico da un

equipe: “il dialogo continuo con altri colleghi ci dà l’opportunità di disporre di un contesto, questo

sì, simmetrico, dove alternative, proposte, soluzioni emergono dall’incontro fra competenze

diverse, ma anche fra biografie, generazione e generi differenti”.

PSICOLOGIA CLINICA E MEDICINA (G. Trombini)

La collaborazione tra psicologia e medicina, un tempo difficoltosa, oggi è invece più realizzabile

principalmente per una serie di motivi

- la maturità raggiunta dalla psicologia

- il riconoscimento dei limiti del modello assistenziale biomedico, che si focalizza quasi

esclusivamente sui criteri di malattia propri della sfera somatica

- lo spostamento del baricentro della cura medica dal concetto radicale di “guarigione” a

quello di “cura”

All’interno del mondo medico in particolare si è

- compresa l’importanza del concetto di qualità della vita, inteso non più solo come lotta

contro la morte, ma anche come lotta contro la mortificazione psichica connessa alla

condizione di malattia è importante che se ne rendano conto i medici, poiché affinchè il

paziente si veda bene e si senta bene con se stesso è necessario che esca non guarisca solo

dalla patologia a livello medico ma che abbia anche un aiuto psicologico (es. oncologia)

- iniziato a capire che il globale benessere della persona dipende dall’equilibrio tra la

rappresentazione di sé come corpo e quella di sé come mente

- avvertita la necessità di ridare “voce” al paziente, dopo che si era scelto di renderlo “muto”

- capito che non possono più essere trascurate le emozioni espresse dal malato all’interno

della relazione medico-paziente spesso i medici hanno bisogno di un aiuto psicologico

per leggere, interpretare, gestire e dare una risposta corrente e coerente alle emozioni del

pazienti; il medico non è tenuto ad avere competenze psicologiche e per questo è utile che

lavori con lo psicologo

Sarebbe importante che i medici imparassero a comprendere e a gestire meglio le relazioni che

instaurano con i propri pazienti al fine di

- valutare la compliance degli assistiti

- gestire la psicologia dei vari malati 

- modulare il proprio assetto emotivo la qualità del sentimento del curante, infatti,

influenza

o il senso di sicurezza/insicurezza percepito dal paziente

o il rapporto con l’assistito e il suo livello di compliance

 se il medico ha difficoltà a comunicare, ad esempio, una diagnosi nefasta al paziente

deve farsi aiutare affinchè il suo assetto emotivo non influenzi quello del paziente

In linea con ciò, nella nuova riforma didattica dei corsi di laurea in Medicina viene proposto un

approccio olistico, capace di valorizzare anche gli aspetti comunicativo-relazionali della

professione medica. Esso deve tuttavia essere ancora relativamente concretizzato sia a livello

formativo che operativo in molti contesti di cura.

Nello specifico, per realizzare un approccio integrato medico-psicologico sarebbe indispensabile

che i professionisti facessero una serie di cose, tra cui

- superare la prospettiva riduzionistica che origina i dualismi mente vs. corpo e fattori

biologici vs. fattori psicologici e socio-ambientali passare da una presa d’atto teorica

secondo cui il paziente deve essere gestito in modo complessivo a una prassi operativa

dotata di consapevolezza 

- sviluppare uno spirito di apertura e di rinuncia all’autocrazia della propria disciplina i

professionisti devono capire che il confronto con altri professionisti di altre discipline

non mina il proprio campo ma, al contrario, arricchisce per il bene del paziente

In aggiunta a ciò i medici dovrebbero privilegiare l’atteggiamento integralista rispetto a quello

settorialista. La specializzazione settoriale infatti spesso fa perdere di vista la globalità del malat.

Gli psicologi dovrebbero istituire servizi di psicologia clinica collegati a strutture sanitarie che,

oltre a svolgere compiti di valutazione, orientamento e sostegno psicologico, aiutino il medico a

- comprendere i bisogni e le paure del paziente

- acquisire modalità relazionali atte allo sviluppo di rapporti più efficaci con gli assistiti

Ovviamente l’obiettivo non è quello di trasformare il medico in uno psicologo, ma quello di

sviluppare le capacità del medico di cogliere i bisogni psicologici del malato e, di conseguenza,

quando necessario, programmare un intervento integrato che coinvolga se stesso e lo psicologo

clinico.

LA PSICOLOGIA CLINICA NELLA FORMAZIONE DEL MEDICO E DEGLI OPERATORI

DELL’ARIA SANITARIA (N. Rossi)

La necessità che gli operatori dell’area sanitaria padroneggino competenze psicologiche deriva

sostanzialmente da

1. una serie di cambiamenti culturali e sociali che hanno modificato il rapporto medico-

paziente, c’è molta più presenza di pazienti che vogliono essere parti attiva del processo di

malattia. In passato la relazione medico paziente era per certi versi assimilabile a quella

genitore-figlio, nel senso che

o il medico era visto come l’esperto dotato di potere e capacità necessari e sufficienti

a valutare ciò che era giusto e utile per l’as

Dettagli
Publisher
A.A. 2016-2017
65 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/08 Psicologia clinica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher valeria_1995 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia clinica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bergamo o del prof Di Pasquale Roberta.