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VERSO LA TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI: METODI, STRUMENTI E PRATICHE
Regolazione, mitigazione e trasformazione dei conflitti
I greci distinguevano tra stasis, cioè violenza soggetta a regole e polemos, ossia violenza senza limiti. Tutta la storia delle
diverse civilizzazioni può essere letta come un tentativo di eliminazione della violenza o di trasformazione da polemos a
stasis.
Già dal trattato di Versailles, numerosi sono stati i tentativi di regolazione dei conflitti, in un contesto normativo
adeguato, con un processo di progressiva delegittimazione della guerra, in particolare quella di aggressione. Con la
nascita delle Nazioni Unite si è aperta una nuova fase del diritto internazionale in cui il ricorso alla forza armata è stato
ammesso solo per legittima difesa, con una serie di misure al fine di monitorare, contenere e risolvere la conflittualità.
In particolare le Nazioni Unite hanno varato il peacekeeping come specifico intervento militare di tipo dissociativo
mirante a contribuire al processo di trasformazione costruttiva di un conflitto. Questo si è evoluto rappresentando il
modello a cui si sono ispirate le diverse peace support operations messe in atto dalle organizzazioni regionali.
Per quanto riguarda i modelli internazionali ritenuti più idonei a prevenire, controllare o risolvere conflitti, possiamo
individuare due approcci:
1. Una concezione della pace e della sicurezza legalistica che postula la necessità che principi universali e
procedure imparziali vengano applicate autonomamente come se esistesse un governo mondiale. Questa
concezione è basata sull’idea di centralità delle Nazioni Unite, come unica organizzazione per il mantenimento
della pace e della sicurezza.
2. Una concezione più debole e diplomatica, che riconosce la difficoltà di uscire da un sistema anarchico di stati-
nazione sovrani e mira a migliorare i meccanismi di sicurezza internazionali tradizionali, affidandosi a
negoziazione, cooperazione e trattati.
Con l’intensificarsi degli approcci sociologici, l’ottica si è spostata dalle istituzioni per essere più centrata sugli attori e
sulla qualità delle stesse relazioni conflittuali. Non si tratta solo di sedare o risolvere la violenza, occorre una precisa
attenzione alle modalità con cui si attua l’uscita dalla spirale conflittuale. Serve un adeguato processo di trasformazione
delle relazioni, delle attitudini, in direzione di intenti di pace sostenibile e durevole.
Ci sono inoltre forme di conflittualità molto complesse e strettamente interconnesse con i meccanismi più profondi di
una società, come ad esempio le nuove guerre, o guerre postmoderne, che sono diventate perenni, deformando il
tessuto sociale. In questi contesti è necessario intervenire con una pluralità di misure che investano tutta la collettività a
più livelli.
Occorre invertire la logica di interazioni conflittuali consolidate in sistemi glocali dotati di capacità di auto-alimentazione,
di sopravvivenza e grande resistenza al cambiamento. Infatti in queste configurazioni, pressocchè tutte le parti in lotta
trovano conveniente rimanere all’interno di dinamiche conflittuali, dato che la frammentazione del potere statale
consente la creazione di porzioni di territorio in cui i vari gruppi armati possono esercitare in autonomia la propria
autorità. Si radicano così forme specifiche di economia di incredibile dinamicità.
Esistono però altri casi in cui, seppure il conflitto permane, gli attori possono scegliere di congelarlo e se è stabile si può
parlare di incapsulamento del conflitto e l’istituzionalizzazione può essere considerata una forma di incapsulamento.
Un conflitto può dirsi istituzionalizzato quando può esprimersi all’interno di un’arena politica regolata da norme, ovvero
quando gli attori hanno interiorizzato la necessità di gestire il conflitto attraverso regole condivise, sottratte all’influenza
diretta delle parti. Così il conflitto risulta depersonalizzato perché attribuito a tipologie di attori, non a singoli gruppi o
persone. Altro esempio è l’istituzionalizzazione del conflitto di classe che incanala gli interessi contrapposti di lavoratori
e datori di lavoro in interazioni stabili e presenta un pacchetto di mosse prevedibili.
Anche le misure di intervento sono mutate. La conflict transformation è un processo che agisce trasformando le
relazioni, gli interessi, i discorsi e se necessario, l’essenza stessa della società. Essa pone l’accento sull’idea di
trasformazione costruttiva dedicando grande attenzione alla dinamica processuale del conflitto e alla necessità di
coinvolgere tutte le componenti della società, incentrandosi preliminarmente sul mutamento degli atteggiamenti di
fondo e degli stili comunicativi.
Diane Francis ha rappresentato le precondizioni per un processo di conflict transformation con l’immagine di un iceberg
in cui la soluzione del problema non è che il vertice di una configurazione più complessa e celata. La precondizione
essenziale è il mutuo riconoscimento e il rispetto tra le parti.
Lederach ha messo in evidenza la necessità che la conflict transformation investa i due processi bottom up e top down
instaurando un processo circolare, condiviso da leadership e popolazione. Anche Miall ha sottolineato l’importanza del
coinvolgimento di diversi attori all’interno di un processo di trasformazione di un conflitto, dividendoli in 4 gruppi:
1. Stati e organizzazioni intergovernative
2. Organizzazioni umanitarie e dello sviluppo
3. ONG internazionali
4. Partecipanti al conflitto e altri gruppi rilevanti
Il nuovo orientamento ha stimolato il fiorire di strategie, metodologie e misure, come:
- Tipologie di misure che prevedono esclusivamente l’azione delle parti in causa, cioè la negoziazione, in
particolare nella versione dello Harvard Negotiation Project, e diversi metodi di lotta nonviolenta
- Tipologie di misure basate sull’intervento di una parte esterna al conflitto come la mediazione e la diplomazia
informale multilivello.
Nel complesso queste si basano sull’assunto di separare le due principali componenti del conflitto e sull’impegno a
considerarle dal punto di vista delle parti. Fiducia e cooperazione, rispetto reciproco e correttezza sono gli strumenti da
utilizzare.
La negoziazione e la scuola di Harvard
Tra gli strumenti di trasformazione dei conflitti, ruolo rilevante è rivestito dal negoziato. È possibile distinguere due
approcci alla negoziazione: la strategia distributiva e quella integrativa. Nel primo caso l’attività di negoziazione è simile
a un gioco competitivo, in cui le controparti si concentrano sulla distribuzione di costi e benefici, attraverso un gioco di
difesa e attacco, cercando di convergere verso un compromesso. In questo caso ciascuna delle parti si approccia alla
trattativa negoziale come se dovesse vincere o perdere, con lo scopo di massimizzare il proprio utile. Il rischio è
l’escalation della competizione fino alla rottura dei rapporti e, producendo esiti che lasciano frustrata una delle due
parti, conservano una conflittualità latente.
La strategia integrativa è di mutuo beneficio e si distingue per l’attenzione reciproca alla salvaguardia della relazione e
alla controparte che si cerca di tutelare sviluppando un elevato grado di complessità nella trattativa e ampliando le
possibilità di accordo. I contendenti si rendono conto che è possibile trovare punti di convergenza che soddisfino
entrambi. L’idea principale è che le controparti possano collaborare, per cui alla fine ci saranno due vincitori. La
metodologia si basa su comunicazione e trasparenza. Gli atteggiamenti motivazionali e relazionali delle parti
rappresentano il vero differenziale e l’approccio win-win è soprattutto una mentalità. Conseguentemente il processo
negoziale viene accompagnato da un cambiamento nella percezione reciproca, sviluppando mutua fiducia.
Il Program on Negotiation di Harvard è un consorzio di studiosi e progetti la cui mission è il miglioramento della teoria e
della prassi della risoluzione dei conflitti. Nella negoziazione di principi il conflitto non è più visto come uno scontro, ma
come un problema comune alle parti, analizzato in tutta la sua ampiezza, tentandone una diagnosi in grado di farne
emergere anche aspetti meno appariscenti. L’enfasi, inoltre, viene spostata dal presente concreto al futuro.
Secondo Fisher Ury e Patton che hanno sviluppato il metodo di negoziazione integrativa una buona strategia di
negoziazione consiste nel decidere le soluzione in base al loro merito e mirando alla soddisfazione reciproca. Si cerca di
utilizzare afre emergere criteri oggettivi di equità, il più possibile dipendenti dalla volontà delle parti. L’approccio è
incentrato su uno specifico habitus mentale. Quattro premesse fondano questo approccio:
1. Scindere nettamente le persone da i problemi
2. Concentrarsi sugli interessi reciproci e compatibili delle parti
3. Sviluppare diverse opzioni percorribili e di reciproca utilità prima di giungere a un accordo definitivo
4. Costruire l’accordo e valutarne il risultato sulla base di criteri oggettivi e condivisi di equità
È evidente che occorre la volontà concreta di risolvere la controversia in modo pacifico ed è essenziale che le parti
inventino soluzioni creative, valorizzando e conciliando, mediante la reciproca persuasione gli interessi reciproci.
La volontà può avvalersi di supporti tecnici, prima di tutti la BATNA (Best alternative to negotiation agreement) che
rappresenta la misura sulla base della quale si valuta ogni ipotesi di accordo che potrebbe derivare dalla trattativa e che
permette alle parti di proteggersi da accordi sfavorevoli, me nello stesso tempo di valutare correttamente e
realisticamente le opportunità che scaturiscono dalla trattativa che possono essere più convenienti delle reali
alternative. Gli autori la definiscono un’unità di misura. Avere o sviluppare una buona BATNA vuol dire aumentare la
propria forza negoziale che dipende principalmente da quanto possa essere attraente per ciascuna delle parti la
prospettiva di non mettersi d’accordo.
Altrettanto importante è stabilire il cosiddetto punto di sicurezza che costituisce il risultato minimo che ciascuna delle
parti è disposta ad accettare, oltre il quale perde interesse per la trattativa. La distanza tra obiettivo ottimale di ogni
parte e suo punto di sicurezza ha un ruolo essenziale perché crea un’area definita ZOPA ovvero zona del possibile
accordo.
I due criteri rendono evidente che il cambiamento di mentalità deve comprendere una più matura e ragionata
consapevolezza dei propri bisogni e interessi.
Quindi è