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L’ANTROPOLOGIA UNITARIA:
Il concetto di sinolo
L’anima come forma
Ogni anima ha il suo corpo
“dire (...) che l’anima s’adiri è come dire che l’anima tesse o edifica. Meglio sarebbe forse dire non
che l’anima prova compassione, apprende, pensa, ma che è l’uomo mediante l’anima “
Per capire la strategicità di questo passaggio, dobbiamo rifarci all’antropologia, cioè al concetto di uomo
che avevano Socrate e Platone. Era un’antropologia dualistica in base alla quale l’essere umano coincideva
con la sua anima e quindi il corpo risultava radicalmente estraneo all’identità. Tutti comprendiamo che una
simile concezione ha delle conseguenze incalcolabili. Proviamo a pensare a come noi praticheremo la
nostra vita se ritenessimo che il nostro corpo non ci appartenga. Lo tratteremo come un oggetto: come
trattiamo la sedia, il tavolo…ecc. Siamo una civiltà nella quale, il corpo è trattato come un oggetto. Può
apparire, in ultima analisi, anche una sorta di surrogato, o di risposta al grande problema che è la morte e,
più in generale, il declino. Noi che siamo giovani evidentemente non ci pensiamo ancora, ma con l’andare
avanti del tempo, ci si rende conto che gli anni passano e che fisicamente si sta declinando. A questo punto
il problema di come rapportarsi al nostro corpo esce immediatamente. Può sembrare che la soluzione
migliore sia trattare il nostro corpo come un oggetto, prendere le distanze dal nostro corpo. Se non che oggi
facciamo i conti con le conseguenze negative di questa mentalità. Ci rendiamo conto che trattare il nostro
corpo come un oggetto non corrisponde a quello che siamo.
Esempio drammatico: pensiamo alle patologie legate all’alimentazione, come l’anoressia: sono problemi
che esprimono quello che sono attraverso l’alimentazione. Qual’è il problema? Il problema è il corpo.
Un altro esempio è il doping, la pratica che tratta il corpo come un oggetto. Ed è chiaro che se io faccio
assumere al mio corpo alcune sostanze, questo medesimo corpo potrà dare corso ad una performance
migliore. Lo sto trattando come una macchina. Il problema è però che quello che io sono non è estraneo a
come tratto il mio corpo. Se io faccio assumere al mio corpo sostanze che non mi fanno sentire la fatica, non
è che questo è privo di conseguenze per la mia persona. Non è l’anima che prova fatica, ma è l’essere
umano, attraverso l’anima. Siamo portati a riconoscere di essere UNITÀ; ed è molto importante che noi
come professionisti della corporeità abbiamo chiaro in testa che il corpo non è un oggetto. Il corpo è la
manifestazione visibile di quello che siamo. È chiaro che dal punto di vista visibile noi siamo soggetti ad un
declino, questo non significa però che noi stiamo declinando, perché c’è anche una componente invisibile di
quello che noi siamo. Aristotele dice con chiarezza tutto questo: la parola SINOLO allude alla fusione
dell’essere umano di anima e corpo, unità. In questo senso Aristotele supera la visione platonica. Per
Aristotele non è vero che il corpo è carcere dell’anima, non è vero che il corpo è la tomba dell’anima; ma è
vero che l’anima è tomba del corpo. La causa formale è quella causa, quel fattore che conferisce l’identità
specifica.
Noi, fisicamente, siamo tali e quali a tutti gli altri animali, ma con i nostri comportamenti esprimiamo
un’eccedenza, quella capacità di non farci determinare dal bisogno, e quindi esprimiamo la nostra libertà.
Esprimiamo la presenza in noi di una dimensione che va oltre la materialità. E questa è l’ANIMA. L’anima
come forma del corpo, l’anima come la componente della persona che esprime l’essere umano, l’eccedenza
rispetto alla pura e semplice natura umana.
Aristotele afferma che l’anima non è indifferente al corpo, cioè che non ogni corpo corrisponde ad
un’anima ma che ogni anima ha un suo corpo specifico. Aristotele dice: “mai nulla di ciò che è contenuto è
indifferente al suo contenitore” e quindi anche l’anima, in quanto contenuta nel corpo, non è indifferente a
ciò che la contiene. È importante che lui, nel dire questo, intenda che il contenitore (come lo chiama lui)
non è semplicemente un contenitore passivo ma è ciò che corrisponde al contenuto. Questa sua concezione
antropologica è molto moderna. Comprendiamo allora la frase scritta dopo “è come dire che l’anima tesse
o edifica..” sarebbe a dire che l’essere umano, mediante l’anima, compie quello che compie. Quindi occorre
ricondurre tutto all’unità dell’essere umano. Nel mondo antico l’aristotelismo viene risucchiato nel
platonismo. Questa concezione unitaria viene completamente dimenticata e tornerà a manifestarsi soltanto
con il cristianesimo.
IL RICONOSCIMENTO DELLA VERITÀ PRATICA
avvaloramento del desiderio: ” il proponimento può dirsi o intelletto che desidera o desiderio che
ragiona, e siffatto principio è l’uomo.” (Etica nicomachea)
Azione e intenzione
L’idea di virtù
La civiltà antica è intellettualistica. L’intellettualismo etico: convinzione, in base alla quale, per fare del
bene bisogna conoscere cognitivamente il bene. Tutto questo ha comportato una grande svalutazione
dell’elemento fisico, sensoriale e percettivo. Aristotele supera questo concetto. Quando dice “intelletto che
desidera” il nostro DESIDERIO ha sempre una componente di tipo sensoriale. Quando noi desideriamo
qualcosa riconosciamo che non si tratta di una dinamica puramente intellettuale e ci rendiamo conto di
questo per il fatto che ogni desiderio ci procura delle sensazioni. Quando noi desideriamo qualcosa
proviamo delle sensazioni, delle emozioni, dei sentimenti. Quindi dire che l’essere umano è intelletto che
desidera significa unire dimensione intellettuale e dimensione affettiva. Anche questa è una concezione
assolutamente moderna che porta a guardare la realtà umana, come realtà in cui s’incrociano la
dimensione delle intelligenze e quella dei sensi. Ci dà un riscontro completo di quello che vuol dire educare.
Educare significa: aiutare l’intelligenza a saper apprezzare la dimensione sensoriale e aiutare il desiderio a
saper fare i conti con il medesimo. Tutto questo è molto occidentale perché una caratteristica di tale civiltà
è quella di avere sempre valorizzato il desiderio. La prospettiva orientale, invece, tende a rimuovere
quest’ultimo (desiderio come vettore della sofferenza). Se io desidero soffro o perché non ho quello che
desidero o perché temo di perdere ciò che possiedo. Da qui la prospettiva di rimuovere il desiderio per
assicurare la felicità. Aristotele si rende conto che l’azione umana è molto complessa, è legata
all’intenzione e questa risente anche di una componente emozionale. Il mondo greco non arriva mai ad
esprimere fino in fondo il concetto di volontà come lo concepiamo noi oggi. Questo ha fondamentalmente
due matrici: quella romana e quella cristiana. Con Aristotele si arriva a toccare il punto più avanzato in
quanto si riconosce che l’intenzione ha a che fare anche con la sensorialità. Su questo Aristotele elabora
delle virtù.
L’EDUCAZIONE DELLA VIRTÙ
La virtù come “medierà”
Educazione come pratica
Gradualità ed esercizio
Noi di virtù non parliamo mai. In molti ci hanno detto che occorre avere dei VALORI. Stiamo sprofondando
in un richiamo retorico ormai insignificante. A furia di parlare di valori, questi non valgono più a nulla. Il
problema è che mancano le virtù. Tutti noi abbiamo le idee chiare sui valori. I problemi sorgono al lato
pratico. Aristotele si rende conto che non è possibile trattare la morale in termini puramente intellettuali.
Non si tratta di interrogarsi sui valori, su ciò che è bene e male in teoria, ma sul comportamento buono e sul
comportamento cattivo. La bontà del comportamento sta nella sua medietà. Ne è un esempio il coraggio.
Quest’ultimo, dice Aristotele, è una virtù, e sta a metà tra la temerarietà e la vigliaccheria. La temerarietà è
il suo eccesso, la vigliaccheria il difetto. Questi estremi sono VIZI. Sono vizi perché non corrispondono a
ciò che è tipico dell’essere umano, cioè la sua libertà. La persona temeraria non è libera in quanto non
s’interroga sul pericolo, ma si butta a capofitto nella situazione e, così facendo, si espone a rischi ulteriori.
Non è razionale. Anche la persona vigliacca non corrisponde al profilo, perché s’impedisce l’azione.
Esattamente come la persona che si butta a capofitto incoscientemente, la persona vigliacca si astiene dal
fare, perché ha paura. E si lascia sottomettere da questa. La persona coraggiosa ha paura, ma a differenza
di quella vigliacca, non si lascia assoggettare. Essa agisce, ma a differenza della persona incosciente,
agisce a ragion veduta, cioè responsabilmente.
Questa dottrina aristotelica è molto importante per noi oggi per questi fattori:
Noi siamo caduti in un equivoco; laddove non pratichiamo la virtù, ci ritroviamo a praticare il vizio
(non esiste una specie di zona franca). Non c’è alternativa tra le due. Se noi cerchiamo di praticare
la virtù rischiamo di consegnarci al vizio senza nemmeno accorgercene.
La virtù è tale perché esprime la razionalità. Il comportamento virtuoso non ha la caratteristica di
essere un comportamento passivo ma, al contrario, il comportamento virtuoso ha le caratteristiche
di essere un comportamento intenzionato.
C’è un altro elemento che è importante dentro la dottrina della virtù, espresso attraverso una
domanda: c’è un solo modo di essere coraggiosi? Aristotele risponde di no. Questo è molto
importante perché noi siamo sensibili alla nostra singolarità. Esempio eloquente di Aristotele è
l’alimentazione. Il comportamento virtuoso consiste nel non abbuffarsi di cibo (eccesso) e nel non
sottoalimentarsi (difetto). Ma questo vuol dire che tutti devono mangiare la stessa quantità? No!
Perché Aristotele dice: un conto è il lottatore e un conto è il mercante. È chiaro che per entrambi la
virtù consiste in una medietà razionale, ma come concretamente