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2)-L’ASSISTENZA ALLA PRIMAINFANZIA IN ITALIA DALLE ORIGINI
ALL’ISTITUZIONE DELL’ONMI
In Italia i presupposti storici più remoti dell’assistenza alla prima infanzia si incontrano intorno
alla metà del 19° secolo. In questa fase le prime istituzioni assistenziali hanno una formazione
religiosa quanto di carattere laico. Le fonti attestano intorno agli anni 30 la prima comparsa nel
nostro paese del termine “asilo” con riferimento alla fascia d’età 3-6 anni: nel 1828 è l’abate
Ferrante Aporti a aprire a Cremona il primo asilo nido di carità per l’infanzia, con l’intento di
alleviare le difficili condizioni di vita dei figli del popolo e provvedere alla loro educazione
morale e sociale.
In coincidenza con il primo stentato decollo industriale delle regioni settentrionali si ha notizia
dell’apertura di vari “presepi” organizzati da alcuni proprietari-filantropi illuminati, il primi si
cominciarono a scorgere a Torino e Pavia. L’origine del termine “presepio” per certi versi viene
avvicinato agli asili aziendali che si svilupparono nel secolo successivo con il diritto riferimento
al racconto di Gesù, l’espressione infatti corrisponde al termine francese CRECHéS
( mangiatoia).
In generale i presepi ottocenteschi sorgono per iniziativa privata e filantropica, essendo
finanziati esclusivamente attraverso donazioni. L’unica finalità di questo tipo di servizio
assistenziale è quella di creare un luogo all’interno dello stabilimento che faciliti l’allattamento
e l’allevamento dei figli alle madri “oneste” e povere impegnate in lavori extradomestici.
All’interno dei presepi venivano divisi in due sezioni che ospitavano i lattanti e i bambini
divezzi. L’orario di accoglienza dei bambini coincide con quelle del lavoro giornaliero delle
madri, si portavano la mattina e si recuperavano la sera. Il costo del servizio è piuttosto
contenuto anche se per molte era alto. Le ragioni economiche rappresenta la prima causa di
irregolarità nella richiesta all’assistenza da parte delle madri. Nonostante questo limite i
presepi svolgono una funzione sociale di sostegno alle famiglie più povere e incidono in
maniera sensibile sulla diminuzione dei tassi di mortalità infantile e di rifiuto della maternità nei
contesti locali dove le madri possono servirsi.
Possiamo ritenere che questo tipo di servizio abbia anche il merito di incidere sulla tutela della
salute delle madri e dei bambini, svolgevano una fase storica della prevenzione delle malattie,
cure igieniche, questioni che interessarono anche le autorità governative, locali e nazionali. Le
prime politiche pubbliche in relazione all’assistenza e all’educazione della prima infanzia
saranno realizzate soltanto diversi decenni più tardi. La prima e più avanzata esperienza
assistenziale all’infanzia abbandonata rimane quella milanese che vide la luce nel 1850 per
iniziativa di alcune famiglie e di studiosi.
A partire dagli anni 50 i presepi raggiungono una relativa diffusione in particolare nell’italia
settentrionale. Tra gli anni 50 e 70 è attestata la presenza di presepi a Venezia,
Torino,Firenze,Roma,Como,Genova,Cremona e Bergamo.
Nel 1885 sono censiti 21 presepi in Italia, 25 nel 1898 e 39 nel 1907.
Nel 1910 fu approvata dal parlamento la “cassa nazionale per la maternità e l’infanzia” questo
però era spinto più dalla preoccupazione di salvaguardare la pace sociale e della produttività
nazionale invece di dare voce ai diritti fondamentali della propria popolazione.
3) L’assistenza alla prima infanzia dalla creazione dell’ONMI agli anni
’70
L’evoluzione dei servizi assistenziali per la prima infanzia è assai lenta perché segue di pari
passo il ritmo delle trasformazioni sociali che mutano le forme di vita e dagli anni ‘50del 19°
secolo fino ai primi due decenni del 900 le condizioni economiche, le occupazioni, la struttura
dei rapporti familiari cambiano molto poco per la maggior parte della popolazione italiana. La
povertà e la precarietà restano le coordinate primarie attraverso le quali individui e nuclei
familiari calibrano le proprie esistenze; il panorama è quello di una società ancora
prevalentemente rurale, dove il passaggio a una realtà di tipo industriale stenta a realizzarsi se
non in forme locali o tutt’al più regionali; a livello familiare, regge ancora il modello della
famiglia tradizionale, rigidamente patriarcale che struttura i ruoli dei coniugi sulla base
dell’appartenenza di genere, rendendo di fatto arduo, ma non impossibile, il lavoro
extradomestico per la maggior parte delle donne.
Nel 1925 la creazione dell’ONMI, “opera nazionale per la protezione della maternità e
dell’infanzia”, si inserisce ne quadro ampio di interventi legislativi e istituzionali volti ad
affrontare la piaga della mortalità infantile, fino ad allora delegata alle “congregazioni di
carità”. L’Opera nasce pertanto con la missione di contrastare tale fenomeno provvedendo
all’assistenza delle gestanti e delle madri bisognose e abbandonate, fornendo assistenza ai
bambini tra gli zero e i sei anni provenienti da famiglie povere, provvedendo a quelli
fisicamente o psichicamente “anormali” e a quelli moralmente “traviati”.
L’intervento istituzionale è chiaramente rivolto alla concretizzazione dell’obiettivo primario del
regime fascista sul piano sociale: bloccare qualsiasi germe di rinnovamento presente nel
tessuto sociale italiano e architettare uan società rigidamente ingessata attorno al pilastro della
difesa della famiglia tradizionale.
L’ONMI nasce originariamente con compiti di assistenza e custodia dei minori abbandonati e
viene pensato come un istituto di beneficenza pubblica statale. La cornice ideologica e politica
che da senso a tale intervento è quella della cosiddetta “battaglia demografica”: il regime
persegue il proprio disegno politico di incremento delle nascite e dell’abbattimento della
mortalità infantile in questa ottica interviene a tutela della maternità, affiancando alla famiglia
un’istituzione pubblica che la supporta e nei casi di necessità sostituisce.
Gli asili nido ONMI le cosiddette “case della madre e del fanciullo” mantengono dunque una
caratteristica spiccatamente assistenziale e igienico-sanitaria; la dimensione educativa è del
tutto ignorata; ancora una volta, destinati dell’assistenza non sono tutti i bambini nella fascia
zero-sei, ma solo i figli appartenenti alle famiglia degli strati sociali più bisognosi, per i quali lo
stato si limita a fornire alloggio e custodia.
All’ art. 4 del Regio Decreto n. 2316 del 16 dicembre 1934, testo unico che riordina le leggi
precedenti riguardanti la protezione della maternità e dell’infanzia , l’obiettivo principale
dell’ONMI presentano una struttura rigida, che resta sostanzialmente invariata per tutto il
periodo della loro esistenza, ossia 1975 quando la legge n. 698 giunge a decrementarne il
definitivo scioglimento trasferendo alle regioni le funzioni amministrative, i poteri di vigilanza e
di controllo e le funzioni di programmazione e d’indirizzo relative alle istituzioni pubbliche e
private per l’assistenza ee protezione della maternità e dell’infanzia. L’Opera non dispone di
strutture proprie almeno nella prima fase della sua vita e utilizza edifici e locali preesistenti.
In termine generali il modello tipico prevede strutture separate per le madri e per i bambini con
l’asilo nido vero e proprio suddiviso in due sezioni, quella dei lattanti e quella dei divezzi. Ai
genitori non era consentito l’accesso alle sezioni che ospitano i bambini e anche per altri
aspetti il regolamento e assai rigido e tale da conformare il nido come un luogo chiuso e
inaccessibile, piu simile ad una istituzione totale piuttosto che a una struttura con finalità
educative o di accoglienza. Se lo scopo fondamentale dell’Opera era stato quello di contrastare
il problema della mortalità infantile i dati ci testimoniano il reale fallimento di tale disegno e
delle politiche demografiche complessive del regime. I nidi ONMI resteranno a lungo attivi
anche dopo la fine dolorosa e squallida parentesi storica del fascismo italiano e potranno
essere messi in questione soltanto quando e nella misura in cui le trasformazioni profonde del
paese cominceranno a influire in maniera decisiva anche sulla concezione dei servizi per la
prima età. Saremo ormai nel pieno degli anni 70.
4) Gli anni 70, il movimento delle donne e la legge n. 1044
Ricapitolando quando detto in maniera molto sintetica finora, possiamo definire la prima
stagione di questo percorso storico come quella dell’assistenza filantropica alla prima età,
mentre nella seconda abbiamo visto lo stato assumere, pur con i limiti oggettivi e le chiusure
ideologiche che abbiamo evidenziato, la responsabilità dell’intervento assistenziale in chiave di
tutela della maternità e dell’infanzia. Il filo conduttore che lega assieme queste due fasi
storiche resta quello di un ottica che privilegia l’azione assistenziale e di custodia temporanea,
mancando di scorgere la possibile rilevanza educativa del nido. Il cambiamento di visione potrà
realizzarsi concretamente solo quando il miracolo economico degli anni 50 e 60 avrà introdotto
elementi di dinamismo all’interno di una struttura sociale fino a quel momento bloccata in un
rigido schema di classe, arrivando anche a scuotere i modelli familiari imperniati sulla cultura
tradizionale e patriarcale.
Sono gli anni in cui i movimenti delle donne si interrogano sulla condizione di esclusione
femminile dalla scena pubblica. Alle spalle delle lotte femministe per il riconoscimento delle
pari opportunità sul lavoro e della maternità come valore sociale del quale non siano solo le
donne chiamate a farsi carico si situano i primi movimenti di rivendicazione sindacale degli
anni 50 che si battono per migliorare le condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche e delle
aziende. Uno dei risultati piu significativi era stato ottenuto attraverso la conquista della legge
n.860 del 1950, che tra l’altro aveva istituito le “camere di allattamento” presso le imprese.
Viene cosi istituzionalizzato un servizio all’interno delle fabbriche in risposta alle esigenze delle
donne lavoratrici impiegate nelle attività produttive aziendali. Nel contesto di quegli anni si
trattava evidentemente di un importante conquista di diritti, che però riguarda soltanto una
categoria ristretta di donne e in verità la legge potrà determinare effetti soltanto nelle regioni
d